CONTATTO ZERO
Una storia di PABLO MIGUEL MAGNANI
Illustrazioni di ENZO FURFARO

Tutti in Sella!

“Ohi! Apri gli occhi segugio!”
Un ciottolo sul ginocchio destro fu la brusca sveglia di Arcadi dopo una notte trascorsa in una nicchia di cemento nella traversa fra le due carreggiate dell’autostrada.
La faccia grinzosa di un anziano occupava un quinto del cielo sopra Arcadi. Si era avvicinato in forma estremamente discreta e silenziosa. Si era appollaiato su un blocco di cemento come un grosso uccello che guatava la preda.
Arcadi ne studiò la faccia rugosa che spuntava da una corta mantella blu notte a frange. Pareva una faccia di cuoio assemblata con delle cuciture nascoste. Occhi scuri e puntuti, e un sorriso vago che delimitava un set di denti bianchissimi. Arcadi percepì uno spirito giovanile, privo di malizie.
“Fatto buon sonno?”
“Sei uno di quelli che si è portato via la ragazza?”
“Oh, beh, diciamo di sì. Le abbiamo dato uno strappo. Non stava bene andarsene in giro a notte fonda sulla nostra strada.”
“La vostra cosa?” Arcadi raddrizzò la schiena mentre questionava. Una mossa per capire se il vecchio era accompagnato. In due occhiate non vide nessuno attorno. Gli dava fastidio essere stato sorpreso come un principiante. Era quasi come dare un punto a favore della scarsa fiducia di Brumana.
“Chi ti dice che mi importi di lei?
“È una bella ragazza, no?”
“Se ne trovano.”
“Nella Zona rossa? –domandò ridacchiando. –E poi tu sei mai stato con una donna vera?”
“Forse no, ma so riconoscere una vera minaccia quando ce l’ho davanti.” Arcadi appoggiò il braccio teso sul ginocchio indolenzito. Stretto nel pugno aveva il maglio e mirava dritto alla gola del vecchio.
“Andiamo, non sono qui per uno scontro. Voglio trovare un socio.”
“Un socio…”
“Sì, un personaggio del tuo calibro è quel che serve per una certa impresa. E poi avrai anche la ragazza.”
“E se non mi interessasse?”
“Come? Un avventuriero del tuo stampo che si tira indietro? No, non ci credo. Hai tutto da guadagnare. In palio c’è anche un biciclo per due. Sei piuttosto fuori dalle rotte degli alveari, hai bisogno di un mezzo di trasporto. Altrimenti non tornerai più dalle tue bambole.”
Arcadi si rimise in piedi, con calma, senza perdere d’occhio il vecchio. Dietro di lui, come un’aureola da santo delle strade abbandonate, si stagliava la grossa ruota di un biciclo. I raggi metallici sembravano spuntare dietro la sua schiena. Il cerchione color bronzo brillava convinto sotto il sole.
“Ti piace il mio Radius Principal? Eh, ci credo, non è un ferrovecchio pescato in museo. L’abbiamo costruito su in valle e vedessi come fila, anche sullo serrato. Ma, inutile parlarne, devi provarlo.”
“Io… su quel coso?”
Il vecchio si spostò rivelando una padronanza di movimenti poco compatibile con la sua età presunta. Si mise a quattro passi di distanza, segno che conosceva l’etichetta del Contatto zero.
“Sicuro, su quello. Mai prendere un biciclo senza una prova su strada. È la regola, signor…”
“Erik. E tu?”
“Mi han chiamato in tanti modi e il mio vero nome non ha perso importanza. Qui sulla strada mi chiamano Sbirro. Per via del lavoro che facevo, ero un uomo d’ordine.”
Arcadi si guardò di nuovo intorno. Poteva essere un trucco per fargli abbassare le difese. Il vecchio però pareva sincero e il suo completo blu notte lo faceva davvero sembrare un gendarme d’altri tempi.
“C’eri quando è successo?” Arcadi fece un breve cenno con la testa verso la spianata martoriata di terra e rovine che si estendeva a perdita d’occhio oltre i guardrail dell’autostrada.
