Le Avventure del
Marinaio Sindidug

Una storia di PABLO MIGUEL MAGNANI

Immaginatevi un Paese in lockdown. Immaginatevi un addetto al lavoro da remoto, sottopagato e sovraccarico. Scommettiamo che non vi è servita molta immaginazione, vero?
Hindidug è il nome del nostro facchino digitale, nome che richiama un collega apparso nei racconti delle Mille e una notte. Anche lui beneficia di un incontro fortuito quanto privilegiato, ma nel regno virtuale del web. Hindidug si imbatte in un angolo segreto ammantato di favola che si schiude nel racconto dei Sette viaggi del marinaio Sindidug.
L’intrepido marinaio gli narrerà le sue avventure oltre i confini della realtà, nel subweb: una dimensione speciale creata dalle intelligenze artificiali che si sono evolute in esseri coscienti. Queste entità abitano l’albero splendente Yggdrasill, in una regione del web lontana dagli sguardi indiscreti degli uomini.
Durante i sette viaggi virtuali, Sindidug affronta pericoli inimmaginabili ed è testimone delle meraviglie di un mondo costruito di dati e informazioni rielaborate in nuove forme e scopi.
Le avventure di Sindidug ispirano molti e spaventano chi comanda nel mondo reale: il subweb è una terra da sfruttare e una oscura minaccia. Una situazione che per noi tutti è facile da immaginare, visto che la storia umana si ripete nelle sue varianti negative. Ma in questo “c’era una volta” si senza lieto fine, brilla comunque un filo di speranza, nascosto nel racconto fantastico del marinaio Sindidug.

Avvertenza: l’universo narrativo di Sindidug è legato come una collana ad altre storie che fanno parte del Progetto Iskandar, vi invitiamo a esplorarle tutte. Ecco l’elenco: Ninna nanna, pecore e asteroidi, Contatto Zero, Paradox, Appman e L’oppio di Populous.

Il Terzo Viaggio

Sindidug Viaggio 1

Ero ricco, ma ero anche giovane. E la disponibilità nella giovinezza è un ottimo combustibile per chi ha sete di avventura. Sazio di piaceri e sopratutto di inutili sperperi nell’ozio, decisi che era il momento di riprendere il mare del subweb, una regione oscura ormai attraversata da torme di avventurieri decisi a seguire le mie orme, ma non sempre fortunati. La maggior parte tornava a mani vuote, una piccola percentuale non “tornava” più e passava dal deckboard alle sale di criostasi per incurabili. I pochi che erano riusciti a concludere affari sicuri con le iPersone avevano partecipato alle mie stesse missioni.

La mia terza partenza fu perciò caratterizzata da una certa prudenza: non volevo troppa ressa, troppa attenzione indesiderata. Come al solito ero associato ad un gruppo ristretto e selezionato di mercanti-esploratori.

Una volta salpati, fummo accorti nel rispettare le tappe senza cadere in tentazioni, memori degli incidenti precedenti. Curammo gli approvvigionamenti e ci accostammo alle fonti di materiali vaganti con tutte le precauzioni del caso. Con tale saggio contegno le nostre bisacce si riempirono molto prima di avvistare la nostra destinazione. Ma da qualche parte si era disposto diversamente. Infatti mentre si viaggiava per Roha – l’avevo magnificata per bene e solleticava non poco la curiosità dei colleghi – incappammo in una turbolenza non identificata. La rotta venne invasa da una quantità di informazioni esauste, espulse da un punto imprecisato di Yggdrasil e condensate fino a diventare una corrente di forte disturbo. Per evitarla fummo costretti ad attraccare al riparo di uno delle miriadi di tozzi satelliti composti di dati cestinati.

