CONTATTO ZERO

Una storia di PABLO MIGUEL MAGNANI
Illustrazioni di ENZO FURFARO
Contatto zero
Contatto zero è un racconto ambientato nella Zona rossa, un luogo a 30 anni di distanza da noi, 30 anni dopo il virus. È un mondo nuovo: ogni contatto fisico vietato, ogni rapporto sociale mediato. È un mondo minacciato dagli intrusi e difeso dai liquidatori che proteggono gli alveari. Ma Erik Arcadi sta per scoprire che…

Capitolo 15 - Sul colle di Ambergo

Sul Colle di Ambergo

La piattaforma dell’inceneritore costituiva una delle eccezioni strutturali ai progetti standard degli Amministratori. Il pilone non era la struttura più alta. Lo sovrastava il camino dell’inceneritore dal quale periodicamente eruttavano fiammate tra il biancazzurro e il rossarancio.

Arcadi e Milly ci arrivarono pedalando a pomeriggio inoltrato. Milly era stanca, non aveva mangiato né bevuto dalla partenza dopo l’assalto al deposito della discarica e non accettava le razioni energetiche di Arcadi.

Parcheggiarono il biciclo in uno spiazzo dal fondo metallico davanti al complesso dell’inceneritore. Arcadi aveva aperto il cancello con il suo stilomat certificando così la sua qualifica. Poco dopo da una porta dell’edificio uscì un addetto, un giovane biondo in gilet e pantaloni larghi, in un tessuto simil tartan. Lo stile degli Alveari concedeva alcune varianti di originalità.

“Salve, bel mezzo di trasporto: cos’è?”

“Te lo cediamo amico. In cambio devi farci salire in piattaforma con l’ascensore.”

L’addetto all’inceneritore squadrò Milly da capo a piedi.

“Maaa… siamo sicuri? Voglio dire questa non mi sembra…”

“Ah, la ragazza intendi? No, lei è a posto, siamo dell’Agenzia. Una missione in incognito per conto degli Amministratori. “

L’addetto non era convinto del tutto però non vedeva l’ora di pedalare sul biciclo. Quindi li fece accomodare nell’atrio dell’edificio. Una stanza vasta e spoglia, con la porta per entrare nel settore produzione e, incassato nella parete laterale, l’ascensore per la piattaforma. Ne aprì la porta con il suo stilomat e li salutò frettolosamente.

Arcadi scommise con sé stesso che il tizio avrebbe subito fatto una verifica con l’Agenzia. Ma lui l’avrebbe preceduto. Infatti non appena si spalancò la porta dell’ascensore, Arcadi si diresse agli armadietti. Il suo stilomat gli diede l’accesso a quello riservato all’Agenzia. Aperto lo sportello, per prima cosa consegnò una borraccia a Milly.

“Bevi. Non è niente di strano: a meno che tu non consideri strana l’acqua pulita.”

La ragazza fece una smorfia ma accettò l’offerta.

Arcadi intanto portava la cornetta all’orecchio.

“Ciao sono la Maviglia dell’Agenzia.” proferì una nota vocetta.

“Sono Erik Arcadi.”

“Oooh, Erik! Ma cosa è successo? Stavamo tutti in gran pena. Stavo parlando con te quando trakkete! La linea si è interrotta e non si è sentito più niente. Ma così all’improvviso, senza neanche un rumore o un preavviso qualsiasi. Capisci che ci siamo preoccupati un sacco, anche perché ci sono in giro nove intrusi. Mica tre o quattro, nove intrusi…”

“Maviglia…”

“Ma forse tu lo sai già perché ti hanno mobilitato apposta insieme a tutti gli altri agenti disponibili degli alveari. Una vera caccia grossa come si diceva ai tempi…

“Maviglia…”

“E con quello che è successo al povero Rubagotti siamo tutti sconvolti. Una persona così capace, così efficiente, sempre puntuale. Ma uno di quei malnati l’ha ferito di brutto, da non credere…”

“MAVIGLIAAA! Vuoi farmi parlare! Sono quasi due giorni che tentano di ammazzarmi e ho bisogno di parlare con Brumana.”

“Oh, ma perché non l’hai detto subito. E poi Brumana non c’è qui in sede. È partito ieri sera, per il Pontecarro credo. Sai com’è, deve coordinare la caccia. Dico, nove intrusi da trovare in tutta la Zona rossa. A quest’ora si saranno sparpa…”

Arcadi chiuse la comunicazione.

“Qualcosa non va?” chiese Milly sorseggiando dalla borraccia.

“Tutto non va… Ci tocca fare un salto in città.”

“Eh?”

