CONTATTO ZERO

Una storia di PABLO MIGUEL MAGNANI
Illustrazioni di ENZO FURFARO
Contatto zero
Contatto zero è un racconto ambientato nella Zona rossa, un luogo a 30 anni di distanza da noi, 30 anni dopo il virus. È un mondo nuovo: ogni contatto fisico vietato, ogni rapporto sociale mediato. È un mondo minacciato dagli intrusi e difeso dai liquidatori che proteggono gli alveari. Ma Erik Arcadi sta per scoprire che…

Morte in Sogno

Non c’era molto da bruciare, però la quantità di materiale secco ammassato offriva un buon alimento al rogo, che divampava in largo investendo la scarpata. Presto Paolo, Francesca e Arcadi dovettero cambiare posizione: rotoli di cespugli spinosi in fiamme si distaccavano dalla massa crepitante, espulsi come grumi di sangue.

Francesca, che parlava poco come ogni graduato con consegne, decise che era il momento di allontanarsi. Arcadi montò sul biciclo insieme a Paolo, Francesca li precedeva. Costeggiarono l’area devastata dall’incendio mentre una coltre di fumo biancastro iniziava a levarsi in spire sempre più intense.

Arcadi ebbe una immagine di se stesso soffocato in mezzo al fango cementizio di quelle lande disgraziate. I ragazzini però pedalavano svelti, stretti ai manubri perché gli ammortizzatori potevano poco sul manto di plastilina grigio verde che caratterizzava i dintorni. Indubbiamente seguivano un percorso predefinito. Arcadi se lo augurava. Non aveva intenzione di confrontarsi con due ragazzini appena incrociati.

Nel cielo striato di fumo e nuvole sfrecciò un oggetto scuro. Arcadi colse subito il movimento, ma la posizione sul sellino del passeggero del biciclo non favoriva l’osservazione. Non ebbe bisogno di interrogarsi a lungo sulla sua natura. Perché l’oggetto tornò a solcare il cielo in direzione opposta. L’aveva visto anche Francesca, perché si lasciò sfuggire una risata gioiosa alla quale rispose Paolo.

Un drone! Era quello l’obiettivo. Richiamare l’attenzione di un drone. Arcadi si sentì avvampare: l’avevano ingannato per danneggiare la sua stessa gente.

Smise di pedalare. Poi afferrò Paolo per le spalle: “Ehi, fermati! Vedi di fermarti!”

“Ehi, no… non possiamo adesso… è ancora vicino… dobbiamo filare.”

Arcadi però aveva perso la pazienza e cominciò a strattonarlo impedendogli di gestire le sterzate sul terreno accidentato. Bastò un labile rilievo, la ruota anteriore picchiò lateralmente e il manubrio sfuggì di mano a Paolo. Tutti e due si ritrovarono a rotolare per una conca pelata.

“Attenti!” L’avvertimento di Francesca era inutile. Il biciclo era a terra, come i due pedalatori. Il drone si stava avvicinando.

La ragazzina invertì la direzione e puntò verso il piccolo velivolo scuro, una abnorme mosca metallica che indagava sull’incendio. Francesca voleva attirarlo a sé per distoglierlo dai compagni.

Arcadi conosceva bene le potenzialità offensive dei droni: era una mossa coraggiosa, ma una pessima idea.

Francesca si proiettò in mezzo al fumo lanciando degli strilli che subito vennero rilevati dai sensori del drone. La macchina planò per circoscrivere l’area di provenienza. Non era semplice dall’alto, il fumo si stava componendo in un nuvolone simile ad un gigantesco centipede fluttuante. Arcadi sparò in sequenza tutti i suoi proiettili contro il drone. Sperava soprattutto di disattivare i sistemi di trasmissione. La grossa mosca accusò danni ai rotori e alle telecamere prima di spezzarsi e piombare nello spineto in fiamme.

Il pugno gli arrivò sotto il mento. Un uppercut in gergo pugilistico. Un dolore tremendo che mandò Arcadi a sedere a terra, con tanto di stelline rosse e nere orbitanti nel campo visivo.

“Erik – lo rimproverò bonariamente Sbirro – ti avevo detto di non scherzare con il fuoco.”

