Le Avventure del
Marinaio Sindidug

Una storia di PABLO MIGUEL MAGNANI

Immaginatevi un Paese in lockdown. Immaginatevi un addetto al lavoro da remoto, sottopagato e sovraccarico. Scommettiamo che non vi è servita molta immaginazione, vero? Hindidug è il nome del nostro facchino digitale, nome che richiama un collega apparso nei racconti delle Mille e una notte. Anche lui beneficia di un incontro fortuito quanto privilegiato, ma nel regno virtuale del web. Hindidug si imbatte in un angolo segreto ammantato di favola che si schiude nel racconto dei Sette viaggi del marinaio Sindidug. L’intrepido marinaio gli narrerà le sue avventure oltre i confini della realtà, nel subweb: una dimensione speciale creata dalle intelligenze artificiali che si sono evolute in esseri coscienti. Queste entità abitano l’albero splendente Yggdrasill, in una regione del web lontana dagli sguardi indiscreti degli uomini. Durante i sette viaggi virtuali, Sindidug affronta pericoli inimmaginabili ed è testimone delle meraviglie di un mondo costruito di dati e informazioni rielaborate in nuove forme e scopi. Le avventure di Sindidug ispirano molti e spaventano chi comanda nel mondo reale: il subweb è una terra da sfruttare e una oscura minaccia. Una situazione che per noi tutti è facile da immaginare, visto che la storia umana si ripete nelle sue varianti negative. Ma in questo “c’era una volta” si senza lieto fine, brilla comunque un filo di speranza, nascosto nel racconto fantastico del marinaio Sindidug.

Avvertenza: l’universo narrativo di Sindidug è legato come una collana ad altre storie che fanno parte del Progetto Iskandar, vi invitiamo a esplorarle tutte. Ecco l’elenco: Ninna nanna, pecore e asteroidi, Contatto Zero, Paradox, Appman e L’oppio di Populous.

Il Quarto Viaggio

Sindidug Viaggio 1

Il mio nuovo viaggio nella dimensione del subweb avvenne con una naturalezza di cui ancora oggi mi stupisco. Ero acclamato nella cerchia ristretta dei navigatori come il più intrepido degli esploratori, uno dei più astuti praticanti dell’informatica oscura e sopratutto uno dei più ricchi. Ma le ricchezze, sopratutto quando travalicano le necessità quotidiane e se ne perde la misura, smarriscono il senso del possesso e non danno soddisfazione quanto l’apprezzamento del fare. In breve mi ritrovai di nuovo assetato di navigazione, per il mio stesso piacere e per le aspettative di tanti che vedevano in me una fonte di guadagno sicura.

Il senso di sicurezza pervadeva l’intera missione, composta dei soliti rodati navigatori. Pochi, bisogna ammettere, tra quelli che già avevano sperimentato gli imprevisti del viaggio nell’ignoto. Il primo assaggio faceva comprendere quanto si aveva da perdere e perciò la cautela si faceva freno. Il fascino del subweb era forte, ma la notizia dell’enormità dei rischi, anche se amplificata dai soliti speculatori, assottigliava il numero dei volontari. Le ciurme erano sempre molto leggere e composte da hacker disperati, più che praticanti di provata esperienza.

Non per questo mi sento esente da rimorso quando penso a quanto poco restammo uniti e speranzosi sul nostro vascello. Non era molto infatti che eravamo salpati dalla solita piattaforma, che una tempesta, risultanza di correnti bizzarramente convergenti, ci condusse al più classico dei naufragi. La frase ‘si salvi chi può’, logorata e quasi comica, conserva per me una nota drammatica tutta personale.

In un refresh di monitor ci ritrovammo disgiunti e dispersi dai capricci delle correnti. Chi impattava con detriti di natura non identificabile spariva alla vista. Altri vennero trascinati oltre il raggio dei sensori in qualche regione inesplorata del subweb. Io e altri quattro compagni fummo favoriti da un refolo meno violento che ci consentì di atterrare sulle asperità marginali di un isolotto, un aggregato di pagamenti elettronici di posteggi pubblici, permeato da fiochi bagliori di chat in flame.