“Come no. Brutti tempi…” i suoi occhi si persero per un momento in un flusso di ricordi. Si riprese subito illustrando il Radius Principal: biciclo biposto, trazione anteriore e moltiplicatore dinamico, sette cambi e carica per l’illuminazione notturna. Per Arcadi una novità totale.
I passeggeri pedalanti si accomodavano su sue sellini, ciascuno con manubrio, ma soltanto quello anteriore ovviamente gestiva la direzione da prendere. Il biciclo era di metallo cromato e plastiche sconosciute ai bioprodotti degli alveari. Arcadi stimò che fosse il risultato di diverse produzioni, difficile credere fosse un lavoro artigianale. Forse era il risultato di una tecnologia giunta da qualche remota regione dell’Esterno. Il vecchio Sbirro non era stato totalmente limpido, voleva incuriosirlo. E ci stava riuscendo, concluse Arcadi.
“Cos’è questa parte su cui appoggia?”
“È un alettone. Ci fa da cavalletto quando parcheggi e nella pedalata ad alta velocità serve a stabilizzare. Sai com’è, le strade non sono più quelle di una volta… ah, ma tu non sai come erano una volta…”
Sbirro sghignazzò facendo sobbalzare la mantella: “Dai monta: giro di prova!”
“Ascolta –disse Arcadi troncando gli entusiasmi del vecchio –magari più tardi. Prima è meglio mettere in chiaro… insomma che cosa dovrei fare?”
“Io e i miei soci ti chiediamo una cosetta semplice: fare baccano!”
Arcadi corrugò la fronte, non conosceva la parola.
“Fare rumore! Casino! Confusione! Abbiamo visto la tua esibizione fiammeggiante ieri notte e abbiamo pensato che eri l’uomo per noi. Dai, pigliati questi.”
Da sotto la mantella Sbirro tirò fuori una cuffietta da carrista imbottita di gommapiuma e un paio di occhialoni con elastico, che consegnò ad Arcadi.
“Sicurezza innanzitutto! Forza Erik!” disse l’anziano montando sul biciclo e indossando la sua dotazione personale di cuffia e occhialoni. Arcadi lo imitò e cercò di restare col sedere in equilibrio sul sellino.
“Lo so –ammise Sbirro –all’inizio è un po’ complicato, ma si prende l’abitudine velocemente. Iniziamo a pedalare per accumulare la carica.”
Bastò un minuto scarso, poi Sbirro ruotò il cambio sul manubrio e la grande ruota del biciclo cominciò a girare. L’alettone grattò un poco sull’asfalto e Sbirro fece cenno di spostare il peso sulla parte opposta: così il biciclo partì sull’antica autostrada.
Presero velocità rapidamente, la guida di Sbirro era sicura, pochi ondeggiamenti, deviazioni morbide. Il biciclo sollevava una scia di polvere grossa e l’aria tra i raggi sibilava allegra. Il paesaggio della pianura sconvolta, una volta messo in movimento, risultava meno tetro. Un paesaggio impressionista di chiazze di colore marcato che lasciavano l’occhio libero di registrare senza dover assegnare significato.
“È inutile che ti spieghi che in questa terra dimenticata esistono ricchi possidenti e gente che stenta a campare –disse Sbirro senza interrompere il ritmo della pedalata –Tu appartieni alla prima categoria, però ti trovi in difficoltà. Sei fuori dal tuo alveare e hai perso contatti con la tua gente. Noi possiamo metterti sulla giusta strada, una strada sicura. E darti la dovuta assistenza…”
“In cambio di un’esibizione.” chiuse la frase Arcadi aggiustandosi la cuffia imbottita.
“Vedo che ci siamo capiti. Non è una faccenda complicata: abbiamo bisogno di distrarre dei guardiani da un deposito di materiale che ci interessa, ci serve per tirare avanti.”
“È per la tua famiglia?”
“Ahahah. Sì, diciamo, così. Una famiglia allargata. Una piccola congrega, meglio.”
“Milly sta con voi?”
“No, mai vista prima. Però ci ha parlato di te, le hai salvato la vita.”
