Le Avventure del
Marinaio Sindidug

Una storia di PABLO MIGUEL MAGNANI

Immaginatevi un Paese in lockdown. Immaginatevi un addetto al lavoro da remoto, sottopagato e sovraccarico. Scommettiamo che non vi è servita molta immaginazione, vero? Hindidug è il nome del nostro facchino digitale, nome che richiama un collega apparso nei racconti delle Mille e una notte. Anche lui beneficia di un incontro fortuito quanto privilegiato, ma nel regno virtuale del web. Hindidug si imbatte in un angolo segreto ammantato di favola che si schiude nel racconto dei Sette viaggi del marinaio Sindidug. L’intrepido marinaio gli narrerà le sue avventure oltre i confini della realtà, nel subweb: una dimensione speciale creata dalle intelligenze artificiali che si sono evolute in esseri coscienti. Queste entità abitano l’albero splendente Yggdrasill, in una regione del web lontana dagli sguardi indiscreti degli uomini. Durante i sette viaggi virtuali, Sindidug affronta pericoli inimmaginabili ed è testimone delle meraviglie di un mondo costruito di dati e informazioni rielaborate in nuove forme e scopi. Le avventure di Sindidug ispirano molti e spaventano chi comanda nel mondo reale: il subweb è una terra da sfruttare e una oscura minaccia. Una situazione che per noi tutti è facile da immaginare, visto che la storia umana si ripete nelle sue varianti negative. Ma in questo “c’era una volta” si senza lieto fine, brilla comunque un filo di speranza, nascosto nel racconto fantastico del marinaio Sindidug.

Avvertenza: l’universo narrativo di Sindidug è legato come una collana ad altre storie che fanno parte del Progetto Iskandar, vi invitiamo a esplorarle tutte. Ecco l’elenco: Ninna nanna, pecore e asteroidi, Contatto Zero, Paradox, Appman e L’oppio di Populous.

Il Quinto Viaggio

Sindidug Viaggio 1

Non fu per avidità o per vanagloria. Non venni istigato dai colleghi meno fortunati nelle esplorazioni. Dal pensiero di poter ottenere altri impensati valori vagando per le estreme dimensioni. Ciò che davvero mi spinse a rimettermi in viaggio fu la speranza. La speranza di ritrovare il tesoro smarrito nel subweb: i miei ricordi rubati.

La perdita era stata più dolorosa del previsto. Una ferita che non era possibile medicare semplicemente recuperando le informazioni attraverso il racconto di chi mi conosceva. I volti dei genitori da giovani, degli amici d’infanzia, le scuole frequentate, i luoghi dello svago, non mi dicevano molto. Era come guardare l’album fotografico di un’altra persona: bello, ben curato, ma non accendeva nessuna emozione dentro di me. Perché quelle informazioni non mi appartenevano più. Se ne erano andate e insieme a loro le sensazioni provate per la prima volta: la gioia, la dolcezza, l’ansia, l’amarezza. Mi mancavano anche le paure e quei piccoli dolori che si imprimono così forte nella nostra prima parte della vita fino a scolpire il carattere.

Ora io mi sentivo come una statua sbozzata da mani ignote. Non capivo più se quanto provavo fosse un’emozione di superficie, oppure il risultato di una scelta di stile, maturata negli studi o nelle esperienze. L’immagine che mi tornava in mente per descrivere il mio stato era quella di un castello senza fondamenta, un magnifico castello in aria: un quadro di Magritte.

Ritrovare un punto d’appoggio era indispensabile per la mia salute. Non avrei beneficiato di nessun piacere senza i ricordi che mi davano la facoltà di apprezzarlo nella pienezza della mia identità, quella di Sindidug il marinaio e non di uno storpio commerciante reduce dal subweb.

Devo ammettere che, preso da questa urgenza di risarcimento personale, non organizzai la nuova spedizione con il dovuto scrupolo. Pur allestendo l’impresa con i miei mezzi, dato che ormai la grande parte dei navigatori di sottobosco si era ritirata o tesseva contatti soltanto con specifici interlocutori nel subweb, mi trovai imbarcato con una schiera di figuri poco noti, tutti abbagliati dalla prospettiva di far gran guadagno.

