CONTATTO ZERO
Una storia di PABLO MIGUEL MAGNANI
Illustrazioni di ENZO FURFARO

Capitolo 16 - Un cacciatore braccato
Un cacciatore Braccato

Il mostro serpentiforme scivolò dentro il comparto medico. Il suo corpo era nero e verde, liscio, senza scaglie. Si abbatté sul pavimento facendo vibrare le pareti divisorie. Non appena lo stupore e la paura lasciarono spazio all’osservazione, Arcadi scorse tra le fauci spalancate un volto scuro. Vide il bianco degli occhi di un uomo: il mostro era un veicolo oppure un’armatura. Non riusciva a capirlo e non aveva il tempo per chiarirlo. Dal pavimento, la figura si rizzò in piedi per un terzo della sua lunghezza: un metro e mezzo buono di mostro rettiliforme. Si rizzò in piedi anche se di piedi non ne aveva, il suo corpo affusolato si spostava su un sistema di cuscinetti a sfera sottocutanei che gli conferivano una incredibile mobilità.
Milly stava già indietreggiando, schifata e terrorizzata dallo pseudo rettile. Arcadi invece pensava di soccorrere Rubagotti, ma usare il neutralizzatore negli stretti corridoi di sicurezza sarebbe stata un’idea poco salutare. Caricò il maglio, poco prima che volasse in frantumi la superficie di plastiglass. Spaccata da una potente testata del mostro.
Arcadi venne sbalzato a terra tra le schegge tintinnanti. Il serpente scavalcò la barriera composta dai resti della parete sfasciata scorrendoci sopra. Nel muoversi produceva un cigolio meccanico che nell’ambiente sigillato del cubicolo di degenza prima non era udibile.
Mentre il serpente si faceva largo schiacciando il plastiglass con il suo peso, Arcadi cercò di mettersi al riparo. Il peso del mostro doveva essere notevole visto che i frammenti schizzavano via ovunque al suo passaggio. L’urto delle fauci del mostro però non aveva danneggiato soltanto il cubicolo di degenza che ospitava Rubagotti, tutte le pareti nel raggio di una ventina di metri si erano piegate o incrinate.
Arcadi si appostò in ginocchio e sparò una salva di dardi contro il grande serpente. Bersaglio facile un cilindro verde largo mezzo metro. Ma la sua pelle corazzata li respinse come fossero state ghiaia.
Anche Milly aveva visto e gli ripeteva il consiglio di Rubagotti: “Scappa, vieni via!”
Arcadi non ci pensava proprio, non voleva lasciare il suo capo nelle spire di quella “cosa” indefinita. Saltò al riparo di un’altra parete divelta e ricaricò il maglio. Il serpente lo stava puntando, ma la sua stessa forza dirompente in quella fragile cristalleria faceva danni e gli faceva fare poca strada. Decisamente non era il terreno per il quale era stato concepito.
I dardi di Arcadi lo punzecchiarono sul capo. Le fauci del mostro si erano richiuse con un riflesso talmente rapido che aveva poco di naturale.
Arcadi diede una spallata a una parete pericolante e questa si aprì schiantandosi dal soffitto al pavimento. Ci strisciò sopra lacerando i calzoni dietro il polpaccio. Il serpente era vicino, le sue zanne pronte per ghermirlo in una stretta mortale. Arcadi se ne rendeva conto, così cercò di guadagnare qualche istante per mettersi al riparo. Fece fuoco con il maglio sulla lastra spezzata che pendeva dal soffitto.
I frantumi caddero addosso al bestione. Una pioggia inaspettata per il serpente a bocca spalancata. Qualche scheggia gli finì in gola, quella gola scura occupata dalla faccia ignota con gli occhi bianchi. Il corpo del serpente prese a sussultare. Nella foga di liberarsi dai fastidiosi frammenti di plastiglass ingoiati perse il controllo e piombò sui detriti a fauci aperte. Un’occasione d’oro per Arcadi che con mani tremanti ricaricò il maglio. Ma prima che potesse fare fuoco sentì la voce di Milly.
“Ehi, uomo, sai che hai una fortuna sfacciata?”
Arcadi le concesse un’occhiata poi tornò a guardare l’assalitore: il serpente era immobile, riverso sui resti delle pareti che aveva spaccato con le sue ganasce. Un rivolo rosso si spargeva sul pavimento.