Anche lei lo ha fatto, pensò Arcadi.
Sbirro fece piegare il biciclo sulla destra e si tuffò giù per una rampa a una velocità che Arcadi ritenne azzardata, ma la sua destrezza al manubrio teneva lontani i timori. Fino a quel momento non c’era stato che qualche minimo sobbalzo. Perciò quando, scesi dall’autostrada, si curvò bruscamente a sinistra, Arcadi si strinse al manubrio smettendo di pedalare per lo spavento.
Si stavano inoltrando tra i rimasugli masticati di una strada identificabile soltanto da chi l’aveva già percorsa negli anni. Non era un rettilineo e neppure un sentiero sinuoso, piuttosto un percorso cross campestre con irregolari saliscendi e strati di materiali sovrapposti di varia consistenza. Le due ruote, debitamente ammortizzate, risparmiavano ai due biciclisti lo strazio degli scossoni più duri. Certo, il viaggio si fece più movimentato, ma il terreno infido che inquietava Arcadi sembrava addomesticato dal passaggio deciso della Radius Principal di Sbirro. L’Esterno selvaggio faceva meno paura seduti su un mezzo veloce.
“Sai, un tempo qui era tutta periferia cittadina –spiegava Sbirro a voce alta –Cose tipo aziende, stazioni di servizio, uffici, vendite all’ingrosso, magazzini e tanta altra roba che si costruiva tra una città e l’altra. Quando hanno cominciato a spararsi nelle città, tanta gente si è trasferita qui. Dopo un po’ non si capiva più cosa era città o altro. Russi e Svizzeri vendevano armi a tutti: mitragliatori, spargi mine, lancia missili, finché sono finiti i compratori. Tranne gli amministratori, ovviamente.”
Arcadi era tentato di chiedergli per quale fazione avesse combattuto. Domanda stupida. Era evidente che Sbirro non aveva accettato le regole degli alveari.
La scampagnata procedeva su una rotta indefinibile. Almeno per quanto potesse interpretare il bassissimo senso dell’orientamento di Arcadi, una qualità che vivendo negli alveari si era pressoché smarrita. Le mappe, coordinate sui flussi di pollini emessi dagli alveari, potevano offrire direzioni e distanze con una buona approssimazione. Il fatto che fossero finite nella mani di quel branco di folli sintoper isolani non piaceva per niente ad Arcadi.
“Conosci i tizi dell’Isola?” chiese a Sbirro.
“Chi, i Neolib? Certo, ma è gente da cui stare alla larga. A volte si riesce a fare qualche baratto con loro ma con quattro occhi aperti e uno dietro la testa.”
“Non è gente. Sono sintoper.”
“E allora? Non sono come quelli che vi tenete negli alveari?”
“Sì, ma questi non si accompagnano a nessuno. Nessuno li controlla. Hanno ferito Milly e credo che ci avrebbero fatto volentieri a pezzi. Sono un pericolo.”
“Ah, mettiti il cuore in pace. Non sappiamo per chi siano stati costruiti, ma non hanno intenzione di spostarsi dall’Isola. Quello è il loro regno. Anzi la loro azienda madre e da lì non si sono mai mossi. Pensano di essere al centro del mondo… non sono gli unici…”
Una buca traditrice fece slittare la ruota anteriore. Ma Sbirro tenne saldo il manubrio.
“Ci siamo quasi” disse il vecchio.
Arcadi si guardò attorno senza notare cambiamenti significativi nello scenario sconnesso e devastato.
“Là! – indicò Sbirro –Dietro quella collinetta c’è il posto per la tua esibizione. A questo punto manca soltanto un po’ di vento per darci una mano. Però anche se non venisse, penso che il tuo fuoco basterà.”
Ad Arcadi passò per la mente che si stava infilando nelle follie di un pazzo. Chi gli garantiva che questo tizio fosse uno della banda dell’altra notte? E poi dov’era Milly?
“Milly sarà là dove stiamo andando?”
“No amico, Troppo facile così. Non appena avrai sputato fuoco. La vedrai subito. Non ti preoccupare, non hai niente da temere. Niente da perdere.”