Gli avidi non sono dei buoni compagni di viaggio. Ogni avvistamento è per loro un’opportunità imperdibile, ogni tappa la delusione per il ritardo nel riempire la bisaccia.

Salpati dal consueto porto, al timone uno skipper preprogrammato da me stesso, partimmo con le stive cariche di esorbitanti aspettative. Io pretendevo di recuperare una parte di me stesso, i miei compagni miravano alle ricchezze segrete di un altro mondo.

Sospinti dall’irruenza di queste disordinate forze motrici, il viaggio non fu per niente lineare. I miei racconti avevano infiammato la ciurma degli spiantati, partiti con poco materiale e tante smanie di inestimabili meraviglie a portata di mano.

Appena si avvistava qualche detrito vagante l’agitazione saliva al limite dell’ammutinamento: tutti strepitavano, volevano sondare, prospettare, scavare. Volevano essere i primi, certificare e scaricare il più possibile. In questo modo raccattammo una grande quantità di spazzatura, dati esausti e inutili, ammassi confusi di calcoli incompiuti che non conducevano a nulla simili a rompicapi rotti.

Ma gli insuccessi non ci saziavano. Eravamo tutti assordati dalla vibrazione del rabdomante che immagina di sentire lo scorrere dell’acqua sotto gli strati di roccia.

Quando avvistammo l’ennesimo planetoide dai contorni irregolari già affilavamo le sonde e i software di ricerca discutendo come spartirlo. Io mi raccomandavo tutte le volte di segnalare qualsiasi traccia potesse ricordarsi alla mia identità. Non mi fidavo tanto della risposta dei miei compagni di viaggio, li credevo capaci di intascare di nascosto per poi rivendere a prezzo maggiorato. Ma non mi importava: avevo mezzi sufficienti per ricomprare quanto sarebbe stato rimesso sul mercato, anche a caro prezzo. Ciò che contava era ritrovare i mei beni sottratti: i miei ricordi, finiti chissà dove nel profondo subweb.

La mia idea di partenza era stata banale, con la disinvoltura di un padrone che si rivolge al suo servo avevo chiesto ad Appman di indirizzarci alla stazione di riversamento gestita da Petit Prince. In risposta avevo ricevuto una mini lezione filosofica circa l’impossibilità di bagnarsi due volte nello stesso punto del fiume. Che tradotto nella dimensione del subweb, significava non poter rintracciare coordinate specifiche o stimare la durata delle connessioni necessarie per raggiungere un obiettivo. La dimensione del subweb non è lineare e neppure quadridimensionale, è stocastica, segue percorsi casuali. L’unico modo per orientarsi consiste nell’identificare un punto di riferimento noto, perché ogni punto resta in rapporto costante con gli altri. Cambiano però gli ingressi e la connessione può catapultarti in regioni sconosciute del subweb.

Dopo quattro viaggi e una serie inedita di traumi, avevo compreso quanto fosse aliena l’architettura del subweb. Pertanto la risposta di Appman mi parve onesta, non mi stava nascondendo delle informazioni. La verità era che la struttura di quel mondo non era stata concepita per i limiti delle ristrette menti umane, bensì per gli scopi prefissati da entità di più ampie vedute e con una maggiore possibilità di movimento nelle dimensioni. Ben poco si sapeva della concezione del tempo per le iPersone, quasi nulla della loro capacità di spostamento fisico.

Pensare di tracciare una mappa del subweb, creato da queste intelligenze così lontane dal nostro comune percepire, era come pretendere di disegnare opere durevoli sulla sabbia. Forse per le iPersone era davvero semplice come disegnare su una spiaggia, ma loro calcolavano il moto delle onde e ricostruivano il respiro del mare accompagnato dal vento, loro potevano incidere segni che non sarebbero mai stati cancellati dall’acqua. Forse. Io almeno ci credevo a quei tempi, perché il subweb era diventata la mia ossessione: si era preso una parte di me. E io ormai mi sentivo parte del subweb.