Arcadi fece segno con il pollice verso la teleferica. Se Brumana era impegnato in un giro di ispezione o lo stava cercando – cosa che credeva ardua visto la scarsa considerazione mostrata nei suoi confronti – il luogo più probabile per incrociarlo era Ambergo. Era lì che Rubagotti era stato ferito e lì era ricoverato. Se Brumana si era mosso, quella era la destinazione.

Sempre con lo stilomat sguainato, Arcadi si fece consegnare una capsula e vi si accomodò insieme a Milly. Le spiegò come allacciare le cinture e cosa non doveva assolutamente toccare.

“Pronta per la partenza?”

“Erik…”

“Cosa?”

“Ho paura.”

La ragazza gli strinse il braccio. Il mantra del Contatto zero non si accese nella mente di Arcadi. Sentì soltanto il calore della sua stretta.

“Milly, non so se ci crederai, ma io non ho ammazzato nessuno. Sono un liquidatore di prima categoria soltanto perché il mio capo è stato ferito. Questa è la mia prima missione sul campo. Ho passato anni a fare sopralluoghi nelle zone di confine per rinforzare i sistemi di difesa. Ho fatto sorveglianza pilotando i droni per la mappatura del territorio e ho supportato la caccia di intrusi e predoni. E anche questo voglio dirti: finora gli intrusi che ho visto erano gente vecchia e malata, passano il confine per tornare nei posti dove abitavano e morire. L’Agenzia li individua e controlla che non ci siano contatti a rischio infezione. È la prima volta che gli intrusi ci attaccano. Non sono un assassino, sto cercando di salvare la pelle.”

La lunga confessione gli era uscita di getto, quasi si fosse assemblata in un angolo della sua testa durante le ore silenziose del cammino comune. Arcadi si sentiva liberato, si era finalmente aperto con una persona che non era Mari. Anzi con una vera persona.

“Va bene, andiamo – disse Milly allentando la presa sul suo braccio – Non credere che… qualcosa l’avevo capito, non sei avvelenato del tutto.”

Arcadi fece salire la capsula in quota e sganciò l’avanfreno. Condusse la manovra con attenzione per non innervosire il passeggero già teso.

“Anche se sei un uomo degli alveari, sei diverso. – disse Milly guardando il panorama che iniziava a scorrere – Hai mai pensato di abbandonare la Zona rossa?”

Arcadi trattenne una risata: un pensiero davvero assurdo. Anche se, a rifletterci, cosa c’era oltre la Zona rossa? Come se l’era cavata il resto del mondo? Gli amministratori non avevano mai dato informazioni chiare, tutti i materiali educativi e ricreativi trasmessi dagli olowall erano di produzione locale e non trattavano l’argomento. Oltre la Zona rossa esistevano di sicuro delle comunità organizzate, a volte gli amministratori accennavano a scambi di materie prime e tecnologie.

Arcadi non ci aveva mai pensato: le sintoper forse non erano un prodotto degli amministratori, forse arrivavano da fuori. Anche le piante nelle serre che fornivano aria pulita, acqua ed energia alle strutture degli alveari, dovevano in qualche modo essere seminate e cresciute altrove prima dell’uso. Durante gli anni di monitoraggio non aveva trovato una sola area con vegetazione rigogliosa. Soltanto foreste di sterpaglie, felci palustri e variopinte distese di muschi.

Pensare a queste cose di solito gli generava stress. Sentiva la mancanza delle buone parole dell’Equalizzatore. Terminato il turno di lavoro tutti gli operatori dell’Agenzia erano chiamati per una seduta dall’Equalizzatore. Arcadi si abbandonava sulla poltrona reclinabile. Sulla testa ruotava il grande disco Rorschach a macchie ricombinabili, nelle orecchie si riversavano le interminabili melodie frattali. Progressivamente l’urto delle emozioni si stemperava, come grumi di colore a contatto con l’acqua. Poi pennellate decise ridipingevano il paesaggio interiore di chi era stato “contaminato” dalla frequentazione dell’Esterno.

Il prezzo per quella dolce serenità era uno stordimento che sfuocava il pensiero, soprattutto nei ricordi a breve termine. Persistevano invece le memorie ripetute: le impressioni d’infanzia, le istruzioni della comunità e le sensazioni rivissute con il proprio compagno di cellapp.

Malgrado la nuvola di stress, Arcadi sentì un rintocco di felicità risuonargli in testa. Non capiva in che modo, ma Milly gli stava mostrando aspetti del suo mondo che lui ignorava. Era la stessa bella sensazione provata da bambino, quando aveva bussato alla porta della serra. Zaverio lo aveva fatto entrare. Stavolta era stata Milly.