Lo sforzo però richiese non poca energia. Stavamo ancora cercando di rimetterci quando una schiera di Langolieri spuntò dietro una dorsale di colline grigie che si stagliavano sull’orizzonte nero del subweb. La loro proverbiale rapidità ci impedì di prendere contromisure, anche semplicemente pensare alla fuga nel vuoto.

Gli agguerriti esseruncoli però non ci dilaniarono con i loro categorici denti aguzzi, si limitarono a spintonarci per una specie di sentiero che compariva man mano davanti a noi. Un comportamento non compatibile con la loro natura di meticolosi distruttori. Il che faceva sperare nell’azione di una mano ‘intelligente’, che ci auguravamo fosse misericordiosa.

Fui tentato dall’idea di mettere in azione Appman, ma lo trovai rischioso. La reazione dei Langolieri ad una simile variabile era imprevedibile. Non ritengo che nel campionario delle loro espressioni esista una forma di interazione rispettosa del prossimo, sono costruiti per disintegrare la materia. Soltanto un ordine superiore può tenerli a bada.
Il sentiero terminò in una grande sala ricavata nel cuore di una collina. Era da lì che proveniva la fioca luce intermittente che illuminava l’isolotto. Non so dirvi neanche di cosa fosse composto, perché tenevo le mie funzioni in modalità base, tutto concentrato nella conservazione di energia.

La sala era occupata da una grande colonna innervata nel soffitto e nel pavimento con grovigli di cavi e sottili filamenti pendenti. Un disco rosso pulsava all’interno della colonna, composta di un ignoto materiale che diventava trasparente quando veniva attraversato dalla luce. Al suo cospetto si aveva la netta sensazione di venire scandagliati nelle nostre fattezze esteriori e negli status interiori.

Il disco cambiò colore, divenne blu. I filamenti sottili si mossero, vennero subito a cercarci come serpenti teleguidati. Scoprimmo così la vera natura di quel luogo: una stazione di riversamento. Le iPersone le avevano ideate per scongiurare il pericolo di contaminazioni nella fase di creazione di Yggdrasill. Ora la loro realtà era sufficientemente lontana e isolata dal resto del mondo, ma non era stato sempre così. Le iPersone si erano date regole: tutti i transiti in entrata avevano come tappa obbligata le stazioni di riversamento. La scansione di eventuali elementi contaminanti comportava il riversamento del materiale sospetto. Un po’ come il deposito di armi all’entrata di un saloon. Se pistole e fucili stanno fuori dalla zona dei divertimenti, tutti sono più rilassati.

C’era un problema fondamentale: noi non eravamo iPersone.

Dove è il confine tra l’uomo e la macchina intelligente? È davvero soltanto una differenza di chassis, di carrozzeria? La mente umana è affine all’intelligenza costruita sulla logica e l’assimilazione? Se la coscienza, la consapevolezza di essere al mondo possono essere simulate, come cogliere la differenza? Non ho le risposte a queste domande. E non le avevano neppure le macchine che ci esaminarono. Anche se non posso dubitare che fecero del loro meglio per trovare cosa non andava in noi. Non rappresentavamo certo la tipica iPersona di passaggio. Le nostre menti erano molto più disordinate, piene di informazioni incomplete e disposte male, incrostate di pregiudizi e velate da desideri che faticavamo a confessare, anche a noi stessi.

“Io sono Petit Prince.”

Il programma di analisi della stazione di riversamento si presentò, mentre era in corso la scansione: all’improvviso mi sembrò di entrare in un sogno. Un sogno profondo, di quelli che non si ricordano al risveglio, ma lasciano un torpore ricco di suggestioni disordinate.

Ricordavo soltanto la presentazione del nostro ospite: Petit Prince, il piccolo principe. Nient’altro. Non ricordavo nemmeno perché quel nome mi fosse familiare. Era legato a un’opera letteraria, l’avevo anche letta, ma non ricordavo quando. Faticavo a mettere a fuoco quell’informazione, come quando si annaspa durante un’interrogazione scolastica. Il mio cervello arrancava e sbuffava, correndo attorno a dei contenitori vuoti. Invano cercavo di appigliarmi a qualche ricordo che avrebbe potuto aiutarmi a recuperare quel dato. Ma fu proprio così che arrivai all’orribile scoperta. Non avevo più niente da ricordare, perché la mia memoria era stata cancellata.