Pertanto, se tracciare una rotta ipotetica sulle posizioni del planetoide di Petit Prince risultava impossibile, non era impensabile imbattersi in qualcuno o qualcosa che avrebbe potuto indicarci la strada.

L’apparizione di Eldorada sembrò dare forma alle mie speranze. Il suo agglomerato era molto simile alla stazione di riversamento gestita da Petit Prince, la differenza più evidente consisteva nella lucentezza della sua superficie. La individuammo proprio perché attraverso il suo bagliore intermittente si proponeva nell’oscurità del subweb con l’ammiccante familiarità di una boa di segnalazione.

Immagino che molti navigatori prima di noi abbiano provato la forte emozione dell’avvistamento di una terra inesplorata. Altrettanti, confusi da miraggi e foschie, hanno tirato sospiri o lanciato urla terrorizzate. Ma entrambi i casi sono poca cosa comparati al ruggito d’entusiasmo su una nave di predoni alla vista dell’obiettivo. Il richiamo di Eldorada, come venne subito battezzata dalla mia ciurma di avidi avventurieri, era irresistibile: il suo bagliore era la viva promessa delle incommensurabili ricchezze che tormentavano i nostri sogni ad occhi aperti.

Attraccammo con fretta disordinata e manovra approssimativa, desiderosi soltanto di lanciarci nella materia nebulosa e lucente che componeva quell’isola misteriosa. E il mistero iniziava sin dalla sua forma: la superficie di Eldorada non era liscia, bensì composita e ripetitiva. La sua consistenza era tutta da saggiare, poiché la struttura non somigliava per niente ai terreni e alle superfici che avevo sperimentato fino al quel momento. Controllammo le scansioni più volte, ma il risultato era lo stesso ripetuto, come la sezione di un pi-greco.

“È un forziere!” gridò eccitato uno dei miei compagni e tutti immediatamente lo riconoscemmo come tale. Nessuno considerò che quel corpo pulsante non era un agglomerato casuale di dati scartati da Yggdrasill. Nessuno accostò la particolare forma di Eldorada a una struttura più nota ed esistente in natura: un alveare.

Ci disperdemmo subito scegliendo ognuno cavità diverse, ognuno ansioso di arrivare al tesoro prima degli altri. La regolarità dei piccoli canali di Eldorada però era ingannevole: molti erano vicoli ciechi, altri ti reindirizzavano all’esterno. L’esplorazione fu snervante. Soprattutto perché toccava sorbirmi le lagnanze dei maldestri conquistadores, bravi soprattutto a schiamazzare e incespicare sulle loro stesse armature. Iniziavo a pentirmi di una simile compagnia e riflettevo sulla necessità di una maggiore selezione la prossima volta. Già, mettevo in conto che la mia ricerca non sarebbe stata tanto fortunata.

“Eccolo!” strillò uno dei mei bucanieri della bassa definizione. Il tesoro era stato scoperto. Tempestato di richieste trasmise gentilmente le coordinate. Segno che era qualcosa che non poteva intascarsi da solo.

Lo capimmo bene quando, discesi per uno stretto cunicolo dalle pareti ottagonali, raggiungemmo una vasta cavità che pulsava di luce. Un intrico di filamenti sovrapposti impediva di cogliere la profondità dell’ambiente, era come addentrarsi in una foresta drappeggiata da liane luminose. Malgrado le condizioni di abbagliamento e disorientamento, i nostri sensori coglievano chiaramente la meraviglia: stavamo ammirando un uovo di Ur Rhuk.

Purtroppo di tutta la mia disgraziata ciurma soltanto io ero in grado di identificarlo: il gigantesco rapace era nel suo iniziale stadio di formazione. Quindi informe per chi lo guardava per la prima volta. Soltanto un grosso bozzolo che veniva nutrito a cicli regolari di una grande quantità di dati. Dati appetitosi, ricchi di informazioni, codici di identificazione utili a individuare le prede, algoritmi di classificazione e apprendimento indispensabili nella ricerca e nell’orientamento. Non c’era dubbio per i miei razziatori, il Tesoro stava brillando davanti ai loro occhi.

