CONTATTO ZERO

Una storia di PABLO MIGUEL MAGNANI
Illustrazioni di ENZO FURFARO
Contatto zero
Contatto zero è un racconto ambientato nella Zona rossa, un luogo a 30 anni di distanza da noi, 30 anni dopo il virus. È un mondo nuovo: ogni contatto fisico vietato, ogni rapporto sociale mediato. È un mondo minacciato dagli intrusi e difeso dai liquidatori che proteggono gli alveari. Ma Erik Arcadi sta per scoprire che…

L'aria che Manca

“Sono Brumana? Hai novità?” la voce del suo superiore era asciutta e carica di energia, impostata per imprimere la massima ansia nell’interlocutore.

“Novità?” ripeté Arcadi piuttosto disorientato.

“Dove sei?”

“Nel mio alveare.”

“Ancora lì? Non hai ricevuto l’avviso di mobilitazione generale?”

Arcadi vacillò, non trovava giustificazioni per quella mancanza.

“Sono uscito dal cellapp appena ho ricevuto il rapporto via olostampa.”

“Male. Dovevi attendere disposizioni, dove pensavi di andare?”

Arcadi stava per elaborare una risposta sul modus operandi elaborato con Rubagotti, ma Brumana lo marcava stretto.

“Fatti trovare alla piattaforma di Lanzogorgo. Alla postazione solita ritira il rapporto, il maglio e… c’è anche un neutralizzatore sterile. Sai come usarlo?”

Arcadi avvampò, era un insulto evidente alla sua capacità operativa. Un insulto gratuito, buttato lì soltanto perché lui tentasse di reagire. Brumana lo stava provocando apertamente, quasi avesse in mano un forcone per punzecchiarlo. 

Obiettare poteva essere considerato un atto di insubordinazione e, se ciò avveniva mentre era stata istituita la mobilitazione generale, Arcadi l’avrebbe pagata cara.

“Che c’è? Hai perso la lingua?”

“No, pensavo…”

“Lascia perdere. Adesso ci serve azione: abbiamo nove infiltrati a piede libero e tracce ancora incerte. Poi Rubagotti si è fatto beccare come una recluta…”

La pausa aspettava d’essere riempita da una reazione di Arcadi. Non conveniva replicare, però sentì la sua voce scandire a denti stretti: “Rubagotti non era una recluta…”

“Certo Arcadi, era un modo di dire. – Brumana era soddisfatto, l’aveva punto sul vivo – Cerca di essere più elastico, gli anni delle interrogazioni dovrebbero averti insegnato come gestire lo stress.”

Arcadi adesso stava ribollendo e soltanto la certezza di aumentare la soddisfazione di Brumana con uno scoppio d’ira lo tratteneva. Perciò dopo un respiro profondo disse: “Ok, hai detto stazione di Lanzogorgo. Vado subito.”

“Bravo, hai già perso abbastanza tempo.”

Brumana disattivò il ricevitore appena finita la frase e si abbandonò allo schienale della sua poltrona ricevendo uno scricchiolio di protesta. Calvo, massiccio, occhi piccoli ma guizzanti, Brumana era di buon umore. La sua carriera era scattata di livello con Rubagotti fuori gioco e lui era convinto che quando un soggetto è in movimento, le opportunità si moltiplicano matematicamente. A patto di saperle creare, si disse rialzandosi in piedi per servirsi un drink al mobile bar.

“L’ufficio dell’Agenzia è davvero grande rispetto alle dimensioni compatte di una singola cellapp” osservò una voce d’uomo che proveniva dietro uno dei quattro pilastri che suddividevano la vasta sala.

La sezione rivolta verso l’opaca vetrata di plastiglass era immersa in una netta penombra e questa risaltava nel contrasto con la porzione illuminata che ospitava l’area di lavoro dove Brumana aveva la sua scrivania. L’uomo era seduto su un divano stretto, dallo schienale alto e imbottito, addossato al pilastro. Sul bracciolo si vedeva un bicchiere ancora pieno.

“Vero, lo ammetto – ammise Brumana mentre finiva di spruzzare il seltz nel largo bicchiere gettando scompiglio tra i cubetti di ghiaccio – non esiste una ragione pratica per occupare tanto spazio nel cuore di un alveare. Ma l’Agenzia , svolge una funzione di primaria importanza per la sicurezza della Zona rossa.”

“Stai parlando come un funzionario dell’Agenzia” disse la voce dietro al pilastro.

Arcadi spense il telefono e lo riconsegnò a Zaverio che aveva assistito alla conversazione lisciandosi tranquillamente la barba appuntita.

“Hai scelto la giornata sbagliata per una pausa nel verde.”

“Non volevo una pausa. – disse Arcadi infilandosi i pollici nelle tasche del gilet – Ci vediamo Zaverio.”

Arcadi il liquidatore attraversò la serra per il sentiero più corto e oltrepassò la porta a tenuta stagna. Dal corridoio della terrazza imboccò un braccio laterale che si illuminò al suo passaggio: in fondo balzava all’occhio un’altra porta, cerchiata di rosso. Sotto un lampeggiante si leggeva la scritta ‘Pericolo!’ con il simbolo del doppio triangolo nero.