Intanto il fuoco, ossia Pulo, si massaggiava le nocche guardando in cagnesco Arcadi: “E se ci riprova gli lascio un bollino permanente. A memoria imperitura sua e di tutti i suoi amici Amministratori di m…”

Pulo era suppergiù coetaneo di Sbirro. Stessa calvizie ispida, stessa abbronzatura, ma sullo zigomo destro una cicatrice bianca. Roba di vecchie ruggini tra amici.

Arcadi si era promesso di prendere a calci Sbirro, ma aveva trovato Pulo sulla sua strada e a lui l’idea non era piaciuta. I calci non erano compresi nell’affare.

C’era già tensione nell’aria: la banda era indaffarata a radunare e riordinare materiale dai carrelli agganciati ai bicicli e ai quadricicli. Tondini di ferro contorti, ripiani da cucina in alluminio o simile metallo, lastre crepate di finto marmo. Tutto materiale già pulito. Già estratto dalle discariche interrate, i giacimenti dove i droni attingevano la materia prima per le grandi opere concepite dagli Amministratori.

Materie prime per nuove opere. Opere intralciate da una banda di predoni che aveva fatto man bassa in un deposito nei pressi di una discarica. E a distrarre e distruggere il drone guardiano era stato proprio Arcadi. Ci era cascato come l’ultimo dei pivelli. Forse peggio.

Brumana gli avrebbe tolto la qualifica non appena l’avesse saputo. Non aspettava altro. L’unica possibilità, pensava Arcadi, era che il drone non l’avesse registrato e trasmesso i dati alle centrali.

Sbirro gli schioccò le dita davanti agli occhi: “Andiamo Erik, alzati! È tempo di muoversi. Devi riprendere la tua strada, c’è Milly che ti aspetta e anche il biciclo pattuito.”

Arcadi sbatté le palpebre e lentamente si mise in ginocchio prima di tentare la posizione eretta. Attorno trafficavano una quindicina di mantelli blu, impegnati a distribuire nei carrelli il materiale e a fissarlo con cavi e cordame per evitare di perderlo in corsa. Erano ragazze e ragazzi, attorno ai quindici, sedici anni. Una ciurma laboriosa e totalmente dedicata all’impresa.

Arcadi scorse Paolo che lo guardava senza fermare le mani paffute: stava imbragando delle specie di tegole nere con la scritta ‘sung’ in rilievo. Tentò un cenno di saluto e lui rispose sorridendo. L’avevano scampata bella. Francesca probabilmente non era molto lontana, ma aveva altro per la testa. Sbirro e Pulo non stavano mettendo assieme dei predoni, c’era un’idea di comunità.

“Ti serve una mano?” era Milly. Il suo abbigliamento aveva guadagnato una sciarpa elastica verde marcio. Le maniche del giubbotto erano arrotolate. Sul braccio ferito risaltava una striscia rossa, un cicatrizzante offerto dalla banda di Sbirro.

“No, andiamo.” Arcadi si spolverò il pantaloni. La voglia insensata di fare a botte era evaporata. Un proposito stupido. Ormai il danno era fatto. Soltanto rientrando agli alveari avrebbe scoperto se la sua carriera di liquidatore era terminata.

“Ciao Erik! – lo salutò Sbirro, già in sella alla sua Radius Principal – È stato un piacere. E mi raccomando stai in salute.”

La risata di chiusura gli stropicciò la faccia di rughe con il solito effetto brutto a vedersi. Fu quello il segnale di partenza della carovana dei biciclisti. Un polverone sollevato dalle grandi ruote che macinavano il terreno scompigliato inghiottì il gruppo. Arcadi e Milly restarono sotto il sole di mezzogiorno drappeggiato dal velame di nuvole sottili.

Milly aveva insistito per stare alla guida del biciclo. Arcadi non era convinto, ma preferiva evitare discussioni inutili con la ragazza. Tanto alla fine avrebbe fatto comunque quel che le pareva e soprattutto era la sua guida preziosa in quei territori sconosciuti. Perciò si faceva scarrozzare massaggiandosi il livido sul mento, giusto sotto la barba. Gli venne in mente il gesto della barba lisciata di Zaverio, ma dubitava che quell’essere gentile, votato alla cura delle piante, avesse mai fatto a pugni con qualcuno.

