CONTATTO ZERO
Una storia di PABLO MIGUEL MAGNANI
Illustrazioni di ENZO FURFARO

Quattro Bosnai Adottati

Arcadi superò la sezione a chiusura stagna del suo cellapp, facendo scattare le serrature con movimenti rapidi della stilomat. Il malessere che gli stava crescendo addosso non era allergia alle violette – da decenni negli alveari le allergie alla flora erano state contenute – ma sentiva crescere la tensione del prossimo confronto con Brumana.
Se non mi do una calmata, rifletté Arcadi, non sarò capace di neutralizzare neanche un randagio infiltrato. Devo calmarmi, devo concentrarmi sulla missione. Come diceva Rubagotti.
Arcadi cercò di distrarsi leggendo la cifra a cloroled sopra la porta: 22. Pensò che doveva tenere a mente quel numero, anche se non riusciva a trovare una motivazione per conservare nella memoria il numero di giorni di clausura. Non era certo il periodo più lungo che aveva trascorso nel suo cellapp. La tempesta del 2038 era durata due mesi e mezzo. A decine avevano passato i confini, che allora non erano totalmente videocontrollati. Molti erano morti nella tempesta, agli altri aveva provveduto l’Agenzia.
Rubagotti l’aveva reclutato proprio in quei momenti di frenesia e super lavoro. Fino a quel momento Arcadi aveva svolto lavoretti da remoto: osserva e interroga. Lunghe sessioni di domande a viandanti per stanare accessi non autorizzati e possibili infiltrati. Passare dalle scartoffie alle armi non era da tutti, Arcadi ci era riuscito. E con profitto, a quanto diceva Rubagotti.
Camminando svelto nello spoglio e lucido corridoio dei cellapp, dove si aprivano decine di ingressi simili a quello che aveva appena chiuso alle sue spalle, Arcadi raggiunse la colonna ascensore.
Con la coda dell’occhio percepì un movimento alla sua destra: era un suo vicino, Carlos. Era ancora in fondo al braccio laterale del corridoio e da quel che distingueva indossava una vestaglia. I polpacci delle sue gambe oscenamente nude finivano in due panfolole morbide a suola bassa, antirumore.
Arcadi si augurò di non essere avvistato per evitare una discussione futile e imbarazzante. Almeno per lui. Sapeva già dove era diretto quel bel fusto dal sorriso smagliante e i pettorali in rilievo sotto la vestaglia. Mari gli avrebbe aperto la porta, mentre lui si ravviava i capelli scuri, al nero di seppia e metteva in vista la fossetta sul mento.
Il cilindro metallico finalmente si schiuse, scivolò dentro rapido e non gli fu necessario schiacciare bottoni o tirare leve. Arcadi disse semplicemente: Serra. L’ascensore si mise in funzione senza strappi. Lo portò in cima all’alveare. Arcadi attraversò un corridoio simile al precedente, anche se le pareti di plastiglass lasciavano intuire che la luce del giorno stava premendo per manifestarsi. In fondo alla sezione, una porta stagna esibiva la scritta ‘Serra’. A prova di errore.
Arcadi estrasse la stilomat e la aprì senza difficoltà con un semplice gesto. Tutti i condomini erano ammessi. Ognuno aveva la sua fascia oraria per provvedere alla cura delle sue piante o semplicemente per contemplare lo scenario verdeggiante dal soppalco panoramico. Nell’alveare Centrale erano ben pochi ad approfittare di questa opportunità ricreativa, gentilmente offerta dagli Amministratori.
L’atmosfera umida e teporosa accolse Arcadi come un abbraccio, accompagnato da una sinfonia di profumi dolci e carezzevoli sui quali si imponeva una nota odorosa. Una nota che Arcadi identificava con il colore verde clorofilla, l’essenza del mondo vegetale.
Il verde possedeva la grande cupola della serra, penzolando dalle travi incrociate di steelglass che sostenevano i pannelli trasparenti e intrecciandosi secondo un ordine non decifrabile da mente umana. Nella serra, i visitatori potevano rendersi conto dei movimenti atmosferici. Nelle sezioni di plastiglass trasparente lasciate libere dai rampicanti, con un po’ di attenzione e pazienza, si potevano vedere grumi di nuvole grigiastre scorrere veloci in un cielo color zafferano.
Arcadi si fece consegnare un piccolo innaffiatoio dal distributore automatico vicino all’ingresso. Badando a non calpestare le radici nodose che sporgevano dal terreno, seguì il sentiero ignorando la segnaletica. Si orientava benissimo a memoria, prendendo le debite scorciatoie tra barriere di felci e i filari di bosso.
Esitò soltanto al crocevia dei palmizi: il pensiero che un cocco giunto a maturazione si staccasse mentre transitava, punzecchiava il suo senso di pericolo. Accelerò il passo deviando su un lembo di prato d’erba sottile e cortissima. Arcadi si guardò intorno sperando di farla franca, non era un comportamento molto rispettoso del luogo. I cespugli di more selvatiche lo nascondevano a possibili osservatori in fondo al sentiero. Nonostante questo riuscì a inciampare sul nodo legnoso di una radice che apparteneva a un ippocastano piazzato in una seconda linea dei filari centrali. Arcadi attutì la caduta appoggiando le mani al terreno. Il contatto con quella superficie morbida lo fece trasalire, si rialzò subito con le mani sporche di terra. Cercò di ripulirsi strofinandole per liberarsi della materia appiccicosa. Non era una gradevole sensazione, anzi il disgusto fece rabbrividire Arcadi. Pensò di correre alla fontanella all’ingresso, degno finale per una goffa incursione. Fortunatamente non c’erano spettatori, nessun inquilino mattiniero a gironzolare con zappette e secchielli. Nessuno tranne Zaverio, il custode.