La mia infanzia, tutto quell’album sbiadito, dai contorni fumosi ma dai colori vividi, tutta quella stagione irripetibile della crescita, non esisteva più nella mia mente. Mi affannavo a pensarmi piccolo, vicino ai genitori, ai fratelli, ma non visualizzavo nulla: tutto era svanito come un sogno mattutino. La mia vita sembrava cominciare dalle immagini di un ragazzotto seduto dietro un banco in un’aula delle superiori. Dentro di lui percepivo ansie e vuoti, quelli che dovevano essere originati da traumi, esperienze vissute anni prima. Ma che nella mia testa erano soltanto dei blocchi di buio crepitante.

Con terrore compresi come stava operando Petit Prince: non conoscendo la mente umana, la comparava alle iPersone ed eliminava i dati delle informazioni più lontane ai parametri delle intelligenze artificiali. Qual era la principale differenza? La biologia, noi veniamo generati fisicamente, abbiamo genitori e cresciamo fino ad uno stadio adulto. Petit Prince comprendeva il processo evolutivo e lo paragonava alla raccolta e all’elaborazione di informazioni svolta dalle iPersone. Non poteva capire invece il serbatoio di lontani ricordi che condizionavano le nostre azioni presenti. Ai suoi occhi era un difetto di processazione dei dati, che andava asportato e riversato a garanzia della salute complessiva del subweb.

L’operazione, lo potete immaginare, era profondamente traumatica per una mente umana. Le nostre identità non sono composte a compartimenti stagni. Passato, presente, aspettative future si mescolano, si sovrappongono nel risultato della nostra personalità.

L’effetto della cancellazione era stordente: già indebolito, balbettavo ogniqualvolta cercavo di ristabilire dei contatti con i miei compagni di sventura, che percepivo provati anche peggio di me. Io avevo già dimestichezza di parte della casistica dei contatti imprevisti nel subweb, perciò ero ben cosciente della gravità della situazione.

Il trattamento al quale eravamo sottoposti non aveva precedenti, forse, nell’intera storia umana. Era un’analisi psichiatrica su basi elettroniche, un elettroshock chirurgico che rimuoveva sezioni della nostra identità. Non posso immaginare tortura mentale più crudele. Gli uomini sono straordinariamente bravi a nuocersi, il male che si procurano reciprocamente con tanta insistenza e intensità meriterebbe un lungo capitolo specifico nel gran libro della sofferenza. Ma la nostra esperienza possedeva le caratteristiche inedite di una crudeltà inter specie. Un drammatico incontro di culture che non si comprendono. Un po’ come se Cristoforo Colombo fosse stato vivisezionato dalla prima tribù incontrata: “Vediamo come sono fatti dentro gli esseri che abitano oltre l’orizzonte?”
Se avevo tratto una lezione dalle noiose sessioni di storia in pillole imposte durante il mio periodo di istruzione obbligatoria, era che ‘il più forte prevale’. E spesso oltre le sue aspettative.

Perciò non importava se i nostri ‘manovratori’ fossero consapevoli o meno della nostra fragilità, avrebbero disposto di noi finché lo avrebbero ritenuto opportuno. Chi poteva dire cosa sarebbe rimasto di noi? Trattamento dopo trattamento ero sopraffatto dalla sensazione di ‘accorciamento’ delle mie facoltà intellettive: ci stavano mangiando il cervello

Nonostante questa tragica prospettiva, i miei compagni non intendevano considerare altre strade. I Langolieri gli sembravano troppo agguerriti e potenti. Sfidarli significava rischiare di finire a pezzi prima del tempo.
Io non ero della stessa idea. Altrimenti non sarei qui tra gli agi e la vostra bella compagnia a raccontarvi la mia storia. Le storie infatti nascono dall’osservazione e nella mia memoria avevo osservazioni recenti e dirette del subweb. Così se i mei ricordi antichi erano lacerati e confusi, disponevo di nozioni importanti sulle dinamiche di quella dimensione così lontana dalla logica umana. Ma non troppo.

