CONTATTO ZERO

Una storia di PABLO MIGUEL MAGNANI
Illustrazioni di ENZO FURFARO
Contatto zero
Contatto zero è un racconto ambientato nella Zona rossa, un luogo a 30 anni di distanza da noi, 30 anni dopo il virus. È un mondo nuovo: ogni contatto fisico vietato, ogni rapporto sociale mediato. È un mondo minacciato dagli intrusi e difeso dai liquidatori che proteggono gli alveari. Ma Erik Arcadi sta per scoprire che…

Quando la Terra Trema

Spirito d’osservazione, dettagli rilevanti, pronta iniziativa. Arcadi comprese perché il Diavolo Coraggioso sbatteva le gambe: cercava stabilità per trascinarlo fuori dalla piattaforma. Per riuscirci era meglio dondolare il meno possibile. Ciò significava che per qualche istante sarebbe stato fermo abbastanza per diventare un bersaglio accettabile.
Rovesciato sulla schiena, non era certo una posizione tipica delle esercitazioni di tiro. Arcadi fece il possibile.
Il maglio lanciava quattro dardi filoguidati con carica stordente. Mirare era quasi impossibile mentre i polmoni iniziavano a lamentarsi per l’apnea.

Arcadi fece partire il colpo: due dardi andarono a segno nel torace del Diavolo. I suoi sberleffi cessarono immediatamente, la bocca si torse in una smorfia e poi chinò la testa. Il Diavolo Coraggioso rimase a penzolare come un ragno addormentato. Arcadi si liberò subito della frusta che lo stava strangolando e tolse il maglio scarico, mentre riprendeva a respirare con regolarità.

Era il momento di chiedersi chi fosse quel maniaco della frusta. Un fruscio alle sue spalle lo fece rabbrividire: la frusta che teneva appeso il Diavolo Coraggioso si stava srotolando. In un attimo lo vide precipitare. Ancora privo di sensi. Divenne una macchia rossa che andò a perdersi trenta metri più sotto, tra i detriti e i rottami. Una caduta a filo di piombo e senza un fiato.

Arcadi, dolorante e a passo incerto, tornò all’armadietto. Mise nelle tasche tutto il materiale e poi tolse dal gancio il neutralizzatore. Era uno stretto cilindro, lungo 50 centimetri con due impugnature dotate di grilletto. Si poteva smontare in due pezzi, cosa che Arcadi fece, per poi agganciare le impugnature alla sua cintura.

Chiuse l’armadietto sospirando, si chiedeva se avrebbe avuto la forza per scendere dalla piattaforma a cercare il cadavere del Diavolo Coraggioso. Era una procedura abbastanza complicata, anche per un liquidatore in condizioni ottimali. Però doveva farlo.

Andò alla capsula e si sedette al posto di guida, senza trattenere un vivace lamento quando si abbandonò allo schienale. Come prima operazione, inondò l’abitacolo del solito cocktail di disinfettante nebulizzato. Aprì il kit sanitario d’emergenza sotto il sedile e passò sulla ferita dell’avambraccio un tubetto di geloe, protettiva e cicatrizzante. C’era anche una barretta di ipervitamina, la divorò un tre bocconi. Mentre masticava Arcadi ripensò all’aggressione: quel tizio strano non sembrava arrivato lì per caso. Era evidente che mirava a lui. O comunque ce l’aveva con i liquidatori. Le sue parole erano esplicite quanto le sue frustate.

L’altro punto da chiarire era: come faceva a sapere che un liquidatore sarebbe passato di lì? Per Arcadi era una coincidenza sospetta che un soggetto così determinato e aggressivo fosse captato proprio mentre passava lui. Certo, poteva anche essere un maniaco certificato: forse se la sarebbe presa allo stesso modo con un manutentore o un inquilino in transito.

La seconda cosa bizzarra era l’armamentario del Diavolo Coraggioso: fruste. Un’arma antica, che escludeva il contatto fisico. Una scelta strana, in linea con l’imperativo degli Amministratori: il Contatto zero. Arcadi si immaginò alle prese con le fruste del rosso in calzamaglia e scosse la testa. Non gli sembravano per niente pratiche. Ridacchio tra sé: sarebbe stato capace di amputarsi un orecchio al primo allenamento.