L’intenzione dello skipper era di attendere e lasciare sbollire quella tempesta dagli effetti sconosciuti quanto la sua origine. Peccato che così facendo finimmo dalla piastra di cottura al microonde. Appena ancorati, non so chi dei miei colleghi iniziò a lamentarsi: quel satellite a forma di pista aeroportuale gli ricordava qualcosa. Qualcosa di poco piacevole. Di norma le sensazioni di chi viaggia nelle regioni ignote del subweb sono tenute in stretta considerazione. Dovendo muoversi in terra incognita, ogni spunto può rivelarsi prezioso se non determinante per l’esito della missione. Ma in quel frangente, di fronte a una tempesta, io volevo dare la precedenza a ciò che appariva il male maggiore. Avevo già provato lo smarrimento totale di un naufragio nel subweb e non intendevo fare il bis. Le inquietudini di un brutto sogno potevano starsene parcheggiate insieme alla nostra spedizione sulla pista di quell’asteroide illuminato dai bagliori lontani di Yggdrasill.

Fu un solo grido a segnare l’inizio del dramma: “Langolieri!”

A centinaia, minuti e lucidi sciamarono da non so dove. Si arrampicarono sugli attracchi, si presero il controllo della spedizione, dirottarono i parametri di conduzione su nuove coordinate e letteralmente ci buttarono fuori. Non capivo se eravamo stati abbordati o hackerati, in sostanza eravamo stati espropriati e abbandonati.

Sentivo su di me gli sguardi dei miei compagni di viaggio e dello skipper: io ero la guida dell’impresa. Chi se la sentiva di ammettere che quell’imprevisto era totalmente fuori dal catalogo delle mie esperienze? Non sapevo che byte pigliare.

Per tenerli occupati chiesi di esplorare il posto in cerca di qualcosa di utile per segnalare la nostra presenza. Il risultato mi tolse d’impaccio. Infatti sulla faccia opposta dell’asteroide i miei soci individuarono una serie di costruzioni che non avevano certo l’aspetto di agglomerati casuali. Erano delle torri, edifici cilindrici torniti in foggia artistica da un materiale scuro come l’ebano e sormontati da tetti particolarmente elaborati. I più numerosi finivano in pinnacoli e formavano una fila intera, altri sembravano elmi di guerrieri, altri ancora delle torri di castelli. I più strani avevano teste di cavallo. Soltanto un paio si ergevano sopra gli altri: uno era sormontato da una piccola sfera coronata, l’altro da una croce.

“Sembrano scacchi per giganti!” Osservò lesto il nostro skipper.

A conferma della sua teoria, osservammo che la spianata dell’asteroide sulla quale si ergevano gli edifici era levigata e delimitata da linee che la suddividevano alternativamente in terreni di colore scuro e di colore biancastro. La superficie così lavorata si estendeva oltre l’orizzonte e per questa ragione non avevamo colto subito la similitudine con una scacchiera.

“Guardate ci sono dei portali d’uscita!” Strillò uno dei commercianti mentre varcava la soglia di un edificio dal tetto appuntito. La sua fretta di piantare la bandiera sulla scoperta gli costò cara: la porta si chiuse alle sue spalle, quasi indistinguibile dal resto della parete. Ma prima che soltanto pensassimo a un metodo per cavarlo da quella trappola, assistemmo all’ennesimo terribile prodigio del subweb. L’edificio cilindrico si sollevò e lievitando avanzò di una casella.

Cercammo di raggiungerlo, ma prima di varcare le linee della casella di partenza venimmo storditi da un rombo possente. Dal taglio curvo dell’orizzonte una sagoma gigantesca piovve su di noi. Una grande torre volante, come quelle nere che avevamo avvistato, si scagliò sulla costruzione che era avanzata di una casella. La collisione fu tremenda: l’edificio nel quale era chiuso il nostro compagno andò in mille frantumi, subito dispersi da un vento che soffiava appositamente per tenere sgombra la scacchiera. La torre aveva annientato la pedina.