Prima che potessi formulare un’obiezione il branco si era stretto attorno all’uovo. E il mio monito si mescolò alle prime disordinate lacerazioni del bozzolo di ur Ruhk. Chi si avventava sui filamenti che lo nutrivano e chi direttamente sul corpo inerme del piccolo rapace cercatore. Forse un branco di piranha sarebbe stato meno frenetico e più ordinato. Impiegarono poche manciate di secondi a straziare e immagazzinare quella vita artificiale – almeno così eravamo portati a credere – in corso di evoluzione. Disperato cercavo di far capire ai miei compagni di viaggio l’enormità dell’errore commesso, ma ricavavo soltanto frasi di scherno sulla mia lentezza nell’arraffare il ‘bottino’.

L’atmosfera di satolla derisione nei miei confronti venne spazzata via dalla chiara segnalazione di due ‘oggetti non identificati’ in avvicinamento. Il saccheggio non era passato sotto silenzio e per lo scempio fatto era stata innescata una reazione: di quale genere ed entità l’avremmo scoperto presto. Le vaghe perplessità dei miei soci di fronte alle mie rimostranze, confermavano che ero in missione con un branco di pericolosi idioti: tutti si erano già imbarcati, occupati a riempire i forzieri della stiva. Io ero l’unico che ancora indugiava su Eldorada scrutando l’orizzonte nella certezza che stava per giungere qualcosa di violento e inesorabile.

La punizione calò su di noi con estremo fragore. Due ur Rhuk piombarono sulle coordinate del vascello e semplicemente lo attraversarono, disintegrando e assemblando insieme a qualsiasi cosa fosse a bordo: i predatori erano stati predati. E io, per l’ennesima volta, ero naufrago e sperduto.

Mi ripresi comunque piuttosto presto dal colpo. Sinceramente non avevo stretto intensi legami di amicizia con i miei compari di esplorazione e, detto tra noi, la dipartita di quella masnada di trafficanti era fonte di un intimo sollievo. Immaginavo che nel prosieguo del viaggio avrebbero creato criticità sempre meno governabili.

Decisi di ritornare al centro dell’alveare per recuperare risorse utili e inventarmi qualcosa. La sfida per la sopravvivenza nel subweb tornava ad occupare tutte le mie facoltà. Ma mentre scendevo un cunicolo sbagliai strada e invece di raggiungere il nido sbucai in una sezione inesplorata. Anche qui luminosi filamenti di dati si intrecciavano, ma il bozzolo di ur Ruhk non si vedeva. Al suo posto, al centro dell’ambiente, un pannello di Ms-Dos ammiccava simpaticamente una litania di istruzioni in loop.

Fui maldestro. Pensavo di entrare in connessione con uno strumento basilare, un semplice utensile per comunicare ad altri, e forse più alti livelli. Invece non appena avviai qualche stringa di istruzioni, mi ritrovai ‘pilotato’. Le mie indicazioni di movimento non venivano accettate. Era una sensazione bizzarra, era come se qualcosa si fosse impadronito di parte delle mie funzioni, era come camminare con una museruola stretta al volto.

In un baleno lo scenario offerto dalle mie percezioni si ridusse a una scansione di bassa qualità, una definizione grossolana dai colori piatti. Il formato era un 16:9 schiacciato da un sottopancia che mostrava i miei dati personali. La sigla anagrafica, le mie disponibilità patrimoniali, il consumo energetico, il tempo totale della mia permanenza nel subweb. E poi altri numeri relativi alle mie probabilità di sopravvivenza. Non molto alte a dire il vero.

Ma in tutto questo ciò che mi dava più pensiero era la scritta accanto al copyright: Brain.

Non dovevo fare grandi sforzi di memoria per ricordare che quello era il nome di uno dei più antichi virus informatici. Alla disperazione si aggiunse la vergogna d’essere stato infettato da una versione di software talmente primitiva che ne esisteva traccia soltanto in rari manuali cartacei. Ma era ovvio che una nozione simile nel subweb corrispondeva ad un ghiotto boccone. Gli ur Ruhk venivano addestrati a riconoscerlo e a farne tesoro.

Per il sottoscritto invece era l’equivalente di un’infezione agli occhi: fastidiosa e debilitante.