“Passale su una foglia larga, sono cariche di rugiada.” gli consigliò Zaverio che era spuntato da un sentiero minore della piccola radura dei palmizi.
Arcadi guardò l’uomo alto e ossuto: la sua faccia pareva intagliata nel legno tenero da uno scultore che doveva fare ancora molta pratica. Addosso aveva la sua solita salopette di jeans, il maglione a righe bianco blu e gli stivaloni di gomma verde oliva. Al fianco, l’immancabile valigetta degli attrezzi tappezzata di scritte, le firme degli inquilini. Chiedeva ‘autografi’ a tutti, era una sorta di collezione calligrafica, spiegava confusamente con sincero entusiasmo a chi gli domandava il motivo.
“Sei mattiniero.” osservò Zaverio lisciandosi la sua barba bianca puntuta, un vezzo sconveniente, che dava fastidio a molti. Ad Arcadi invece non dispiaceva perché lo assimilava all’età di Zaverio: dimostrava settant’anni. O almeno, era l’idea che si era fatto lui. Zaverio aveva perso la memoria nello choc dell’epidemia del ‘20 e nel caos del rinnovo degli archivi centrali nella Zona rossa erano scomparsi anche i dati della sua identità. Una cosa era sicura: aveva il pollice verde. Le piante prosperavano sotto le sue cure.
“Scommetto che stai partendo per una missione.”
“Non ti si può nascondere nulla.” rispose Arcadi finendo di pulirsi le mani.
Zaverio fece la sua risatina a raschio sibilante.
“Sappi che la tua Nelly sta bene, ma si avvicina il momento della potatura. Devi decidere come dovrà crescere. È un momento importante.”
“Lo so, ti chiederò consiglio. Andiamo a vedere.”
Il settore delle piante di proprietà degli inquilini era una porzione della serra addossata ai bordi della terrazza dell’alveare. Una posizione che voleva favorire il filtraggio della luce amplificato dalle liane luminescenti che regolavano il ciclo giorno-notte. Arcadi e Zaverio entrarono nella sala, un piccolo labirinto di stretti banconi divisi da bassi separé. Ognuno ospitava piccole piante in vaso: soprattutto piante grasse, bulbi ispidi che ordinavano le loro spine secondo una istintiva geometria naturale. Si facevano notare gli scomparti con timide composizioni floreali, insiemi molto delicati che mostravano segni di decadimento. Esperimenti abbandonati. Le corolle penzolavano sugli stretti lavandini d’acciaio ai bordi dei banconi. Nel riquadro davanti al quale si fermarono Arcadi e Zaverio c’erano quattro bonsai. Tra questi la menzionata Nelly, un Acer palmatum al quale i due si dedicavano da tre mesi.
“Quando mi hai fatto vedere quel tronchetto pensavo mi prendessi in giro” disse Arcadi contemplando la pianticella in un vasetto di terracotta.
“Mi sembravi il tipo da bonsai.”
“Perché?”
“Sei un metodico – disse Zaverio lisciandosi la barba – non ti scordi delle piante soltanto perché hanno diffuso una nuova videonovella.”
Stavolta fu Arcadi a ridacchiare.
“Scommetto che lo dici a tutti. Se non mi avessero chiamato per la missione non avrei messo il naso in serra, sarebbero passati giorni.”
“Ti avrei chiamato io.”
“Tu? Chiamarmi al cellapp? Non l’hai mai fatto.”
“È quel che ti sto dicendo: per qualche ragione sei sempre spuntato fuori quando le piante avevano bisogno di te. Hai adottato Igor, Septimus e Nora anche se erano malconci e adesso guardali.”
Arcadi passò in rassegna le pianticelle: Igor era un datato Juniperius chinensis in stile a semi cascata e quando Zaverio l’aveva tirato fuori da chissà dove stava cascando letteralmente. Septimus rispecchiava il suo nome, diramandosi in due tronchi primari e cinque rami principali. Gestire le sue fronde aguzze era impegnativo, ma divertente. Nora era una Fukinagashi, il suo tronco forgiato da un ipotetico vento si abbandonava languido come tra le braccia di un amante.
Invece Nelly, la piccolina, stava crescendo. Le radici si stavano insinuando nel terriccio nutriente per succhiare tutta l’energia necessaria a far esplodere la sua esistenza, distendere rami, schiudere germogli.
Arcadi aveva un’attenzione speciale per Nelly: era il primo bonsai di cui si occupava da zero. Come aveva sottolineato Zaverio non si era mai permesso di chiamarlo, ma lui lo sentiva ogni giorno per avere il ‘rapporto’ quotidiano sullo stato della pianticella.
“Hai pensato allo stile per Nelly?” tornò a chiedere Zaverio.
Prima che Arcadi potesse rispondere però squillò un telefono. Il suono veniva da Zaverio che fu lesto nello sfoderare il suo portatile a batteria dalla tasca della sua salopette per portarlo all’orecchio.
“Zaverio.” rispose l’anziano giardiniere. L’interlocutore gli stava spiegando qualcosa che non lo riguardava. Infatti Zaverio corrugò la fronte e fissò Arcadi facendo una smorfia. Lui comprese e annuì.
“Ah, sì è qui.” concluse Zaverio prima di passargli il portatile.
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1° edizione – Progetto Iskandar – Marzo 2020
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