Aggirarono la ‘collinetta’, una formazione di vecchi mattoni rossi ridotti a poltiglia dal vento e dall’acqua che li macerava in ampie pozze umide. Timide sterpaglie spiniformi sbucavano dal terreno. Piante parsimoniose, essenziali. Nel giro di un centinaio di metri i cespugli crescevano e diventavano siepi, grovigli, covoni spettrali che si innalzavano coprendo vasti tratti di orizzonte. Quella terra povera di nutrimento non poteva sostentare una vegetazione più rigogliosa. Arcadi sentì la nostalgia del verde della serra, dell’odore intenso della clorofilla tramutata in foglia, ramo, albero. L’Esterno era disperatamente spoglio. Cominciava a sentire la mancanza delle pareti protettive del cellapp. Invece Mari, pensò Arcadi, la guarderò certo con altri occhi.
“Ci siamo! Guarda chi ci aspetta.”
Arcadi allungò il collo e in fondo a un crinale sconnesso vide due bicicli sopra una radura violastra. La raggiunsero con meno di dieci pedalate. Sbirro sterzò stretto e l’alettone poggiò di nuovo a terra.
“Salve ragazzi!”
Arcadi notò che il saluto era effettivamente rivolto a due ragazzi. Anche loro nella divisa del clan: mantella blu notte, cuffiette da carrista e occhialoni. Per quanto fossero bardati Arcadi distinse la ragazzina: aveva le cinghie della cuffietta annodate sotto il mento e dei bottoncini dorati sulle maniche.
“Erik, ti presento Paolo e Francesca. Ti faranno compagnia durante le fiammate e, nel caso occorra, ti accompagneranno al sicuro.”
“Ma tu dove vai? E da cosa dovrei mettermi al sicuro?”
“Non ti hanno mai detto che non bisogna scherzare con il fuoco?” Sbirro strizzò l’occhio costringendo l’intera pelle della faccia a raggrinzirsi in una tremenda sequenza di pieghe. Poi riattaccò il moltiplicatore e si involò giù per una piccola scarpata nella direzione del sole.
Arcadi era confuso e anche stupito per la facilità con cui si era fatto trascinare in quella vicenda profondamente nebulosa.
Paolo e Francesca intanto lo studiavano in silenzio. Forse intimoriti.
“Come si chiama la vostra banda? – Chiese Arcadi –Oppure quello è vostro nonno?”
“Chi, Sbirro? Oh no” disse Paolo strusciando il dito sul naso a bottone.
“Non siamo parenti –specificò Francesca –ci hanno raccolti Sbirro e Pulo.”
“E chi sarebbe questo Pulo?”
“Il socio di Sbirro.” precisò Paolo, come se fosse cosa notoria al resto del mondo.
Arcadi cominciava a pensare a una grossa fregatura, ma non riusciva a definirne la portata.
“Che facciamo allora? Quando si comincia?”
“Te lo diciamo noi –rispose la ragazzina –Non manca molto.”
“Guarda il mio cronografo.” disse Paolo mostrando un tronco di cono color bronzo che portava allacciato al polso. Arcadi però non si mosse, sbirciò a distanza: nel cono ticchettavano delle rotelline dentate. Una forma di misura del tempo.
“Bene. Bene.” disse Arcadi pensando il contrario.
“Tanto vale che mi prepari –sganciò i due pezzi del neutralizzatore e li compose –Voi che la sapete lunga: dove devo fare fuoco? Destra, sinistra, nord?”
Paolo indicò la foresta di spine.
Fuoco distruttore. Fiamme che purificano. Rogo di liberazione. Il neutralizzatore non era stato concepito per ferire la natura. Il neutralizzatore era l’arma definitiva contro la minaccia dell’infezione.
Arcadi avrebbe preso a calci Sbirro. Se lo promise solennemente
© 2020 – Associazione Culturale RetroEdicola Videoludica – via Gabriele Rosa 18c – Bergamo
1° edizione – Progetto Iskandar – Marzo 2020
Tutti i diritti riservati