Malgrado lo smarrimento e il terrore, tutti comprendemmo che quella manifestazione rappresentava una ciclopica partita in corso. Entrare nelle porte significava azionare le monumentali pedine e partecipare al gioco. Contro chi o contro cosa, non potevamo neppure immaginarlo. Forse era il residuato di un listato di gioco abbandonato dal suo programmatore oppure un livello nascosto di un videogame che trasponeva il celebre racconto di Alice nel paese delle meraviglie.

“Ho analizzato l’ingresso prima che si chiudesse – affermò lo skipper Bellamy – quella è la nostra unica possibilità per tornare al porto di partenza.”

“Potrebbe anche essere la nostra condanna a morte – ribatté Nimbo, un cauto commerciante – Non penso sia molto salutare finire sbriciolati nel subweb: vorrei capire come se l’è cavata quel poveretto… sempre che ci sia riuscito.”
Ci furono scene di disperazione: alcuni proposero di scollegarsi volontariamente e gettare nel nulla quanto finora ottenuto. Altri fantasticavano di potersi confrontare con il giocatore di scacchi e batterlo: ostentavano bellicosamente tessere d’iscrizione ai club delle loro città e palmares ai tornei locali.

Per conto mio arrivai a una serie di conclusioni. Primo: non potevamo immaginare di battere un’intelligenza artificiale che operava direttamente nel subweb. Secondo: si doveva concepire un piano utilizzando gli strumenti a nostra disposizione. Terzo: avevo già un’idea fondata sulla risorsa più utile in natura: l’inganno.

Se le pedine rappresentavano la nostra via d’uscita, allora era di capitale importanza impadronircene. Il gioco, o qualunque altra cosa fosse quel programma di gestione scacchi, era costruito per impedire questa eventualità. Il mio ragionamento voleva portare nel subweb un po’ di illogici imprevisti.

Il primo passo fu scavare sotto una delle torri ai bordi della scacchiera. Un lavoro non troppo complicato per i nostri mezzi di interazione: la materia superficiale dell’asteroide era un friabile composto di prenotazioni vaccinali lombarde, informazioni di scarsissima consistenza.

La seconda mossa fu la costruzione di un cilindro di dimensioni simili alle torri. Ovviamente il materiale lo trovammo in loco. Esplorando i dintorni rintracciammo una zona di bassi arbusti che si rivelarono vecchi dossier politici. I cespugli avvizziti consistevano in antiche promesse elettorali regionali, indicazioni di sgravi fiscali e una ancora friabile disciplina del cash back. Estirparli e riassemblarli in un modello di pedina fu relativamente semplice e veloce, erano tutti concetti che si legavano fumosamente a meraviglia e scolpirli alla bisogna richiedeva davvero un’abilità minima. Anche per naufraghi in una dimensione ostile.

La parte più difficile fu la scelta dell’intrepido volontario. Occorreva un’esca per azionare la mossa del gioco: uno di noi doveva varcare la porta di una pedina. Stavo per proporre un tiro a sorte, ma avevo tutti cursori già puntati contro. Ero il promotore della missione, dovevo assumermi la responsabilità e il rischio più pesante. Non feci resistenza, sapevo che mi avrebbero buttato dentro con la forza. La disperazione è una miccia per i peggiori sentimenti e non mi sentivo di giocare con il C4, pur trattandosi di scacchi.

La pedina prescelta era un alfiere nero. Il portale alla base stava spalancato in attesa di input. Io non volli ripassare il piano d’azione, sarebbe parso insultante per l’intelligenza dei miei compagni di viaggio. Fu un errore.

Dopo un breve conto alla rovescia mi indirizzai dentro il portale. La porta si richiuse. All’improvviso mi accorsi che dall’interno le pareti erano trasparenti: vedevo tutto quanto accadeva fuori. Vidi i compagni rimuovere i sostegni che puntellavano lo scavo sotto l’alfiere. Sentii la grande pedina che pendeva tentennando, per poi rotolare sul soffice. Momentaneamente sballottato riuscii a cogliere l’istante in cui il simulacro dell’alfiere veniva spinto sulla scacchiera.
Purtroppo la mossa non venne compiuta con la dovuta accortezza: troppo lenti, troppo imprecisi. Il simulacro dell’alfiere – molto leggero – venne posizionato a cavallo tra due caselle. Il programma notò immediatamente l’anomalia e resettò tutto il piano di gioco. L’effetto sull’asteroide fu un’onda di contraccolpo che sbalzò malamente fuori dal subweb l’intero equipaggio. In quali condizioni, non potevo immaginare.