La capsula filava sulla linea verso nord, verso Ambergo. La città fantasma li attendeva, adagiata su un grosso promontorio verdastro che si elevava sulla periferia palustre. Ai piedi di Ambergo dilagavano periodicamente i fiumi delle due valli principali formando una barriera difficilmente praticabile per le gambe umane.

Sulle menti già scosse di Milly e Arcadi lo scenario delle rovine semi inghiottite dall’acquitrino ebbe un effetto straniante: il timore di trovarsi sospesi sopra una regione morta, era vinto dalla visione dei resti di un passato che ancora non era stato sepolto. Le acque fangose avevano invaso paesi e complessi industriali, coperto strade e piazze, sfaldato edifici che si inclinavano ma non cedevano. Una linea ferrata era ancora visibile a pelo d’acqua, binari non ancora del tutto arrugginiti scintillavano sotto i raggi del sole. Sembrava una cicatrice sopravvissuta al corpo inabissato.

Senza preavviso una formazione di fenicotteri passò sotto la capsula, apostrofi rosa sul verde malato della palude. A Milly sfuggì un “oooh” di meraviglia. Quel piccolo mare, morto per gli uomini, non era tale per altri esseri viventi che ne avevano fatto la loro dimora.
La natura aveva lasciato agli uomini la roccaforte di Ambergo. Non fosse stato per le montagne che la incoronavano, la cittadella sarebbe parsa un’isola. Un’isola misteriosa e ombreggiata da minacce sconosciute per Milly, che non l’aveva mai vista. Un’isola del tesoro per Arcadi, che si attendeva di trovare informazioni decisive.

Giunto alla piattaforma del Metrokilo, che spiccava nella piana per il colorito rosso del pilone principale, Arcadi prese lo scambio verso il centro di Ambergo. Un tratto in salita. L’avanfreno della capsula infatti doveva restare bloccato sul cavo mentre questo veniva riavvolto dal pilone di Ambergo. L’alveare aveva l’aspetto di un enorme fazzoletto bianco, smarrito da un gigante di passaggio.

“Bello vero? Sembra un sogno a occhi aperti. – disse Arcadi – ma non come l’incubo del grassone. Non so come abbia fatto quel maledetto: ha usato il mio sogno contro di me. Questi intrusi hanno tutti delle armi incredibili.”

“Cosa vuoi fare?” domandò Milly abbandonando la presa sul braccio di Arcadi.

“Dipende da quel che mi racconterà il mio capo, Rubagotti, e da quello che mi dirà il mio superiore. Ci sono un sacco di cose poco chiare in questa missione.”

“Io… non so se posso aiutarti – esitava la ragazza -. Non faccio più parte degli alveari. Sono stata espulsa e non mi vorranno più vedere… ma neppure io voglio vedere loro. Ho imparato a cavarmela da sola.”

“L’ho visto, mi hai anche salvato la pelle, non lo dimentico sai.”

Arcadi guardava la cima del pilone di Ambergo che si “mangiava” metri di cavo issandoli sulla collina. Ma sentiva su di sé lo sguardo di Milly.

La piattaforma di Ambergo era stata incassata direttamente su un versante della collina cittadina. Qui evidentemente esisteva già una struttura simile alla teleferica e gli Amministratori se ne erano serviti. Era un gigantesco balcone affacciato sulla pianura. Peccato che la veduta panoramica fosse appannata dai riflessi solari e dagli effluvi vaporosi del grande acquitrino. Visto dalla piattaforma sembrava un cimitero di navi, intrappolate e fatte marcire nelle acque morte.

Arcadi e Milly superarono l’uscita delimitata da una corta sbarra girevole e furono nella piazza di imbarco. Il fondo era interamente coperto di plastigum antiscivolo poiché la pendenza e il vento potevano giocare brutti scherzi ai pur pochi viandanti. L’alveare di Ambergo, il “fazzoletto” visto da lontano, era in realtà un cono dalla punta smussata, una glassa abitabile che si nutriva dei raggi del sole avaro. L’ingresso di servizio dal piazzale era mascherato da un porticato di plastiglass. Come una mano contratta i colonnati offrivano la vista di una miriade di vetrine, tutte cieche.

Arcadi però era consigliato dallo stilomat e scovò facilmente l’apertura per l’ingresso.

“Ma io non credo di poter entrare.” si irrigidì Milly.

“No, non potresti. – ammise Arcadi – Ma non voglio lasciarti qui da sola. E poi finora senza di te non me la sarei cavata, quindi direi di continuare l’esperimento. Che ne pensi?”