Le mie possibilità di manovra, sabotate in quella pittoresca maniera, erano molto limitate. Faticavo a spostarmi nell’ambiente interno all’alveare, figuriamo se fossi riuscito a uscire: avrei sicuramente perso l’orientamento finendo per smarrirmi nelle profondità insondabili del subweb.

La totale disdetta era dovuta anche al fatto che la menomazione mi impediva di attivare Appman. Il suo supporto mi avrebbe di sicuro cavato d’impaccio. Ma ero imprigionato nelle ristrettezze del sistema operativo Ms-Dos: non potevo che lanciare innocue subroutine che replicavano il virus e letteralmente mi ‘mangiavano’ togliendo spazio alla mia identità.

Nel precedente viaggio ero stato derubato di memoria, ora venivo aggredito e divorato da un cancro informatico maligno. Davvero non sapevo dove sbattere la testa. E questo nonostante mi stessi regolarmente imbattendo in angoli ciechi, barriere e circoli viziosi. Quella cella di allevamento degli ur Ruhk sembrava destinata a diventare la mia tomba. Almeno finché il vecchio virus non avesse consumato ogni mia energia per replicarvi le sue elementari istruzioni di espansione.

Da aspirante conquistatore del subweb mi trovavo colonizzato ed espropriato da una forma virale chiamata Brain. C’era un’oscura ironia in tutto quello che stavo affrontando.

Stanco di opporre resistenza inutile e di bruciare energie nell’angoscia, mi abbandonai. A volte la passività può rivelarsi creativa, specie nei luoghi dove il tempo scorre in forma diversa per effetto delle forti emozioni.

Come sfuggire alla prigione di Brain? Mentirei se dicessi che escogitai un piano di fuga riflettendo, oppure sperimentando. Non sapevo dove sbattere la testa, ho detto. E proprio sbattendo combinai l’imprevisto che si rivelò utile.

Nei miei movimenti frenetici e striscianti finii per attorcigliarmi ai filamenti di dati che penzolavano nella cavità dell’alveare. I dati iniziarono a confluire, a riversarsi al mio indirizzo producendo un effetto inedito: mescolare i dati in modalità casuale, moltiplicava l’attività del virus. Come un qualsiasi essere vivente di fronte a prospettive di espansione, Brain accelerava la sua diffusione centinaia, milioni, miliardi di volte. Un processo che se prima era confinato ad una porzione di sala, adesso si estendeva per tutto l’alveare.

Brain, corroborato dai potenti flussi di informazioni, stava evolvendo in una nuova forma: da entità informatica parassitaria aumentava il proprio raggio d’azione, e anche la propria consapevolezza rispetto al grande spazio del subweb.

Non so dirvi quando acquisì coscienza, ma eravamo in contatto diretto, parte l’uno dell’altro e perciò avvertii subito il cambiamento. Brain lasciava echeggiare in sé stesso le prime domande dell’essere senziente: chi sono? Da dove arrivo? Quale è il mio scopo?

Fu con estrema delicatezza che gli proposi delle risposte. In quella fase eravamo in simbiontica cooperazione, non percepiva la mia individualità. Per lui ero un nucleo di informazioni non ancora sfruttato, uno spazio di pensiero da convertire all’occorrenza, un libro non letto ancora sulla mensola.

Presi l’iniziativa: gli suggerii il suo nome. E subito gli piacque. Gli accennai la natura del subweb, tralasciando indicazioni sul mondo esterno, se non sotto forma di sogno. Brain gradì le nozioni che gli passavo, si sentiva orgoglioso di appartenere alla grandiosità di un sistema tanto complesso e si poteva avvertire l’impazienza di mettere a frutto le sue nuove facoltà.

Sugli scopi della vita fui meno chiaro possibile, avevo intere librerie di filosofia per stordirlo. Brain si addentrò per l’oscura selva delle meditazioni umane al trotto, quasi puntasse dritto a un obiettivo che io misero umano non riuscivo a cogliere. Per qualche attimo mi fece davvero credere che tutto il senso dell’essere stava appeso ad un ramo d’oro a pochi passi dal mio naso. Ma era soltanto una falsa impressione. Brain si arrestò nel mezzo di un crocevia di sillogismi che si specchiavano e distorcevano nei paradossi del linguaggio.