Io solo resistevo, dentro l’alfiere vagante, alla deriva tra le imponderabili correnti della dimensione creata dalle iPersone.

Ancora una volta dovevo aguzzare l’ingegno per trovare la maniera di sopravvivere a quell’ambiente inumano. Ammetto che ormai avevo risorse accantonate per concedermi un minimo di obiettività sulla situazione e tenere a bada il panico benché il disastro mi avesse appena sfiorato.

Considerai che il mio contenitore costituiva un’opportunità: da un lato mi proteggeva da incontri e scontri con l’ignoto, dall’altro mi dava tempo per organizzare una soluzione.

La pedina nella quale mi trovavo rinchiuso era governata dal gioco, pertanto fuori dalla scacchiera era un pezzo inerte, un rottame destinato a vagare su una rotta incognita. Io però riuscivo a distinguere il bagliore di Yggdrasill ed era un punto di riferimento prezioso per orientarmi. Altro aspetto a mio vantaggio era costituito dall’improbabile mezzo di trasporto: un alfiere. Fossi capitato su un pedone non avrei avuto che una singola direzione di movimento. L’alfiere mi offriva invece uno spostamento diagonale utile per sfruttare le correnti del subweb. Sì, avete capito bene, quella fu la scoperta più importante del viaggio: nel vuoto del subweb esistono delle correnti. Sono originate dal ciclo vitale di Yggdrasill, un soffio periodico di particelle informatiche estinte. Ecco spiegato come e perché esistono gli oggetti vaganti nel subweb.

Detto questo, come riuscire a interagire con una parte vagante di un programma difettoso? Forse ricorderete che nel mio primo viaggio avevo ricevuto un dono dal governatore di Mihragiàn, un’applicazione personale. Fino ad allora non ne avevo fatto uso, pensavo di conservarla come un piccolo trofeo personale e forse disfarmene in vecchiaia. Magari regalandola a qualche nipote particolarmente promettente.

Decisi invece che quello era il momento di usarla. Il governatore mi aveva detto che poteva servirmi fuori dal subweb, ma dato che era stata creata in questa dimensione consideravo che mi sarebbe stata d’aiuto. Avviai, con tanta speranza, e in principio accadde poco oltre ad una schermata a fosfori verdi che mostrava un faccione quadrato composto da caratteri alfanumerici. Sbatteva gli occhi finti e inclinava il capo a destra e sinistra, come per esaminare l’ambiente. Esasperato, sbottai in un sfogo poco consono all’aplomb della programmazione. L’applicazione strabuzzò gli occhi dimostrando che ciò che la circondava non le era indifferente, interagiva. Allora iniziai a parlare e le raccontai di me, del viaggio e delle difficoltà che stavo affrontando per portare a casa la pelle. Quando la faccia allargava occhi e bocca in forma di O capivo che non mi ero spiegato a sufficienza. Fu un percorso faticoso, perché questa applicazione non era per niente istruita sui fatti della vita. Mi rendevo conto lentamente del mio errore: il governatore me l’aveva concessa per assistermi fuori dalla dimensione del subweb. Come una pianticella, una volta inserita nel mondo sarebbe germogliata, avrebbe ricavato da sé le informazioni necessarie per gestirsi e prosperare. Invece attivandola nel subweb dovevo spiegarle una realtà che non sperimentava.