Era l’uscita superiore. I condomini la usavano raramente, malgrado l’alveare si affacciasse sul centro della Zona rossa di Milangeles pochi sentivano l’esigenza di riempirsi gli occhi della distesa di palazzi vuoti e diroccati. Così, chi varcava quella porta non lo faceva a caso e in genere aveva una ragione ben precisa che non derivava da una scelta volontaria.

L’Esterno era un luogo privo di fascino, perdente nel confronto con il palinsesto del più scadente degli olowall. Ma il mondo non si esauriva negli alveari. Qualche ape operosa doveva pur avventurarsi in quei prati dello sfacelo per garantire il quieto letargo della comunità.

Arcadi azionò lo stilomat e fece scattare la serratura della porta stagna. Lo stridore dei cilindri non oliati che scorrevano sugli ingranaggi gli ferì i timpani come un grido metallico. Poi il meccanismo si bloccò, a mezza strada. Arcadi si appuntò di lasciare un messaggio per gli Amministratori, quella porta era anche un accesso per i servizi di emergenza e doveva essere in piena efficienza.

Il dispositivo della tenuta stagna non scattava. Così tolse il gancio da una scatoletta saldata a fianco della serratura. Conteneva una manovella e un piolo con punta a stella. Bisognava incastrare il piolo al centro della manovella e fare forza per liberare l’ingranaggio centrale che consentiva di girare la manovella, sostituto manuale dell’apertura via stilomat.

Chi diavolo ha inventato un sistema così poco pratico, pensava Arcadi, forse un tizio che non badava all’ansia di chi aveva fretta di uscire fuori. Anzi, per certo l’ha ideato per rallentare il viandante occasionale: farlo sudare per farlo pensare. Pensare che forse l’Esterno non valeva tanta fatica.

I cilindri ripresero a scorrere e uno scatto secco sancì l’apertura della porta. Arcadi entrò in un piccolo atrio a pianta circolare. Ai lati erano incassati degli armadietti metallici dipinti di bianco che contenevano attrezzi e presidi d’emergenza. Aveva già la sua dotazione quindi si diresse verso l’ultima porta, azionata da una semplice leva a muro. Anche questa, in debito di olio. Suo malgrado, dovette appoggiarsi con il peso del corpo per farla scattare. Si udì un sospiro, l’atmosfera interna entrava a contatto con l’aria dell’Esterno. Scambi di pressione, densità, valori di inquinamento. L’Esterno che invade lo spazio interiore. Arcadi ci era abituato, ormai usciva con una disinvoltura che non apparteneva agli altri inquilini dell’alveare, però conservava la memoria del primo brivido sulla soglia dell’uscita. Era passato molto tempo, non sapeva collocare l’occasione precisa sul calendario. Però quel suono si era inciso nella sua memoria, saldato ai residui di una paura intensa quanto un morso nella carne. L’imbottitura pneumatica ai margini della porta si sgonfiò e un raggio di luce naturale, troppo debole per infastidire gli occhi di Arcadi, si allargò sulla parete dell’atrio.

Il vento fischiava basso, indaffarato a frugare tra i moncherini dei palazzi dopo la gran festa tempestosa di qualche ora prima.

Arcadi uscì sul tetto dell’alveare e richiuse la porta accompagnandola con una mano. La superficie metallica sembrava passata sotto le punte di una spazzola d’acciaio. Una spazzola sporca, che lasciava striature color ruggine e piccole macchie nere.

Attorno ai bordi del tetto rettangolare una barriera piena di flexigum nero delimitava la terra dal grande abisso del cielo. Arcadi era addestrato a non guardarlo, quel vuoto infinito sopra la sua testa poteva inghiottire non solo il senso dell’equilibrio fisico, era un attentato alla stabilità mentale dei cittadini della Zona rossa. Si concentrò sulle cose da fare: la teleferica.

La piattaforma di carico si trovava a poche decine di metri dall’uscita. Aveva l’aspetto di un coperchio di bronzo inchiodato sul tetto dell’alveare. Sopra svettava un possente pilone fatto di un blocco unico di metallo grigio. Sulla sommità, appesa al braccio che reggeva i cavi, penzolava in fondo a un’asta d’acciaio una bolla di plastiglass trasparente. Anche a distanza, si scorgevano quattro posti a sedere e le leve di manovra a fianco dei sedili anteriori. Arcadi ci arrivò di corsa e trattenendo il respiro, come in un lungo tuffo al rallentatore. Era il suo metodo per superare il disagio dell’immersione nell’Esterno. Non gli piaceva tutto quello spazio libero attorno a sé, non piaceva a nessuno degli inquilini della Zona rossa.

© 2020 – Associazione Culturale RetroEdicola Videoludica – via Gabriele Rosa 18c – Bergamo
1° edizione – Progetto Iskandar – Marzo 2020
Tutti i diritti riservati