Dalla calotta della capsula si vedevano isole di nuvolaglia bassa che si spezzavano e ricomponevano. Le colonne di luce tastavano la pianura che in apparenza aveva poco da offrire, ma la natura sapeva trovare la sua strada ovunque.

Arcadi calcolò che il lavoretto di ricerca cadavere sarebbe terminato verso mezzogiorno e doveva darsi una mossa se voleva andare a trovare Rubagotti. La schiena gli faceva ancora male, prese una pastiglia ricostituente e si raddrizzò per impugnare le leve.

Sganciò la capsula e la fece ruotare su se stessa in modo da mettersi in carreggiata. Sull’avanfreno diede soltanto un accenno. Il Diavolo non era caduto molto distante dalla piattaforma, doveva fermarsi poco più in là del bordo. Sulla sommità dell’abitacolo, dove la capsula si congiungeva all’asta c’era un vano protetto da un cuscino rimovibile. Arcadi lo levò e scoprì la manovella che serviva alla regolazione verticale della capsula.

Era l’unico modo di scendere a terra dalla piattaforma. Non esistevano scale di servizio o uscite d’emergenza. Il sito doveva restare completamente isolato, indipendente e sostituibile nel caso fosse compromesso. Tutte le grandi operazioni di manutenzione venivano svolte per via aerea dalla Flotta mobile delle Amministrazioni.

I canali degli olowall dedicavano trasmissioni speciali per raccontare le grandi imprese degli sciami di droni amministrativi. Erano meccanismi telecontrollati, istruiti per la raccolta del materiale, il trasporto nelle centrali di trasformazione e infine la collocazione di una vasta gamma di manufatti: dagli oggetti d’uso quotidiano negli alveari fino alle grandi installazioni, come i piloni delle piattaforme o le vasche di fusione dei centri di raccolta.

Da bambino Arcadi non se ne perdeva uno di quei programmi di pubblica istruzione. Ma l’aspetto tecnologico non era la cosa che l’attirava di più.+

Certo, vedere centinaia di moscerini ronzanti che sollevavano strutture mastodontiche era impressionante. Il piccolo Erik Arcadi che guardava le grandi opere condotte da remoto, si beava soprattutto di una intensa sensazione di potenza. Una potenza che lo investiva di una missione in qualità di membro della comunità degli alveari.

Gli Amministratori concentravano nelle loro mani il risultato di antiche sapienze, le loro conoscenze tecniche e sociali mettevano la comunità al riparo dalle tante insidie del vivere.

Erik Arcadi sentiva di essere parte di una grande forza indirizzata nella giusta direzione: sopravvivere. Contro tutto e tutti. Nel solco della sana osservanza della natura e delle sue leggi evolutive. Una natura che, spiegavano gli Amministratori, aveva imposto il contatto zero.

Con qualche scossone, dovuto alla gestione manuale di Arcadi, la capsula calava di quota. Mezzo metro per volta. Malgrado l’oliatura iniziale, il meccanismo non rispondeva docilmente al giro di manovella. L’operazione era piuttosto inusuale, una misura d’emergenza che raramente veniva utilizzata.

Giunto a meno di mezzo metro da terra, Arcadi si preparò allo sbarco. Sapeva che la superficie delle aree devastate era altamente pericolosa. Non era detto che quelle lastre di cemento e calcestruzzo fossero stabili. Magari reggevano soltanto il suo sguardo. Al primo piede appoggiato si sarebbero sbriciolate trascinandolo in un abisso.

Arcadi sollevò le sedute dei sedili posteriori che custodivano un vano di attrezzi. Prese un piede di porco e si sporse dalla capsula: la sbarra era lunga abbastanza per saggiare la consistenza del terreno. Diede tre colpi sulla lastra che stava proprio sotto la capsula. Il suono gli parve concreto e si decise a sbarcare.

Vista da terra la devastazione di Lanzogorgo faceva ancora più impressione: un paesaggio lunare, ma con una nota malinconica aggiuntiva dovuta al fatto che su quella terra di nessuno un tempo non lontano c’era stata della vita.

Arcadi non immaginava che tipo di vita: certamente più promiscua e incurante degli attacchi virali, altrimenti non sarebbe diventata un’area inerte della Zona rossa. Non bisogna voltare le spalle alla natura, pensò, chi lo fa si ritrova al tappeto, uno zerbino per il prossimo predatore.