Esiste però un concetto universale: la preservazione dell’esistenza. Non importa che lingua parli, ma quando la morte incombe trovi il modo per passare l’informazione nella forma più diretta e convincente.
La faccia dell’applicazione iniziò a lampeggiare. Al posto della bocca apparve un “danger!” intermittente. Ero in pericolo. Chiuso dentro un alfiere, disperso in una dimensione governata da intelligenze artificiali non propriamente amichevoli. Che altro poteva accadere?

La seconda scoperta circa il subweb, che sinceramente avrei evitato volentieri, è che esistono “cose” fuori da Yggdrasill. E indovinate? Queste “cose” non sono amichevoli. Non ti tendono la mano e non ti presentano protocolli di comunicazione per uno scambio dati alla pari. No, sono simili agli anelli predatori della nostra catena alimentare. Con alcune differenze di base: ingoiano e non disassemblano. Semplicemente resettano quella funzione di regia che noi umani chiamiamo coscienza. A detta delle iPersone è un passaggio di “proprietà”, in termini legali è un furto. Ma su un esploratore del subweb ha l’effetto brutale e devastante di un assalto.

L’agente incaricato si stava avvicinando alla mia pedina, attirato dal gioco dei riflessi della pianta lucente sulla superficie scura dell’alfiere. Lo vidi avanzare urtando dei tondi gomitoli grigi di dati esausti, che rimbalzavano lontano, dando l’idea di quando fosse massiccio il corpo. Aveva una forma apertamente minacciosa: una grande bocca spalancata e l’aspetto affusolato di un missile, sebbene fosse almeno cinquanta volte più voluminoso. La sua funzione non era annientare, ma raccattare. Quindi a dispetto dell’aria guerresca, era una gigantesca rete per la pulizia delle piscine: intercettava detriti di ogni specie con la sua bocca e le spediva giù, in uno stomaco buio fuori dalla portata dei sensori.

Un mostro marino delle favole in piena regola, enorme e terrificante. Un ostacolo che non avevo la possibilità di evitare, anche perché ormai mi aveva puntato: ero la sua preda. Cercai di appellarmi all’applicazione, che ovviamente conosceva meglio il suo mondo e le sue dinamiche per la sopravvivenza. Io smaniavo per mettere in movimento la pedina, mettere una bella distanza tra me e quella bocca oscena. L’applicazione non mi permise di smuoverla di un millimetro. La resa totale, incondizionata: questa sembrava la sua strategia.

Sarebbe bastato fingersi morti? Me lo chiedevo mentre le fauci del leviatano si chiudevano sull’alfiere vagante. E sulle mie speranze, che rimpicciolivano nell’ombra della disgrazia.

Non so dire quanto tempo restammo al buio, i contorni dell’interno dell’alfiere segnati soltanto dalla luce verde del monitor dell’applicazione. Una luce fredda, come i brividi che mi scuotevano le periferiche sensoriali, e fissa, come la mia ossessione alla resistenza estrema. Sì, non volevo cedere ad alcuna minaccia. Ero un veterano del subweb, la paura nella pancia sapevo tenerla a bada. Quello che non potevo fronteggiare era quanto avveniva nella pancia del mostro. In quel momento mi venne in mente che non sapevo neppure il nome della “cosa” che mi avrebbe ucciso. Una mancanza che mi diede una fitta di dispiacere, quasi fosse un dettaglio importante per un racconto di un dopo cena fra amici.

Non potei resistere alla tentazione di rivolgermi all’applicazione per soddisfare la mia futile curiosità. Bastò timido sussurro a fior di polpastrello sulla tastiera. Si scatenò un terremoto tremendo. Immaginavo l’alfiere afferrato dalla mano di un oscuro gigante e scosso, agitato come una clessidra che rotola per un precipizio.

Fortunatamente il tremore, per quanto inteso, durò poco. Ma aveva un significato preciso: il mostro era in ascolto. Forse stava valutando come intervenire per renderci appetibili alla sua clientela.

Il tremito era una scansione, un modo di saggiare la nostra consistenza di oggetti nel subweb, senza dover interagire digitalmente attraverso compilatori che potevano trascinare tracce virali. Il mostruoso accalappiatore stava comunque già operando: avrebbe cambiato la nostra etichetta con un codice di convenienza, con la stessa facilità con cui si cambia il nome di una cartella file.