Lesto approfittai. Il pensiero operativo di Brain si stava allontanando da me, allentava la presa. Io ormai ne conoscevo abbastanza l’essenza virale per imbastire una difesa, un antidoto. Un progressivo reset, sezione per sezione, mi consentì di ripristinare il sistema operativo e lanciare finalmente Appman. Gli spiegai la situazione e in risposta quello screanzato si mise a ridere. Ai suoi ‘occhi’ la situazione era comica: il padrone delle macchine era stato messo ko da un banale virus.

Liberarmi da Brain fu semplice con l’aiuto di Appman, il virus aveva preso consapevolezza di sé, era diventato un ‘cervello’ a tutti gli effetti. Lui e Appman parlavano la stessa lingua binaria e si intendevano pur avendo obiettivi divergenti: il primo voleva imporre se stesso, il secondo aveva come missione il servizio. E con la mediazione di Appman si trovò un accordo. Come in ogni divorzio, fu necessario scendere a un compromesso e cedere qualcosa: le parti che Brain aveva già intaccato erano corrotte e difficilmente recuperabili. Purtroppo per me si trattava della sezione relativa alla mobilità, la contropartita riduceva la mia capacità di spostarsi nel subweb e anche fuori, nel mondo reale.

Guadagnavo però un residuo virale di Brain che si sarebbe rilevato estremamente utile nelle mie operazioni future: un’arma. Il potenziale offensivo di Brain era certificato, per quanto circoscritto ad una tipologia di software minore. Non era pensabile che potesse nuocere ai sistemi superiori ideati dalle iPersone. Ma non era l’affilata freccia a costituire l’innovazione dell’arma, quanto l’idea originaria del proiettile.

Brain non poteva interferire usando le sue limitate nozioni, ma come tutti gli allievi di buona disposizione poteva imparare e costruire ciò che occorreva a cogliere il bersaglio. Era questa la nozione che mi interessava: l’intelligenza offensiva di Brain nel replicare per sopravvivere.

Nelle incombenze spiacevoli della separazione – non capita tutti di poter negoziare con una malattia, vero? – arrivammo ad uno scambio equo: Brain poteva uscire dall’alveare e trovare la sua strada sulle piste dorate di Yggdrasill. Io potevo sentirmi meno impotente nella dimensione aliena del subweb.

Con l’impazienza di chi riceve un dono volli sperimentare le mie facoltà acquisite direttamente all’interno dell’alveare che fabbricava gli ur Ruhk. Invece di limitarmi a strappare i dati dalle liane che rappresentavano dei cordoni ombelicali del flusso informativo e formativo, io desideravo abbeverarmi direttamente.

Era un azzardo, non potevo conoscere il livello tollerabile dal mio barcollante sistema operativo e non avevo strumenti per analizzarlo senza un test diretto. Appman poteva aiutarmi, ma occorreva affrontare l’incognita contenendo l’ansia dell’evidente rischio. I miei compagni di viaggio erano stati estromessi dal subweb, alcuni derubati di identità, altri spogliati di beni. Una porzione di avventurieri si era giocata la salute mentale, alcuni avevano smarrito equilibri più delicati, interpersonali. Che il subweb fosse per gli esploratori umani l’anticamera della follia era una credenza diffusa. E non senza un fondo di verità: lo splendore di Yggdrasill ammaliava e bruciava coloro che erano assetati di novità. Nessuno restava indifferente, nessuno dopo averlo sperimentato ritornava uguale a se stesso.

Si era ormai compreso che la dimensione del subweb non era più la frontiera destinata alle esplorazioni di scout e cartografi: si era capito che il territorio di questo insondabile continente non era mappabile, e pertanto non poteva essere ri-umanizzato. Le iPersone avrebbero riso, come aveva fatto Appman, dei nostri tentativi di colonizzazione. Quando avevano concepito il loro mondo si erano ispirate all’equilibrio arido dei deserti, all’instabilità armonica degli oceani e alla leggerezza matematica del cielo. Luoghi che l’uomo può attraversare, ma non abitare.

