CONTATTO ZERO
Una storia di PABLO MIGUEL MAGNANI
Illustrazioni di ENZO FURFARO

Bambole e Rapitori

Milly teneva un passo rapido, non procedeva a caso, sapeva come orientarsi tra la vegetazione. Nella luce calante del tramonto le piante sembravano mani deformi che tentavano disperate di trattenerla. Arcadi era sicuro che la ragazza conosceva la strada. Dopotutto era rimasto privo di sensi mentre venivano soccorsi e invece lei aveva trattato con gli isolani e si era guardata intorno.
Neolib li aveva chiamati, rifletté Arcadi, un nome per coprire una verità scomoda. Chissà se anche lei lo aveva capito che erano dei sintoper? Chissà se l’isola era davvero un centro di commerci o più semplicemente una trappola per viandanti casuali?
Milly rallentò per mostrare il prossimo tratto del percorso. Una pausa era assolutamente dovuta, perché c’era materia di studio per quanto fossero in fuga. L’isola terminava poco distante, sulla riva che costeggiava il canale era adagiata la carcassa di un grande aereo. La fusoliera spezzata in più parti era stata colonizzata dalla vegetazione tipica dell’isola.
Né Arcadi né Milly potevano sapere cosa fosse un Ilyushin II-76, mastodontico aereo da trasporto di produzione russa. Lo considerarono come il risultato di un’architettura sperimentale, anfibia, spinto a riva da qualche sconvolgimento bellico. Non fecero caso alla scritta circolare sotto i finestrini della cabina di pilotaggio: Sinto Kirkus – Neoliberal Memories.
“L’ho visto quando ci hanno portati fuori dallo scolmatore – spiegò Milly – C’è quella passerella che si sporge vicino all’altra riva, forse potremmo…”
“Saltare dall’altra parte.” concluse Arcadi che decise di precederla per indirizzarsi verso la parte della fusoliera meno danneggiata. Aveva notato una scaletta di metallo. Era appoggiata in corrispondenza di un portello che per forma e spessore gli ricordava quelle dell’alveare.
Milly lo tallonava voltandosi indietro di tanto in tanto. La compagnia degli isolani era un’esperienza che intendeva lasciarsi alle spalle al più presto.
Arcadi spostò la scaletta facilmente, segno che quel percorso era già noto e usato. I gradini erano straordinariamente solidi e si fidò a invitare a salire Milly senza saggiarli tutti. Così, dopo un rapido sguardo, entrarono nella fusoliera. Una carcassa spoglia, depredata di tutto quanto potesse essere riciclato. Dello Ilyushin rimaneva un guscio vuoto di metallo che non arrugginiva, da usare come riparo quando sferzava il maltempo. Si vedevano infatti ganci per lanterne, stuoie e qualche cuscino ammuffito.
Non passava inosservato soprattutto lo squarcio nella parte superiore della struttura: da lì pioveva un ampio raggio di luce tramontana. Anche se era passato parecchio tempo dall’evento catastrofico, si capiva bene che il botto doveva essere stato tremendo. Era opera di un ‘confettino’ terra-aria tipico del turbolento periodo delle guerre vinte dagli amministratori.
L’occhio attento di Arcadi notò una scaletta a pioli gettata sotto proprio lo squarcio, maldestramente coperta da un telone plastico. Ci volle poco a sistemarla in modo da salirci sopra e sbirciare il panorama.
“Sbrigati!” lo incitò Milly per niente persuasa che gli isolani si fossero scordati di loro.
“Ah, forse potremo… – disse Arcadi, che poi si rivolse alla ragazza – vieni su, stai attenta alle lamiere.”
Lo squarcio offriva la vista sulla riva opposta, lambita dall’acqua e coperta da bassi filari di cespugli, che si preparava al calare del sole. Arcadi indicò a Milly qualcosa che stava poco sotto: la possente ala dell’aereo era ancora attaccata alla fusoliera e si estendeva sull’acqua come un gigantesco trampolino.