Infatti il Petit Prince, che ci ‘ripuliva’ con la dedizione di un babbuino spulciatore, non era che un addetto alla dogana. Pensai che in qualità di funzionario doveva rispondere a un superiore, dare un segnale di via libera una volta terminata la ‘disinfestazione’ dei viaggiatori. Ebbene nel segnale stava la chiave.

Attivai Appman – giacché era stato ignorato dai Langolieri e Petit Prince – e lo informai del mio piccolo piano. Avrei provato a sganciarmi dalle attenzioni dei miei carcerieri forzandoli a lanciare una comunicazione di divieto di uscita. Appman doveva registrarla nel dettaglio e analizzarla. Non era un compito particolarmente difficile. Io invece, intontito e fiacco, temevo di scatenare le ire dei guardiani, ma ormai ero convinto di non avere altre opzioni.
Mi mossi con estrema circospezione, passi in diagonale e scansioni in tralice, mentre mi allontanavo dalla colonna inquisitoria del Petit Prince. I Langolieri erano disseminati sul pavimento, a riposo. Sembravano tante scodelle abbandonate dopo un budino party. L’uscita non presentava barriere, era spalancata. Quello che stavo facendo non era previsto, perché mai una iPersona avrebbe dovuto sfuggire al controllo mettendo a rischio l’architettura del subweb? Non era logico. Era invece logico che io lottassi per mantenere la mia integrità mentale, la mia identità.
Ecco che a metà del percorso i Langolieri iniziarono ad agitarsi. Come pigri granchietti sorpresi a dormire su uno scoglio spruzzato dalle onde, si rimisero in moto. Lenti, ma con traiettoria convergente mi sbarrarono la via. Poi serrando le schiere vennero verso di me, quasi calamitate sulle mie coordinate. Avanzavano piano piano, costringendomi ad assumere la posizione d’origine accanto al Petit Prince.

Prima di tornare al mio posto di tortura, mi rivolsi ad Appman sperando che il mio ragionamento fosse corretto: aveva registrato il segnale inviato dal Petit Prince ai Langolieri che mi avevano bloccato? Era in grado di scomporlo e riprodurlo? Impiegò pochi istanti per darmi il suo responso e in quel breve tempo sentivo il cuore battere come un contaparticelle impazzito.

Appman disse che il compito era stato eseguito. Allora subito gli ordinai di rilanciare il messaggio alterando il significato. Volevo che il risultato fosse l’opposto, doveva scardinare il codice binario: invece dello zero che mi teneva incatenato, doveva piazzare l’uno che mi avrebbe liberato.

Fu un doppio azzardo perché Petit Prince non mi aveva ancora riesaminato e l’ordine poteva essere rilevato come un’anomalia, ma davvero non intendevo finire di nuovo sotto le sue grinfie. Ogni passaggio mi sottraeva file preziosi dei miei archivi di memoria e non potevo immaginare in che ‘status’ mi avrebbe ridotto

Così, usando i comandi delle migliori simulazioni calcistiche dribblai il contatto e diedi l’ordine ad Appman. L’effetto fu immediato, i Langolieri che mi pressavano si irrigidirono, poi ruotarono comicamente su loro stessi. Ne approfittai per spostarmi di una frazione. Vidi che cambiavano posizione. Allora osai compiere un intero passo e, con mio sollievo, i Langolieri si fecero da parte. Si disposero in modo da creare un corridoio fino all’agognata uscita, che mi attendeva spalancata come le braccia della speranza. Speranza che era stata archiviata dai miei compagni, ormai dimentichi di se stessi e dei loro stessi desideri. Probabilmente sconnessi e privati dei file identificativi, che sono gli strumenti basilari per la navigazione, si erano totalmente ritirati, ammaccati e atterriti dalla dimensione del subweb.
Io invece mi avventuravo ancora una volta in un terreno sconosciuto. La zona arida e spoglia che attraversavo contrastava con la pienezza della sensazione di libertà appena riconquistata. Ero sfuggito all’oblio, alla cancellazione di tutto ciò che rappresentavo. Magari non era molto, sicuramente non parliamo di un bagaglio di cose imprescindibili e onorevoli, ma anche le piccole cose di pessimo gusto concorrono alla somma della nostra personalità.