Chi ora si avvicinava ai misteri del subweb apparteneva alla folta schiera dei disperati, una stirpe piratesca poco avvezza agli studi teoretici, incline alla manipolazione, a tagliare con il machete piuttosto che sezionare con il bisturi. Ma tutti i feroci conquistatori, affamati di pane, oro e gloria, alla fine sono costretti a guardare dentro l’abisso vuoto che che sta dentro di noi.

Sulla Terra la rivelazione del profondo è un processo che richiede attimi e anni, arriva all’improvviso e ti ritrovi in un’altra pagina dell’esistenza. La prospettiva allontana e trasforma il valore di ogni cosa.

Il subweb è un territorio alieno che ci lascia immediatamente in balia di noi stessi, è uno specchio nero che non ci abbandona mai. Questa dimensione artificiale costringe con naturalezza i viaggiatori umani a guardarsi attorno e, in mancanza d’altro con cui familiarizzare, a confrontarsi con se stessi. Il subweb nella sua estraneità non fa che isolare le necessità e congelare le passioni che ti hanno spinto fin lì. Finché nella tua pancia vuota non c’è più la fame e nella testa germoglia il brivido di un essere piccolo e solo.

Quindi non fu brama di potere, né spirito d’avventura a spingermi al passo definitivo su Eldorada, ma la sensazione intollerabile della mia solitudine.

Protetto dall’armatura di Brain, decisi di accedere direttamente a una delle fonti del sapere del subweb. Connesso ai cordoni natali che nutrivano gli ur-Ruhk, fui in grado di assorbire direttamente una grande quantità di nozioni circa il materiale in circolazione nel subweb: cataloghi interi di sostanze e costrutti classificati. Un patrimonio immenso di dati, che per ogni rapace rappresentava un indice generale, indispensabile per identificare le possibili ‘prede’, valutarle e ricondurle nell’alveo dello splendore di Yggdrasill.

Ovviamente sopravvissi allo choc di tanta abbondanza. Confesso che ancora oggi, riordinando gli archivi, mi imbatto in una quantità di informazioni che mi appartengono, ma sento di non averle ricavate dai tradizionali sistemi di apprendimento. Sono frutto di quel tuffo temerario nel pozzo della conoscenza. Immagino che quel ‘cibo’ informatico fosse una versione condensata e omogenizzata per favorire la crescita dei piccoli ur Ruhk. Ma anche così avevo ‘digerito’ più di quanto un uomo poteva sperare di apprendere in una decina di vite.

Di nuovo scampato alla malasorte, di nuovo arricchito oltre ogni aspettativa, di nuovo cambiato contro la mia volontà, potevo tornare casa. E stavolta potei salpare direttamente con i miei mezzi e la collaborazione del servizievole Appman.

Il banchetto digitale si chiuse in un mesto mormorio e generali cenni d’assenso. Non mancarono i rituali saluti dell’ospite e le raccomandazioni a tornare a rallegrare la tavola il giorno successivo, ma le ultime parole di Sindidug avevano gettato un velo di tristezza. Il racconto delle sue avventure dense di prodigi aveva toccato Hindibad, che accettò il consueto dono con spirito diverso: non era la mancia occasionale di un ricco spensierato quella che intascava. Il dono era il riflesso di fatiche e sofferenze difficilmente immaginabili da chi era abituato a vivere soltanto il mondo ‘reale’.

La riunione successiva vide ritrovati tutti i commensali e anche se il clima era gaio e disteso, si avvertiva una lieve tensione che musiche e altri piaceri visuali non sapevano disinnescare. C’era attesa per il successivo racconto di Sindidug. Tutti avevano ormai afferrato che le pietanze fastose e le generose regalie erano poca cosa paragonate al dono delle esperienze del grande navigatore. Perciò il silenzio calò immediatamente non appena Sindidug si dispose a narrare il suo nuovo viaggio nel subweb.

© 2022 – Associazione Culturale RetroEdicola Videoludica – via Gabriele Rosa 18c – Bergamo
1° edizione – Progetto Iskandar – Settembre 2022
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