All’improvviso Arcadi avvertì nell’aria un odore nuovo. Un odore persistente di dolce, come olio riscaldato. Cercò la fonte guardandosi intorno: alla sua sinistra si dipanava una teoria di dune dall’anima di mattone e scampoli di muri preda di muschi e rampicanti. A destra, il sole fiacco si specchiava nei frantumi di stagni melmosi e pozze di forma circolare.

Non una pianta in vista, nè altra fonte evidente. Forse, pensò Arcadi, è una reazione chimica, qualcosa che fermenta nelle pozzanghere.

Non osava immaginare l’ipotesi peggiore, ossia che i filtri nasali si fossero danneggiati o non fossero in grado di isolarlo da qualche micro organismo ignoto.

“Non lo senti anche tu?” chiese a Milly concentrata nella guida.

“Sentire cosa?”

Arcadi perse subito interesse nella risposta perché un’onda di luce lo accecò. Perse l’equilibrio e sentì il biciclo capovolgersi. Ma non fu una caduta brusca o drammatica, quasi un movimento al rallentatore: Arcadi dopo una breve vertigine si ritrovò in piedi, però non riusciva ad aprire gli occhi: un riverbero insistente gli impediva la vista, in qualunque direzione spostasse la testa.

“Milly… dove sei? …Milly?”

“Da questa parte.”

“Cosa è successo: non ci vedo? Da dove arriva questa luce?”

“Luce? Apri gli occhi. Adesso, su.”

Arcadi riprovò schermandosi con le mani. C’era ancora luce, ma era un riflesso calmo che si accompagnava ad un rumore di fondo, come una carezza costante: il mare.

Come siamo arrivati al mare, si chiedeva Arcadi, la Zona rossa non confina con il mare, forse è il lago Mayor, ma dovrebbe essere più a nord, non è possibile che ci sia tanta acqua.

Però più si ripeteva che era impossibile e più si perdeva nella visione di quelle onde d’argento sulla tavola azzurra. Era un paesaggio d’incanto, come nel suo sogno. Una massa d’acqua che respirava. Tutto il resto era luce. E Milly.

Scalza, con i jeans arrotolati sui polpacci delle gambe, la ragazza giocava a bagnarsi i piedi sulla sabbia umida. Arcadi mosse qualche passo verso di lei prima di sentire una pressione sulla nuca.

“Arcadi, che ci fai qui?”

“Brumana?”

Il suo capo era sbucato da un gruppo di palme che erano spuntate alle sue spalle.

“Hai mandato all’aria la missione Arcadi.”

“Non è vero – cercò di difendersi il liquidatore dell’alveare Centrale – sono stato ingannato. Mi sono perduto, questo sì, c’erano dei tizi armati che mi hanno dato la caccia.”

“Hai causato un grave danno. Hai violato la legge primaria degli alveari – Brumana parlava come un giudice implacabile – Arcadi, hai soltanto una maniera per uscire dai guai: devi eliminare l’unica testimone del fatto.”

“Milly?”

“Avanti, che t’importa? È una sbandata, senza legge, non fa parte degli alveari, se sparisce a nessuno importerà nulla: sarà come se non fosse mai esistita.”

Arcadi guardò la ragazza che si divertiva spensierata saltando per evitare la corsa finale delle onde sulla sponda sabbiosa.

“Non puoi sparare. Non devi usare armi ufficiali. Ci potrebbero essere delle inchieste. Prendi quella.”

Brumana indicò una palma, conficcata nel tronco c’era un’ascia dall’impugnatura rossa. Arcadi andò a prenderla, più che altro per capire se stava sognando: la sua mano strinse il manico. Era un oggetto solido, reale. Guardò la faccia di Brumana che con espressione truce lo incitava a compiere il misfatto. Sentiva di essere schiacciato dalla determinazione del suo capo, i suoi muscoli si muovevano soltanto per mettere in atto il suo proposito. Milly era sempre più vicina, incurante della minaccia continuava a divertirsi. La sua espressione indifesa aprì nel petto di Arcadi una fitta di dolore. Era paralizzato.