Sì, ammise finalmente Arcadi, sono un uomo fortunato.
Meno fortunato Rubagotti. Il supporto vitale schiantato dal serpente gigante non era operativo e per il liquidatore capo dell’Agenzia non c’era più nulla da fare. Le addette al centro medico, donne nelle divise smeraldo, molto competenti e molto indifferenti al dolore di Arcadi, mostrarono su un olowall del comparto che i suoi segni vitali erano ormai minimi. Consigliarono quindi una pratica e sbrigativa cerimonia di commiato.
“No.” disse Arcadi senza togliere gli occhi dal volto sbiancato e dormiente del suo caposervizio.
“Ma non c’è motivo di prolungare la sua sofferenza.” sostenne l’addetta dal naso affilato.
“Lei sa se sta soffrendo?”
“Abbiamo delle indicazioni chiare dagli schemi delle onde cerebrali e possiamo…”
“Non mi importa.”
“Non importa neppure quello che pensa lei. – intervenne la seconda addetta, più corpulenta e con la bocca piccola, adatta alle maniere spicce – È in uno stato emotivo alterato. Il suo amico deve abbandonarsi al flusso naturale, non può restare in vita soltanto per farle piacere.”
“Credo che questo agente abbia bisogno di una seduta urgente dall’Equalizzatore – si intromise una terza addetta, piccolina e secca – Da quanto tempo si trova in servizio all’Esterno?”
“Due giorni.“ disse Arcadi senza togliere gli occhi dalla larva bianca che ormai rappresentava la spoglia morente del suo caposervizio Rubagotti.
“È un periodo anomalo.” considerò l’addetta dal naso affilato.
“Un periodo in cui è normale sviluppare psicosi – diagnosticò “bocca piccola” -Una seduta dall’Equalizzatore non è consigliabile: è d’obbligo.”
“Ci segua nel reparto superiore.”
Quella di “naso affilato” non suonava per niente come un’opzione. Allora Milly si avvicinò ad Arcadi e per levarlo dallo stordimento lo prese per un braccio. Istantaneamente le dottoresse strabuzzarono gli occhi e si irrigidirono come fulminate. Le loro labbra mormoravano le parole “contatto zero”.
“Andiamo via.”
Mentre le addette mediche strillavano ordini e protocolli, il liquidatore stanco seguì docilmente Milly fuori dal comparto, attraverso le macerie e infine fuori, sulla piazza che conduceva alla piattaforma.
La vista del paesaggio, da quella che un tempo era Città Alta, era ostacolata dalla vaporosa foschia che si sollevava dalle acque di palude. Una foschia simile a quella che aveva in testa Arcadi: non sapeva più che fare. Si aspettava un buon consiglio da Rubagotti. Era stato sempre lui a guidarlo, a mostrargli la via corretta durante le missioni in Agenzia. Ora non aveva riferimenti e non poteva fidarsi di nessuno. Ed era braccato: il cacciatore era diventato preda.
“Perché non chiami l’Agenzia?” chiese Milly per distogliere Arcadi dal suo torpore pensoso.
“Perché? Per sentire ancora quel disco rotto di Maviglia, a che servirebbe?”
“Brumana?” propose Milly.
Arcadi scosse la testa: “Mi hanno detto che è in viaggio per coordinare la caccia… la caccia di cosa, ci stanno facendo fuori tutti. E poi non credo che lui… un momento, Maviglia mi ha detto che sarebbe andato al Pontecarro per coordinare le operazioni. Che io sappia non c’è un centro operativo dell’Agenzia alla piattaforma di Pontecarro.”
“Ne sei sicuro? – domandò Milly – Forse è qualcosa che ancora non ti avevano detto. Non sei un liquidatore di rimpiazzo?”
“O forse l’iniziativa di Brumana non c’entra nulla con le operazioni dell’Agenzia.”
Arcadi si diresse verso la piattaforma, trascinando anche Milly che era rimasta poeticamente “attaccata” al suo braccio.
“Sarà un’idiozia, – mormorava Arcadi – ma voglio tentare, non ho molte possibilità. Forse solo una.”
Con lo stilomat aprì il noto armadietto di servizio e afferrò la cornetta. Compose un numero con il disco combinatore per chiamare il centralino e chiese: “Devo contattare l’apparecchio di servizio dell’Agenzia dalla piattaforma Pontecarro.”