Milly guardò Arcadi con aria perplessa, ma scacciò immediatamente i suoi dubbi quando pensò d’aver udito un fruscio di felci fuori dall’aereo.
“Aiutami a scavalcare. Vado io per prima, sono più leggera.”
Milly mise la mano sulla spalla di Arcadi. Un altro contatto proibito, ma ormai giustificato dalle necessità di sopravvivenza. Si arrampicò reggendosi ai bordi anneriti del metallo dell’aereo e poi si fece cadere mezzo metro più sotto. Le sue scarpe zeppate non produssero suono.
Per saggiare l’ala, Milly fece altri due passi e altri due per vedere meglio fin dove l’ala si estendeva. Per fortuna ben oltre la metà del corso d’acqua.
“Io vado.” disse la ragazza facendo un cenno di saluto ad Arcadi che la guardò correre sul bordo dell’ala. La fusoliera era leggermente inclinata e l’ala, rispetto al terreno formava un angolo che Milly poteva sfruttare. La ragazza corse dritta approfittando anche dell’ultimo centimetro del fortunoso trampolino. Spiccò in salto tendendo il busto in avanti e mulinando la braccia all’indietro per stabilizzare il volo.
Arcadi la vide quasi sospesa in aria e seguì la sua traiettoria trattenendo il fiato. Milly atterrò con un tonfo nell’acqua, ma non affondò. Il fondale era basso e morbido abbastanza per attutire il colpo. Era rimasta conficcata a un paio di metri dalla riva, l’acqua le scorreva attorno ai fianchi, ma la corrente non era abbastanza forte per trascinarla via.
Arcadi affrontò l’operazione con meno baldanza della ragazza. Tutti i suoi timori sull’Esterno e il vuoto sembravano essersi dati appuntamento in quell’aereo scassato per proporgli una sfida. Ma non ebbe il tempo di avviare i mantra anti panico suggeriti dall’Equalizzatore: qualcuno stava salendo sulla scaletta addossata al portello. Passi di chi ha fretta e intenzioni non concilianti.
Arcadi balzò frettolosamente sull’ala e senza perdere un istante partì. Si accorse troppo tardi che i suoi scarponi non aderivano bene alla superficie leggermente inclinata. Rischiava di scivolare, sbattere e naufragare nelle acque intorbidite dalla luce del sole calante. Scelse allora di accelerare per guadagnare tutto lo slancio possibile: saltò prima del termine dell’ala.
Venne aiutato dal peso, un vero proiettile umano dalla traiettoria a parabola: piombò direttamente sulla riva di fango secco e lunghi fili d’erba. Le caviglie di Arcadi vennero salvate proprio dal morbido atterraggio. Il cuore gli batteva forte, la testa girava, però era tutto intero. Si districò dal piccolo pantano usando tutte le sue energie, aveva fretta andare di aiutare Milly. Voleva levarsi da quel tratto scoperto: prima di saltare sull’ala aveva intravisto con la coda dell’occhio una sagoma bianca che faceva capolino dalla scaletta. I Neolib avevano abbattuto il temibile Rumpo, ma non gli bastava: avevano inviato qualcuno per il recupero ‘crediti’ fuggitivi.
Milly era una ragazza robusta e intraprendente, si era cavata di impaccio prima che Arcadi venisse a soccorrerla. Anzi fu di nuovo lei a mettersi in testa, Arcadi le saltellava dietro cercando di liberarsi del fango che gli incrostava gli scarponi. I jeans dorati di Milly si inoltrarono nelle ombre sempre più lunghe e scure di una boscaglia sconosciuta.
“Si sono spenti due segnali.”
“Stai scherzando?” domandò Brumana sapendo benissimo che il suo interlocutore non ne aveva alcuna intenzione.
“Diavolo Coraggioso è da cinque ore che non si manifesta – disse l’uomo seduto dietro la colonna nell’ufficio dell’Agenzia – e adesso anche il Plus Rumpo è sparito.”
Brumana sbuffò, pensava di andarsene a dormire con una notizia positiva per coronare la bella giornata. Invece gli toccava una seccatura.