La ragazza finalmente si accorse di Arcadi, lo guardò sgranando gli occhi: la sorpresa divenne rabbia.

“Assassino! Assassino!” strillò con tutto il fiato in corpo. La ragazza impugnava a due mani un’ascia con il manico verde. Le sue parole erano un ringhiare che preannunciava violenza.

Arcadi cercò di indietreggiare, ma le sue gambe non partecipavano alla ritirata. Sollevò l’ascia mettendo il manico davanti al viso, consapevole che presto Milly avrebbe sferrato un colpo.

La ragazza avanzò di un altro passo. Arcadi istintivamente caricò il suo colpo. Sollevò le braccia dietro la testa stringendo l’ascia. Il sole tremò. E il mare si spense oscurato in un blocco nero senza profondità. Poi ritornò. Ma le grida di Milly erano cambiate: non lo chiamava più assassino. Gridava: “NO, NON LO FARE!”

Arcadi non attese la somma razionale dei fatti. Sollevò ancora l’ascia per colpire, ma prima voltò il manico. Il taglio dell’ascia era rivolto alle sue spalle e quando lo spostò indietro con tutta la sua forza udì un rantolo.

Il sole splendente tornò a impallidirsi, la marea venne riassorbita dall’orizzonte tempestato dell’Esterno e al posto della sabbia dorata non vi furono che muschi e pozzanghere.

Milly era a terra, addossata al troncone d’una parete di cemento che sbucava dal terreno. Grosse lacrime le scorrevano sulle guance. Arcadi sentì di nuovo le gambe libere e potè girarsi. Disteso nel fango c’era un grassone con una tuta rosa a bande gialle. Portava un paio di occhiali spessi, sulle lenti erano disegnati cerchi concentrici bianchi e neri. I suoi capelli neri e folti si erano tinti di rosso all’altezza della tempia destra, dove l’ascia di Arcadi aveva colpito.

“Ti aveva beccato quel bastardo.” disse Milly con una vocetta ancora piagnucolante.

Arcadi non capì finché non fece per muoversi verso la ragazza. Sulla nuca sentì uno strappo, come se gli avessero tolto un capello a forza. Era un dardo a filo. Il cavetto era collegato a una scatola comando che il grassone stringeva ancora nella mano destra. Su un lato si leggeva la scritta Somnium.

Arcadi controllò la ferita sulla nuca, fortunatamente era superficiale, soltanto un po’ di sangue.

“Certo che per essere uno schifoso liquidatore ne hai di nemici in circolazione.” disse Milly tirando su con il naso con poca grazia.

“Io non ho nemici – cercò di specificare Arcadi cavando dal gilet un gel cicatrizzante – questi tizi mi sono stati addosso non appena ho messo il naso fuori dall’alveare. Io non so neanche chi siano. Avevo altro da fare.”

“Da ammazzare vorrai dire.”

“Tu pensi che la Zona rossa si possa proteggere da sola? Se entrano intrusi portatori di infezioni non è solo un problema degli alveari, non credi?”

“Infezioni. Isolamento. Disinfestazione. Voi avete in testa solo questa roba. Neutralizzare. Sterilizzare. Filtrare. Ma siete ancora umani là dentro?”

“Noi… noi cerchiamo di difendere le nostre comunità. Anche voi qui fuori. Se scoppiasse una nuova epidemia non sarebbe un disastro per tutti?”

Milly sollevo le spalle: “Un disastro… cos’è un disastro? Fuggire da un alveare perché ti costringono a passare tutta la vita insieme a un manichino? Vedere la persona che ami cadere in fondo a un burrone e non poter fare niente? Oppure doversi nascondere e rubare per mangiare? Il disastro qui fuori, qui all’Esterno, lo si vive ogni giorno… ma almeno siamo vivi. Non siamo costretti in gabbia ad aspettare la morte… come l’amministrazione comanda.”

© 2020 – Associazione Culturale RetroEdicola Videoludica – via Gabriele Rosa 18c – Bergamo
1° edizione – Progetto Iskandar – Marzo 2020
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