“È abilitato?”
“Sto chiamando da un apparecchio dell’Agenzia.” disse Arcadi, ma accorgendosi che poteva non essere sufficiente per qualificarsi, aggiunse: “Cerco Brumana, è urgente.”
“Un attimo.”
Uno scatto indicò che la chiamata veniva indirizzata dal centralino.
“Chi è?” disse una voce che Arcadi non riconosceva.
“Sto cercando Brumana.”
“Non è qui. Ma lei chi è?”
“Sono un agente, avevamo appuntamento ad Ambergo.”
“Dovrebbe essere da quelle parti, se non sta già tornando. Ma con chi sto parlando?”
“Rubagotti.”
“Rubagotti?”
Arcadi riappese la cornetta. La situazione era sì annebbiata e contorta, però iniziava a scorgere una forma nella foschia.
“Devo partire, le risposte al fallimento della mia missione le devo cercare al Pontecarro.”
“Va bene, andiamo.” disse Milly con la massima naturalezza.
Arcadi chiuse l’armadietto e si incamminarono verso la capsula. Faceva caldo, il calore del sole si era accumulato nella pianura durante il pomeriggio. Dalla palude si sprigionavano vapori che formavano una cappa termica nella zona.
“Hai bevuto l’acqua?”
“Bevuta e di nuovo assetata, – sorrise Milly – quel brutto serpente mi ha fatto sudare freddo.”
“Visto che ti fidi, – disse Arcadi ricambiando il sorriso -sulla capsula ne ho un’altra.”
Accadde con la semplicità tipica di ogni primo bacio. Due sguardi che si incrociano e scivolano sulla pista tracciata dagli occhi fino all’incontro delle labbra. Arcadi sentì il calore di Milly sciogliersi dentro, un brivido liquido li attraversò riunendo i respiri. Il contatto zero annullato in una speranza di infinito. Un primo bacio. E per Arcadi il suo colore era Verde: tutto ciò che aveva cercato.
La capsula aveva lasciato Ambergo e costeggiava il panorama scenografico delle prealpi. Una massa indifferente di grigio e blu con rare macchie di bianco intenso. Il concetto di “oltre” veleggiava proprio su quelle montagne che Arcadi non aveva mai considerato con attenzione. O, se lo aveva fatto, non se lo ricordava.
La sua vita fino a quel punto era stata un continuo gioco di registrazioni e cancellazioni. Ora con Milly era diverso. Quello che aveva provato insieme a lei non si poteva cancellare. Sentiva che quel bacio era un punto fermo. Da quella piattaforma non si poteva tornare indietro.
Per questo motivo le aveva offerto da bere Colaclor mista a due dosi di antidolore. Milly navigava su una nuvola, aggrappata al suo sorriso. Guardava il mondo tra le sue ciglia socchiuse, fotogrammi imprigionati di un film nel quale voleva perdersi.
Il luccichio all’orizzonte annunciò il lago prima che potessero vederlo. Lo specchio d’acqua blu cobalto era colmo e le onde solleticavano le sponde irregolari: lingue di terra, blocchi di rovine ormai pronte a seppellirsi nei fondali.
La capsula ondeggiò. Il vento che scendeva da nord era un soffio costante, ma lieve e non poteva minacciare la robustezza del cavo o la stabilità del mezzo.
Arcadi passò oltre la piattaforma in modo da evitare l’interferenza del vento e, dopo un veloce controllo del terreno, cominciò le manovre per calare la capsula.
Milly era piacevolmente stordita dagli antidolorifici e si godeva lo spettacolo del suo vetturino sbuffante alle prese con la manovella. La ragazza fu meno tranquilla quando si trattò di lasciare la capsula. Fuori il vento era freddo e il fango secco si sfaldava scroccando spiacevolmente sotto le suole. Arcadi la convinse prendendola per mano.
Camminarono sul litorale per un tratto, sotto i raggi incerti del sole in fase calante. La luce si moltiplicava rimbalzando nei placidi riflessi delle onde del lago. Per Arcadi fu un ritorno a un momento già intensamente vissuto. Non era l’incantata spiaggia che aveva percorso in sogno. Non era neppure la stessa donna. Ma per Arcadi fu come attraversare il confine dell’illusione, ed entrare nella vita vera
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1° edizione – Progetto Iskandar – Marzo 2020
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