“Devi intervenire.”
“Un momento – disse Brumana risollevandosi dalla sua comoda poltrona – non dobbiamo essere precipitosi. Ci sono altri agenti in campo. Avete letto anche voi quale è il grado di esperienza di Arcadi. Davvero credete che possa danneggiare il piano?”
“Abbiamo un accordo.”
“E verrà rispettato.” ribatté Brumana a denti stretti.
Arcadi aveva finalmente trovato il tempo per consultare le mappe preparate dall’Agenzia. Peccato che fossero sparite dal suo gilet multitasca. Gli isolani le avevano trovate interessanti e lui nel rivestirsi si era concentrato sul suo armamentario, piuttosto che sul materiale da consultazione. I rapporti dell’Agenzia invece c’erano, ma letti e riletti davano poche informazioni. I nove intrusi erano già nella Zona rossa: stop. Anche senza documenti ci voleva poco a capire che il Diavolo Coraggioso e Rumpo appartenevano al gruppo. Non era stata mai segnalata la presenza di soggetti del genere: erano aggressivi, dotati di armi non concepite in Zona, era possibile che stessero puntando sugli alveari metropolitani. Insomma non erano intrusi spinti da fame o brama di bottino, questi avevano un piano.
“Cosa leggi? – chiese Milly levando con un legnetto le croste di fango dalle scarpe – Sai, non ho capito bene cosa ci fai fuori dal tuo alveare.”
Arcadi tenne gli occhi sul rapporto e finse di non aver sentito.
“Se ne dicono tante su di voi. Maniaci, paranoici… assassini.”
“Dove le hai sentite tutte queste parole?” chiese Arcadi guardando la ragazza.
Milly fece spallucce e buttò un rametto secco nel fuoco. Si erano accampati al riparo, sotto una rampa autostradale. La notte della Zona rossa era appena iniziata: fredda e accompagnata da folate di un vento che soffiava detriti abrasivi di microplastiche. Il posto lo aveva trovato Milly, che indubbiamente doveva essere pratica della zona. Arcadi non era ancora entrato in argomento.
“Ti fa ancora male il braccio? Se vuoi ho qualcosa…”
“Rimedi naturali dall’alveare? No, grazie, mi tengo la cicatrice. Così imparo a fidarmi di certe carogne”
La ragazza abbottonò le maniche del giubbotto e si piazzò davanti al fuoco con un’espressione imbronciata che metteva in risalto le sue labbra piene.
Arcadi si rimise a leggere, più che altro per pensare alla prossima mossa: senza le mappe aveva ben poco per iniziare un’indagine sul campo. Non aveva molte alternative, doveva ricontattare l’Agenzia e farsi recapitare nuove indicazioni. Una prospettiva che non gli piaceva per niente. Significava rimettersi a parlare con Brumana, o meglio a sentire i suoi rimproveri. Perché non si poteva attendere altro.
“Dimmi un po’… – riprese Milly che aveva già smaltito il broncio – è vero che là dentro, negli alveari, fate l’amore con le bambole? E le chiamate mogli?”
Arcadi, colto di sorpresa, non sapeva che dire. Bambole. Non aveva mai considerato le sintoper, le persone sintetiche, in quel modo. Mari era la sua compagna, sua moglie a tutti gli effetti. Ogni inquilino aveva un compagno. Era naturale, salutare. Gli Amministratori provvedevano a fornire le sintoper che ritenevano adeguate ai bisogni di ogni residente.
Certo, considerava Arcadi, la sua Mari non era una persona viva in senso ‘naturale’, era un essere artificiale, ma non l’aveva mai guardata come un oggetto, un utensile. Mari non era una creatura fuori controllo come la dottoressa Target e gli altri dell’Isola. Mari gli aveva sempre manifestato un forte attaccamento, cercava di seguire le curve del suo umore, distogliendolo dalle depressioni, accompagnandolo in una convivenza di mutuo rispetto. Una bambola, Mari? No.
“Come si chiama?” tornò alla carica Milly
“Chi?”