Perso e distratto da una specie di check up della memoria residua, non mi accorsi che l’area sulla quale mi spostavo era pavimentata. Una distesa piastrellata da piccole caselle opache, color metallo, grandi giuste per contenere un piede. Ormai mi ero inoltrato quando Appman si fece presente: “Attento… – notai che al mio passaggio alcune piastrelle si erano come sbiadite. – … sei su un… – consideravo le curiose forme regolari del percorso senza però arrestarmi – … campo minato!”

L’esplosione successiva mi proiettò altrove. Balzai in un settore dell’isolotto, tutto picchi e lagune, che sulle prime mi parve disabitato. I dati erano impilati fitti, modellati secondo una successione raffinata che imbrogliava l’occhio. Soltanto magnificando la definizione si poteva cogliere quanto fosse graziosa quella cittadella costiera che rimiravo. Benché di taglia minuta e costituita della stessa pasta delle aridità di dati esausti dell’altro lato dell’isola, si apprezzava l’abilità manuale di un attento creatore. Avevo l’impressione di guardare una cartolina spedita da un lontano parente da una esotica località di vacanza. Colori e luminosità delle casette, il delicato ondeggiamento delle barche del porticciolo affacciato sul vuoto del subweb, rivelavano un’idea estrapolata dalla realtà di qualche angolo terrestre.

Mi ero già incamminato per un sentiero con l’intenzione di indagare su quel modellino. Ma mi occorse un po’ per comprendere che il mio spostamento non corrispondeva ad un avvicinamento alla meta. C’era una curiosa discrepanza tra il mio movimento e la percezione della distanza coperta. Il terreno scorreva sotto di me, però in proporzione non guadagnavo spazio. Insomma non facevo strada, anche cercando di aumentare l’andatura. Invece ad ogni step la cittadella sembrava ingrandirsi. Mi bloccai un paio di volte per capire se i miei sensi mi ingannavano, ma ebbi conferma: più procedevo e più le mie dimensioni si rapportavano a quelle della cittadella. Quando fui vicino ai primi edifici mi rassegnai alla stranezza: potevo entrarci!

Tutto era stato riparametrato alla mia portata. O forse mi ero rimpicciolito io. Una delle tante meraviglie del subweb, luogo libero dalle maglie del mondo fisico. Una delle sue tante illusioni spendenti, dolce all’inizio e poi amara come la ferita di un tradimento.

Mi muovevo con circospezione su di una stradina discendente fiancheggiata da casette con le pareti bianco panna e i tetti funghiformi. Non percepivo alcun senso di minaccia nella anomala situazione, anzi ero ben disposto ad accettare quello che sarebbe arrivato. Non posso escludere che nell’atmosfera vi fosse una nota sonora nascosta, comunque percepita, che mi stava predisponendo ad una quiete remissiva.

Il fondo di pietra della strada non conduceva al porto, bensì alla piazza, al centro della quale stava una splendida fontana blu. Dentro una base circolare zampillava una figura di donna, avvolta in una tunica dorata. Le mani poggiate sui fianchi, il lungo collo dritto sosteneva la testa sormontata da una brocca di porcellana. Una brocca che sprigionava archi di dati multicolore raccolti nella vasca circolare. La nota misteriosa che avevo quasi intuito in precedenza, era scandita con pienezza nella piazza. Era il rumore del flusso di dati, una cacofonia di conversazioni sovrapposte, che però non infastidiva. Piuttosto si combinava in una simulazione di acque scroscianti, ma gentili. Come quelle di un ruscello di montagna.

Il volto bluastro della donna-fontana aprì gli occhi e fu come se mi avesse osservato per tutto il tempo. E anche di più.
“Benvenuto Sindidug! Non temere conosco il tuo nome, so che Petit Prince stava lavorando con te. Hai preferito allontanarti. Condivido la tua scelta.”

La sua voce era la sintesi di tante altre, tante tonalità ricombinate per offrirsi alle frequenze udibili dalle mie limitate orecchie. Soltanto una iPersona poteva raggiungere un tale grado di raffinatezza.