Nelle sue prime uscite, gli era capitato di paragonarsi ad un animale da preda, bravo a seguire piste ed eseguire tattiche letali. Poi, passata l’ebbrezza del sangue, Arcadi era entrato in una concezione amministrativa del suo lavoro: era un anticorpo, difendeva gli alveari dalle insidie dei territori esterni alla Zona rossa. Gli infiltrati erano minacce potenziali alla stabilità del mondo creato dagli Amministratori e andavano neutralizzati.

Quel Diavolo Coraggioso era stato un osso duro, considerò Arcadi mentre picchiettava il cemento. Il blocco sul quale si stava muovendo pareva ben solido, così si avventurò verso quello che aveva l’aria di un crepaccio. Poteva semplicemente essere una veranda sventrata o la bocca di un garage interrato. Se il suo aggressore era piombato lì sotto, la sua ricerca sarebbe stata complicata. Non aveva mai fatto una cosa del genere. Almeno per quel che poteva ricordare, al rientro delle missioni era obbligatoria una visita dall’Equalizzatore emotivo. Chi affrontava l’Esterno non andava soltanto sterilizzato da eventuali contaminazioni fisiche. Gli Amministratori avevano disposto un procedimento di ripulitura dalle emozioni e dalle forti impressioni che un addetto poteva ricevere durante le escursioni. Gli alveari andavano protetti, le comunità tutelate dalle interferenze dannose.

Dopo una seduta con l’Equalizzatore ci si sentiva meglio, il peso delle ansie e dei ricordi ossessivi diventava lontano, come un rifiuto da differenziare.

Arcadi in quel momento avrebbe voluto alzarsi dalla poltrona dell’Equalizzatore: non gli piaceva l’avvio preso dalla missione e non gli piacevano le aree inerti. Sentiva un brivido di pericolo sotto la pelle. Si sporse sull’orlo del crepaccio con grande cautela: una fetta di buio, netta come lama di rasoio, inghiottiva l’estremità più profonda. L’oscurità risuonava di un alito di vento sotterraneo che trasmetteva l’idea di una dimensione inesplorata e ostile. Quel richiamo dell’antro rendeva nervoso Arcadi.

Il mosaico delle piastrelle da bagno a motivi floreali che si apriva qualche spanna oltre i suoi piedi non lo rilassava per niente. Una coperta di quadratini gialli, beige, verdi e azzurri decorati da petali, gigli, felci e ciuffi di anemoni. Sembrava tappeto steso perbene per attirare qualche insetto curioso. Arcadi aveva proprio quella spiacevole impressione.

Se il Diavolo Coraggioso era cascato laggiù, come poteva recuperarlo, si chiese. Forse conveniva…

La terra tremò. Un sussulto molto breve. Ma in Arcadi scattò l’interruttore della paura. Le gambe divennero due morse di ferro, inchiodate alla lastra di cemento che aveva traballato.

Il tremore si era spento in pochi istanti, improvvisamente così come si era manifestato. Arcadi non aveva mai sperimentato un terremoto, ma ne conosceva bene gli effetti. A quel fenomeno naturale gli Amministratori non avevano rimedi, soltanto cure.

Arcadi, ancora paralizzato dallo spavento, udì uno schianto, un suono metallico che proveniva da est. Girò la testa in quella direzione giusto in tempo per accogliere un secondo tremito.

Stavolta il cemento sotto i suoi piedi rispose al sussulto con una ragnatela di sottili venature che cresceva sollevando sbuffi polverosi. Arcadi osservò con terrore la ramificazione delle crepe raggiungere i suoi piedi.

Il tremito cessò. Arcadi non s’azzardava a respirare. Però vide qualcosa in fondo alla spianata di Lanzogorgo: una figura strana, una sintesi tra l’uomo e il granchio. Al posto delle braccia aveva due grosse chele e le usava come dei martelli per percuotere la superficie già martoriata.

In quell’istante il granchio-uomo sollevava le chele per scatenare il terzo micro sisma.

Non ci fu il tre. Non per Arcadi. La crosta di cemento che lo reggeva andò in pezzi e lui volò giù. Nella bocca dell’abisso.

© 2020 – Associazione Culturale RetroEdicola Videoludica – via Gabriele Rosa 18c – Bergamo
1° edizione – Progetto Iskandar – Marzo 2020
Tutti i diritti riservati