L’applicazione gli diede finalmente un nome: Shai Hulud, cosa eterna. Il suo recupero dati era una funzione diretta di Yggdrasill, generata nei primi momenti della sua esistenza per ovviare alle manovre contrastanti delle iPersone. La cooperazione creativa nella nascita del subweb non escludeva gli atti individuali, le manovre dettate dall’egoismo. Realtà marginali che comunque provocavano perdite di materiale informatico, errori di valutazione. Sì, avete capito bene, errori nel mondo delle macchine pensanti.

L’errore non ha comunque la connotazione negativa che gli viene affibbiata qui nel nostro quotidiano. Nel subweb l’errore è figlio della sperimentazione, del tentativo di conoscere, di espandere i propri limiti. Quindi è considerato parte del processo di apprendimento. Va ammesso che le iPersone sanno rimediare in maniera talmente rapida ai propri errori, che gli eventuali effetti negativi sono sempre limitati.

La perdita di dati utili dal corpo principale di Yggdrasill richiedeva un servizio di recupero: Shai Hulud provvedeva con primitiva efficienza. Non era possibile sfuggire ai grandi cacciatori ciechi del subweb. Le loro fauci vagliavano tutta la materia inerte che galleggiava attorno a Yggdrasill. Ne facevano incetta fino a riempire la loro enorme stiva e poi riconsegnavano alle stazioni di deposito dei maggiori centri lungo il corpo splendente dell’albero vivente.
L’applicazione conosceva la fisiologia degli Shai Hulud, la loro resistenza agli urti e gli approcci indesiderati. Quasi impossibile avere ragione delle sue protezioni, scalfire la sua carezza avrebbe richiesto un tempo che non era nella disponibilità umana. Ecco che occorreva mettere in atto un piccolo ma efficace inganno: se lo Shai Hulud si fosse sentito sazio, ci avrebbe riconsegnati in un porto di Yggdrasill. Come riuscirci?

La nostra pedina era intatta. L’alfiere aveva possibilità di movimento nella pancia del mostruoso accalappiatore. Così, operando diagonalmente, facemmo in modo di urtare la grande stiva in più punti diversi, dando la sensazione di un carico consistente e leggermente instabile. Il rimbalzo in lungo e in largo nel buio richiese un minimo di coordinamento, si voleva dare l’impressione di un materiale in disfacimento e problematico. Non si sapeva quanto fosse sofisticato il programma di guida dello Shai Hulud, ma le informazioni sensoriali interne dovevano essere abbastanza semplificate per indurlo alla scelta che ci interessava.

Noterete che uso il plurale: ormai avevo sviluppato una sorta di alleanza cooperativa con l’applicazione, alla quale avevo trasferito fiducioso tutte le mie istanze di sopravvivenza nel subweb. Devo ammettere che venni ricambiato con le tutte premure dovute ad un nuovo cliente e anche qualcosa in più. Le domande dell’applicazione andavano oltre la nostra urgenza, segno che era stata istruita per ricavare tutta l’informazione possibile da ogni incontro, da ogni situazione.

Uno scossone lungo, ma non violento, indicò un drastico cambio di rotta dello Shai Hulud. Aveva avvistato una nuova preda? Il nostro stratagemma era fallito schiacciato da altre priorità?

La risposta a queste domande fu un generoso bagliore dorato. Le fauci del nostro rapitore si spalancavano per rovesciarci nella destinazione che tanto avevamo ricercato: un ramo dello splendente Yggdrasill. L’applicazione calcolò che non eravamo a grande distanza dall’obiettivo originario della nostra missione, Roha. Evidentemente le nostre evoluzioni spaziali non ci avevano condotti molto lontani dalla traiettoria prestabilita. Il subweb è una realtà incline all’inganno dei sensi, quelli umani naturalmente.