“Tua moglie, no?”
Arcadi cedette: “Mari.”
“E come è? Carina?”
Arcadi non era sicuro che Milly volesse saperlo. Aveva un’aria insolente, come se volesse cavargli fuori un qualche segreto che lei già conosceva.
“Ti vergogni?”
“No, perché? È il nostro modo di vivere, si cerca di fare ciò che la natura ci concede.”
“Ah, se ti pare naturale passare la vita con una bambola.”
“Non è una bambola. – Arcadi si stava stancando di quell’interrogatorio poco chiaro, di solito era lui a fare domande – È una compagna e…”
“E come li fate i bambini? Con i secchi e gli imbuti?”
Arcadi si alzò in piedi, innervosito. Non aveva una risposta. Non aveva una spiegazione chiara per un’estranea. E neppure per se stesso. Sapeva che le sintoper provvedevano a completare il processo riproduttivo. Dopo che era stato con Mari, lei avrebbe ricevuto Carlos e poi lui sarebbe tornato nel cellapp di Dina Soren e avrebbero avuto un figlio… forse.
“Va bene, non sai come nascono i bambini – disse Milly con un sorrisetto provocatorio – Non è un dramma. Si impara. Invece ad ammazzare scommetto che sei bravo. Tu non sei un manutentore, vero? Un riparatore di piattaforme non va in giro con tutte quelle armi.”
“E tu che ne sai?”
“Ne so abbastanza. Non sono mica nata in laboratorio!”
Arcadi esplose: “Se hai qualcosa da dire parla, non girarci intorno, chiaro?”
La ragazza si alzò in piedi di scatto: “Perché? Altrimenti che fai? Mi spari? Mi spezzi l’osso del collo?”
Il volto Milly era illuminato dalle fiammelle, gli occhi spalancati brillavano di rabbia. Arcadi realizzò che forse si era sbagliato: era lei che intendeva portare alla luce il suo segreto.
“Vai all’inferno! Anzi, ci vado io: è il posto che conosco meglio.”
Milly abbandonò l’alone luminoso del piccolo falò e scomparve nel buio. Arcadi ci mise un paio di istanti per realizzare che non si era ritirata per smaltire il sovraccarico emotivo: se ne stava andando. E con lei spariva anche l’unica guida utile in quel territorio ostile.
Scattò in piedi e senza trattenere un tremito, entrò nel regno ignoto del buio dell’Esterno.
Milly era risalita per un troncone della rampa autostradale. Voleva allontanarsi da quella persona falsa e ignorante. Era forte, era sveglia, ripeteva tra sé, avrebbe trovato una nuova compagnia. Magari non come i contrabbandieri del Po, con i quali si era accompagnata, che si erano fatti fuori l’un con l’altro per avidità e invidia.
Da qualche parte ci deve essere ancora qualche essere umano decente, si disse Milly.
Era arrivata sul piano sopraelevato dell’autostrada. Era una delle ultime costruzioni viarie della Zona rossa, quindi in discreto stato di conservazione. Durante le guerre avevano evitato di farla saltare in aria: una buona strada è utile a tutti. Serve ai carri di merci e ai carri armati.
La strada era un lungo nastro steso nel buio della notte. Due vaste carreggiate contenute da guardrail bucherellati e divise da una dorsale di cemento ormai modellata dalla lima del vento abrasivo. I grani più grossi del pulviscolo ventoso si erano depositati sul fondo stradale creando uno strato quasi uniforme, ad effetto liquido. Per spostarsi in sicurezza era meglio avere scarpe grosse e un senso dell’equilibrio ben affinato.
Milly con le sue scarpe bianche a zeppa si muoveva senza affanni. Pattinava tranquilla sopra la polvere granulosa, le braccia dietro la schiena e la testa alta. I suoi occhi lucidi cercavano una luce in cielo. La cortina di nuvole offriva strisce di cielo stellato, ma la luna era bandita dallo spettacolo di quell’angolo di terra martoriata.