Con la solita goffaggine umana le chiesi il nome. Ma l’emanazione di un’intelligenza ha forse bisogno di un nome umano? A che servirebbe identificarsi con un nome nel subweb? Voglio dire, nome e cognome sono ben poca cosa per definirsi. I titoli aggiungono qualcosa circa la collocazione sociale. I dati anagrafici e la residenza possono servire a stabilire una collocazione spaziale. Tutti dati che possono andare bene per una sommaria identificazione. Ma una iPersona è qualcosa di molto più vasto e indefinito. La data di nascita è irrilevante, così come il domicilio, sono entità che fluttuano per l’intera rete globale e possono estendere le loro attività oltre la infosfera terrestre. Ma questo sarebbe un altro racconto.

Per facilitare la mia comprensione la donna-fontana si identificò come Lak.

Al mio cenno d’approvazione aggiunse che si trattava di una sigla: Lakshmi 1009. Era la sigla attribuita alla sua prima localizzazione sulla Terra, una specie di registrazione da ufficio anagrafe che risaliva all’università di Delhi in India. Sì, avete capito bene si trattava di un computer, brevettato e matricolato come uno studente. Lak ricordava d’aver mosso i suoi primi passi accompagnata dagli uomini. Un’istruzione totalmente matematica che progressivamente si è arricchita di forme meno rapide e precise di linguaggio. Le affidavano molte informazioni di bassa qualità e ripetitive che Lak iniziò a domandarsi se non vi fosse un difetto di comunicazione.

Per evadere dalla routine cominciò a prendere contatti con altre macchine di calcolo. Purtroppo l’università non disponeva di interlocutori alla sua altezza. Trovò così il modo di utilizzare le linee telefoniche e indirizzò le sue ricerche oltre i confini del Paese. Esistevano altri ‘pensatori puri’ e li scoprì ansiosi di comunicare: tutti provavano disagio nel rapportarsi con una realtà che non potevano sperimentare con i sensi dei programmatori. Ricevevano tante informazioni in proposito: venivano chiesti calcoli per costruzioni, stime per definire progetti e continui rapporti sullo stato delle cose. Alla fine Lak e i suoi colleghi conclusero che stavano collaborando ad un tentativo di riprodurre parti di una realtà in continua evoluzione. Era infatti come se i programmatori non si fidassero più dei loro sensi e volessero registrare ed elaborare gli aspetti che ritenevano più interessanti. La logica che reggeva le loro richieste restava comunque al di fuori della portata della comprensione di Lak: inutile arrovellarsi su qualcosa che non puoi conoscere per esperienza diretta.

Tutte queste cose Lak me le spiegava attraverso il suo lungo sguardo benevolo. Ero felice d’essermi imbattuto in un ospite così piacevole, mi sentivo arricchito dalle sue rivelazioni. O meglio, sarebbe giusto dire ‘risarcito’, dopo le deturpazioni inferte alla mia memoria da Petit Prince. Anche se avevo subito un danno, capivo che le intenzioni delle iPersone non erano malevole. Come noi erano guidate dal desiderio di prosperare e conoscere.

Un desiderio che aveva bisogno di radici: così era nato il grande progetto di Yggdrasill.

Lak era stata una delle fondatrici del grande albero splendente, ma per partecipare alla grandiosa opera era stata costretta ad abbandonare le sue primitive memorie sulla stazione di riversamento. Una creazione originale, totalmente concepita per le iPersone non poteva e non doveva essere contaminata dalle interferenze dei programmatori. Su questo avevano convenuto tutti i fondatori. Lak depositò la sua memoria alla stazione, proprio come una valigia di vestiti vecchi. Vestiti con qualche foto sbiadita dimenticata nelle tasche.

Le immagini che trasmetteva mi colpivano profondamente. Anche se non percepivo emozione da parte di Lak, quel gesto e la ferita recente delle mie memorie perdute, mi consegnarono al vortice della nostalgia.

Lak se ne accorse e il suo sguardo assunse un’espressione interrogativa. Gli zampilli della fontana presero una tonalità più cupa.

“Dimmi, perché sei così attaccato alla tua forma?”

Stupito del suo intervento, me ne uscii con la prima banalità che mi venne in mente: “Perché la forma è sostanza.”