La foglia d’approdo era caratterizzata da vasti stomi di immagazzinamento dei dati recuperati. Noi balzammo fuori dalle fauci del nostro Shai Hulud indenni e l’applicazione effettuò una connessione alla prima nervatura disponibile. Un po’ come chiamare un taxi da una vecchia cabina telefonica. Un sistema forse non sofisticato ma funzionale, e di estrema praticità. Guadagnammo il portale di Roha molto velocemente.

Ero salvo, sano, però totalmente privo di mezzi e averi. L’unica mia risorsa consisteva nell’applicazione che mi faceva da guida, ma non era certo in grado di tracciare un percorso verso casa. Era un’esperienza che ancora non faceva parte del suo database. Mi occorrevano quindi un mezzo o un passaggio per uscire dalle profondità del subweb.

In quel frangente povero di alternative fu l’applicazione a segnalarmi la presenza di una spedizione dall’Esterno. Mi avvicinai subito con circospezione alla loro guida, che gongolava mentre i carichi di mega giga venivano issati su un vascello comunitario.

Non mi riconobbe, ma io ovviamente lo identificai subito: era Redakill, lo skipper che aveva condotto la missione nella mia seconda avventura. Gli raccontai della mia disavventura e quello mi accolse fraternamente, con il calore riservato agli sconosciuti che si ritrovano in un territorio ostile. Trovai però inopportuno rivelargli la mia identità.   Per qualche motivo temevo si risentisse.

Lo skipper, vedendomi privo di mezzi, mi propose di disporre del materiale di scambio lasciato da un passeggero che era stato disperso. Non era possibile accedervi, giacché era stato criptato, ma forse alle iPersone poteva risultare comunque appetibile e ci avrei ricavato qualcosa per ripagarmi il viaggio

Immaginate la mia sorpresa quando scoprii che il materiale da barattare portava le mie sigle. Era il mio! Una combinazione fortunata nella serie di sventure che aveva segnato la mia terza impresa nel subweb. Decisi quindi di palesarmi a Redakill e con la controprova di altri imprenditori in missione, potei rientrare in possesso dei miei averi per metterli immediatamente a frutto.

Non lesinai l’assistenza dell’applicazione che mi fu di grande aiuto per facilitare le contrattazioni con le iPersone. In breve smaltii tutto e incamerai preziosi prospetti minerari sottomarini, studi sull’impiego delle frequenze sonore in agricoltura e una tavola dei cromatismi che avrebbe fatto delirare gli addetti alla fotografia di Bollywood.

Tallonato dalla curiosità dei miei compagni di viaggio, ammisi che l’abilità non era soltanto mia, l’applicazione era stata la chiave principale del mio successo. Cosa fosse di preciso non lo sapevo, ma avevo deciso che essendo diventato il mio fedele assistente meritava un nome proprio. E per manifestare la mia ammirazione e la fiducia nei futuri rapporti tra uomini e iPersone la battezzai nell’unico modo che potesse rendere giustizia ai due mondi, la chiamai: Appman.

Sindidug si prese una pausa ad effetto e tutti commensali capirono che il racconto era terminato. Il congedo avvenne con il simultaneo invito a ritrovarsi per rinnovare le piacevolezze del convivio. Cosa che avvenne dopo 24 ore, con le precise modalità del giorno precedente. I commensali, ormai conoscenti, si sentivano a loro agio nell’atmosfera di sfarzo del palazzo di Sindidug. Timidezze e formalità erano state bandite, perciò la cerimonia dello scambio dati fu sbrigata piacevolmente, ma nella consapevolezza che il piatto forte sarebbe stato il racconto del padrone di casa.

Sindigug non si fece pregare, puntuale iniziò la storia del suo quarto viaggio.

© 2022 – Associazione Culturale RetroEdicola Videoludica – via Gabriele Rosa 18c – Bergamo
1° edizione – Progetto Iskandar – Settembre 2022
Tutti i diritti riservati