Arcadi però non attese la risposta della ragazza: “Tieni.”

Milly mise le mani a coppe e lui vi lasciò cadere due filtri per il naso.

“In caso venissi controllata. E mi raccomando, quando siamo dentro dovresti mantenere…”

“Le distanze. Lo so bene: contatto zero.”

Entrarono in un atrio sezionato da lastre di plastiglass. I passaggi erano studiati per dividere i percorsi di chi entrava. Ogni corridoio era talmente stretto che con i gomiti si toccavano le pareti. Pareva una sala degli specchi, ma non c’era nulla di divertente e nulla in cui specchiarsi, soltanto pareti divisorie. Era una delle precauzioni degli amministratori per separare chi rientrava dall’Esterno e sottoporlo alla dovuta disinfestazione. Milly e Arcadi vennero avvolti da spruzzi nebulizzati di specifiche soluzioni anti germi, anti batteri, anti virus. Almeno, quelli noti.

In una delle corsie comparve una donna nella divisa verde smeraldo del personale medico. In testa una voluminosa cuffia bianca le copriva i capelli facendo risaltare un paio di occhi azzurri inquisitori e il naso affilato.

“Disturbi da dichiarare?”

“Nessuno. Soltanto qualche escoriazione.”

“Necessitate di assistenza?”

“No, siamo solo in transito. Cerco Rubagotti, dell’Agenzia.”

“Ah, anche lei è un agente?”

“Ne sono passati altri?”

La donna non rispose: “Seguite quella luce verde lampeggiante, là in fondo c’è il cubicolo di degenza di Rubagotti.”

Milly e Arcadi trottarono verso la luce districandosi separatamente nel labirinto di plastiglass come due bravi topolini. Dietro lastre opache scorsero le sagome di alcuni pazienti, distesi sopra supporti con una sola gamba, piantata nel pavimento.

Arrivati allo scomparto di Rubagotti, la luce verde si spense e la lastra opaca divenne trasparente. Il supporto che avevano intravisto negli altri cubicoli di degenza somigliava a una grande foglia arrotolata. Era sostenuta da un robusto picciolo che spariva in un pertugio nel pavimento, bianco e liscio quanto albume. Dentro alla foglia, immobile come una larva nel bozzolo, si vedeva la testa di Rubagotti. Soltanto il viso, perché tutto il resto del corpo era avvolto in una spuma biancastra. Pareva una mosca imbandita in attesa del pranzo del ragno.

Il volto del paziente si rianimò subito, la mascella squadrata e il naso piatto di Rubagotti si contrassero: “Erik!”“Ciao Ruba. Come ti hanno conciato…”

“Una botta in faccia da un figlio di cane… sono caduto… sono caduto male…” Più che parlare, Rubagotti sospirava con gran fatica. “Mi sono rotto la schiena… Non fa male… ma le gambe… qualcosa faranno…” disse sollevando gli occhi al cielo per intendere la struttura medica.

“Sì, vedrai che ti rimetteranno in sesto – assicurò annuendo Arcadi -. Tornerai al tuo posto. E Brumana al suo.”

Quel nome produsse in Rubagotti una crescente agitazione: “Attento Erik… Quelli sanno chi sei…”

“Lascia stare, so come trattare gli intrusi di ogni genere. Ti preoccupi troppo. Te l’avranno detto anche agli altri ragazzi.”

Sul viso emaciato di Rubagotti, la faccia di un combattente, pronto a prendere di petto ogni genere di rogne, si manifestò qualcosa che Arcadi non avrebbe mai immaginato: la smorfia di disperazione di un uomo sconfitto, sull’orlo del pianto. Un cedimento che durò un istante. Fu proprio lo stupore di Arcadi a dare a Rubagotti la forza per riscattarsi agli occhi dell’allievo.

Si morse le labbra con rabbia, fino a farle sanguinare e quando riaprì la bocca non fu per gemere.

“LI HANNO PRESI TUTTI! VATTENE ERIK! SCAPPA VIA!”

Nè Arcadi né Milly ebbero il tempo di mettere in atto quei propositi salutari. Il pavimento sotto il baccello medicale di Rubagotti si gonfiò facendo cigolare le pareti di plastiglass. La superficie oppose una vivace resistenza plastica ma infine si ruppe con un secco crack! Una sezione larga quanto un tombino volò via. Il povero paziente Rubagotti, ancora avvolto nel supporto vitale a forma di foglia, andò a rotolare in un angolo come una grassa larva impotente. Dalla voragine sbucarono delle fauci spalancate, quelle di un gigantesco serpent

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1° edizione – Progetto Iskandar – Marzo 2020
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