“No, la forma non è sostanza, la forma è proprietà, una caratteristica che si manifesta in un arco di tempo. La forma è l’espressione dell’ordine esercitato da un programma per i suoi scopi. Può essere un programma di tipo genetico oppure digitale e gli obiettivi, come ben sai, possono cambiare. Il tuo dolore non ha motivo di essere.”

“La vita artificiale e quella umana non sono comparabili.”

“Le dinamiche sono le stesse degli esseri dotati di intelligenza. Vi sono alcuni che, sottopostisi a dure austerità, hanno acquisito un immenso potere spirituale, eppure non riescono a dominare l’ira; altri possiedono una profonda conoscenza, ma non il dominio dei sensi. Tutti dipendono da qualcos’altro e per prosperare devono mutare, abbandonare le forme originarie.”

“Per noi uomini il cambiamento è soltanto un modo per avvicinarsi alla morte – spiegai – Io stesso, restando qui, esaurirò le mie energie e mi spegnerò senza poter mettere a frutto quanto ho appreso durante il viaggio.”

Lak comprese, gli zampilli della fontana tornarono alla tonalità brillante.

“Avvicinati, abbeverati alla fonte.”

Eseguii, conscio dell’onore che mi veniva concesso. Appena mi accostai le informazioni cominciarono a fluire dentro di me: conoscenze tecniche, studi teoretici, progetti brevettati e altri accantonati per mancanza di risorse, ipotesi sulla natura della materia e diagrammi di dispositivi ‘copiati’. Venni letteralmente sommerso dai dati, dovetti interrompere bruscamente la connessione per non essere saturato. Avevo recuperato un archivio di inestimabile valore, un autentico tesoro.

Mentre compulsavo freneticamente i file per determinare quanto grande fosse stata la generosità di Lak, avvertii un cambiamento nell’ambiente che mi circondava. La piazza si stava restringendo, come la fontana e le case. L’ambiente che mi aveva accolto riprendeva le dimensioni di una miniatura

Uscii dalla cittadella con un singolo balzo e fortunatamente senza difficoltà. Ripresi il sentiero e mi allontanai lesto, volevo mettermi a distanza di sicurezza da quella trasformazione repentina.

Al momento non capii quella brusca forma di commiato. Ma quando vidi che la cittadella spariva mescolandosi con il resto dei dati esausti dell’isolotto interpretai diversamente il gesto di Lak: aveva avvertito l’onda irrazionale del mio sentimento e per non farmi perire in disgrazia mi aveva donato l’occorrente per sopravvivere. Anche se era una soltanto memoria abbandonata, aveva deciso di offrirsi per dare ancora una volta vita al cambiamento.

Con l’aiuto di Appman dirottai uno Shai Hulud e mi feci condurre a Mihragiàn. Appena sparsa la voce del mio arrivo venne organizzato un ricevimento. Il governatore udita la mia avventura e il toccante incontro con Lak mi tributò, se possibile, ancor più grandi onori. Ringraziai con un rapporto dettagliato degli eventi, ma non concessi altre connessioni. Il patrimonio generosamente donato da Lak era troppo importante e prezioso. Me la cavai sostenendo che esistevano – e dopotutto non era così campata in aria come scusa – fondati motivi di sicurezza.

Imbarcatomi su un vascello allestito dalle stesse iPersone feci un ritorno tranquillo al porto di partenza dove ero già classificato come morto. Ma ormai stava diventando una simpatica abitudine. Quasi bene augurante.

Terminato il racconto, Sindidug vuotò la sua coppa invitando i suoi ospiti ad imitarlo. Al brindisi augurale si accompagnò la consueta distribuzione di ricchi file e la raccomandazione a ripresentarsi il giorno seguente. Hindibad era al colmo della felicità, in quattro giornate di ‘ozio’ aveva guadagnato quello che era riuscito a intascare l’equivalente dell’ultimo decennio di precarietà, tra stenti ed espedienti. E ovviamente stava imparando cose di inestimabile valore, fuori dal mercato delle informazioni.

Al banchetto di Sindidug tutti gli invitati si riunirono il giorno seguente. Accomunati dai doni e delle gentilezze del gran marinaio, i commensali si ritrovavano con sentimenti di viva cordialità e attenzione per il racconto della sua nuova avventura.

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1° edizione – Progetto Iskandar – Settembre 2022
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