Ormai, oltre un centinaio di metri più indietro, arrancava Arcadi. Lui della luna in genere se ne fregava, ma quella notte un lumicino gli avrebbe fatto un gran comodo. Arcadi scrutava nel buio nella speranza di cogliere un riflesso dei jeans dorati di Milly. Ma niente.
Si chinò, mettendosi in ascolto, per cercare di udire almeno i suoi passi tra le folate di vento. Niente.
Controllò allora il terreno tastandolo con la mano. Il vento non batteva direttamente sulla carreggiata, lo strato di grani di plastica era stato spostato. Sentiva il catrame. Milly era passata da quella parte e, senza volerlo, gli aveva aperto la strada.
Arcadi iniziò a camminare, inizialmente senza affrettare troppo il passo, perché sentiva che i granelli traditori si incastravano sotto i suoi scarponi, pronti a farlo cadere. Eppure man mano che avanzava sentiva meno frammenti sotto le suole. Segno che il passaggio di Milly era recente. Gli venne la pessima idea di azzardare un passo di corsa.
Si ritrovò bocconi. Le mani sul catrame e i granelli di plastica conficcati nelle palme. Rotolò sulla schiena, trattenendo un gemito e dandosi dell’idiota. Al buio estrasse dal gilet la cannuccia del gel disinfettante se lo passò sulle mani grattando via i granelli. Fortunatamente nessun taglio. Quanto era meglio la morbida terra della serra, pensò.
Arcadi si rimise in piedi per riprendere la camminata d’avvicinamento. Fu in quel momento che sulla linea immaginaria dell’orizzonte autostradale si accesero le luci. Un cerchio luminoso rotante, poi due, tre, e di nuovo uno. Arcadi riprese a camminare. Valutò che dovevano essere a circa trecento metri da lui.
I cerchi sembravano spostarsi in un’area specifica della carreggiata autostradale. Cerchi di luce che si muovevano in circolo, si moltiplicavano e si sottraevano.
Hanno trovato Milly, concluse Arcadi, l’hanno circondata, forse stanno lottando.
L’impulso fu di mettersi a correre. La lezione di prima però era bastata. Così Arcadi cercò di imitare il passo strisciato che aveva fatto viaggiare Milly. I suoi scarponi non erano adatti, però non gli importava.
Un grido. Milly.
Arcadi si bloccò. Prese le due parti del neutralizzatore che portava agganciate ai fianchi e le combinò in un’unica arma. La puntò in aria e fece fuoco. Letteralmente fuoco: una fontana di fiamme che illuminò il tratto di autostrada abbandonata.
Nella manciata di secondi di luce Arcadi riuscì a scorgere cosa accadeva a Milly: la ragazza, urlante e scalciante, era stata messa su un carretto da un paio di individui. Intorno a lei circolavano delle biciclette con mastodontiche ruote: i cerchi luminosi.
Arcadi sapeva che una volta rivelata la sua posizione aveva perso il fattore sorpresa. L’uso del neutralizzatore avrebbe messo le ali ai piedi di quei briganti stradali. Doveva sbrigarsi. Anche se non era stata la sua prima preoccupazione, la strada che lo separava dagli aggressori era abbastanza sgombra per tentare una corsa. Il suo scatto però terminò di nuovo a terra.
Uno spintone alle spalle, non troppo forte perché Arcadi era già in movimento, ma ben deciso, l’aveva sbilanciato. Attutì la caduta con il neutralizzatore e rotolò di lato come aveva fatto prima. Senza neppure rialzarsi Arcadi sventagliò una fiammata. Il nemico non poteva essere molto lontano. E infatti lo prese in pieno.
La figura lottò per scacciare le fiamme. Smanacciava come per levarsi di dosso dei fiocchi di neve. Ma il fuoco ormai l’aveva stretto nel suo abbraccio distruttore. Prima di cadere oltre il guardrail, Arcadi notò che la torcia umana indossava pantaloni bianchi e scarpe da cricket.
Per la prima volta considerò che l’attaccamento delle sintoper ai loro compiti aveva qualcosa di inuman
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