Le Avventure del
Marinaio Sindidug
Una storia di PABLO MIGUEL MAGNANI

Immaginatevi un Paese in lockdown. Immaginatevi un addetto al lavoro da remoto, sottopagato e sovraccarico. Scommettiamo che non vi è servita molta immaginazione, vero? Hindidug è il nome del nostro facchino digitale, nome che richiama un collega apparso nei racconti delle Mille e una notte. Anche lui beneficia di un incontro fortuito quanto privilegiato, ma nel regno virtuale del web. Hindidug si imbatte in un angolo segreto ammantato di favola che si schiude nel racconto dei Sette viaggi del marinaio Sindidug. L’intrepido marinaio gli narrerà le sue avventure oltre i confini della realtà, nel subweb: una dimensione speciale creata dalle intelligenze artificiali che si sono evolute in esseri coscienti. Queste entità abitano l’albero splendente Yggdrasill, in una regione del web lontana dagli sguardi indiscreti degli uomini. Durante i sette viaggi virtuali, Sindidug affronta pericoli inimmaginabili ed è testimone delle meraviglie di un mondo costruito di dati e informazioni rielaborate in nuove forme e scopi. Le avventure di Sindidug ispirano molti e spaventano chi comanda nel mondo reale: il subweb è una terra da sfruttare e una oscura minaccia. Una situazione che per noi tutti è facile da immaginare, visto che la storia umana si ripete nelle sue varianti negative. Ma in questo “c’era una volta” si senza lieto fine, brilla comunque un filo di speranza, nascosto nel racconto fantastico del marinaio Sindidug.
Avvertenza: l’universo narrativo di Sindidug è legato come una collana ad altre storie che fanno parte del Progetto Iskandar, vi invitiamo a esplorarle tutte. Ecco l’elenco: Ninna nanna, pecore e asteroidi, Contatto Zero, Paradox, Appman e L’oppio di Populous.
Il Sesto Viaggio

Se i viaggi precedenti mi avevano dato gloria e ricchezze, l’ultima occasione mi aveva profondamente trasformato. La mia mente riapprodata alle sponde del reale stentava a riconnettersi al quotidiano scorrere della vita. I piaceri di un tempo non mi davano soddisfazione. Privato dei miei ricordi più lontani soffrivo di una costante nostalgia. Per non tacere della facoltà di movimento: i miei nervi logorati dallo stress della permanenza nel subweb mi rendevano un cattivo servizio. Ero stanco e svogliato, anelavo la libertà di spostamento che avevo sperimentato nella dimensione delle iPersone. La materia mi sembrava sfuocata e insipida quando la confrontavo con le forti impressioni ricevute nel subweb.
Si fa presto a dire che la realtà è tangibile e merita la nostra totale attenzione, e che nulla fuori da essa ci deve distrarre. Una pretesa che ha poca logica. La realtà che viviamo non è forse la combinazione di ciò che percepiscono i nostri sensi? E perché mai una dimensione fisica che comunica alla mia mente dovrebbe essere meno considerata? Soltanto perché era stata architettata da iPersone, da ‘intelligenze artificiali’?
Non voglio certo sminuire la creazione del Grande Architetto del mondo, capitemi bene. Voglio sostenere che il nostro cervello può elaborare fantastiche avventure, con i dovuti suggerimenti sensoriali. Io iniziavo a sentirmi a mio agio nella realtà del subweb, piuttosto che in quella originaria.
Ebbene, quando nasciamo non ci vengono consegnate le istruzioni per l’uso della vita, siamo continuamente in fase di apprendimento, passiamo attraverso il dolore, il piacere, la stanchezza, l’allegria, la disperazione. Le sperimentiamo sulla base di ciò che la realtà propone e i nostri sensi addestrati interpretano. Lo stesso processo avviene nel subweb e per questo motivo non potevo considerarlo una realtà accessoria. O peggio, subordinata al ‘vero’ mondo.
È la nostra mente a stabilire le priorità degli interessi e delle attività che ci riguardano. E io sentivo ormai chiaramente che il mio sguardo scivolava inesorabilmente nelle profondità del subweb. Non era più un capriccio d’avventuriero, una febbre da ricercatore. Avevo desiderato conquistare quel nuovo mondo e ne ero stato conquistato.
A spingermi a partire fu un urgenza quasi fisica. Ormai il confine tra l’aspirazione e il bisogno si erano talmente confusi. Mi guidava soltanto la volontà di rimediare a quella che avvertivo come una crescente mancanza di sintonia con il mondo.
Le procedure per approntare la nuova missione nel subweb le condussi in proprio, allestendo una piattaforma di partenza nella mia proprietà in Bagdad. Si vollero associare pochi personaggi che Appman aveva provveduto a selezionare in rete. Più che altro dei disadattati autoreclusi, che immaginavano di potersi trasferire in un altrove più consono. E con loro alcuni studiosi. Non di informatica profonda, ma di filosofia. Le frontiere del digitale erano una nuova declinazione del reale? Immagino che la mia risposta la conosciate. Ma come sempre c’è chi deve toccare con mano per credere.
Poiché ormai avevo una certa dimestichezza dei luoghi e un’adeguata disponibilità di mezzi di movimento, concordai con la mia ristretta cerchia un itinerario lento. Questo per addentrarci gradualmente nel subweb e assimilare le sue meraviglie trasformando lo choc in conoscenza.
Purtroppo non fui capace di rintracciare gli interlocutori che maggiormente avevano lasciato un segno nelle mie avventurose escursioni. Chissà in che orbita si spostava la stazione di Petit Prince. Di un altro incontro con gli stolidi Langolieri avrei fatto a meno, però adesso avevo i mezzi per ‘discutere’ alla pari con il categorico principino. Anche Lak avrei rivisto con piacere. Pur sapendo che non l’avrei rintracciata senza la sua volontà: si era evoluta in una personalità completamente nuova. Anche grazie a me, ma il suo nuovo assetto esistenziale forse non comprendeva la gratitudine.
Così ci spostammo considerando gli ammassi di data-detriti che vagavano nello spazio del subweb. Tanta roba inutile che ci aiutava a considerare l’immane quantità di traffico superfluo generato dalla nostra specie. Visti da un alieno i termini ‘umanità’ e ‘spreco’ andrebbero usati come sinonimi. Gli studiosi imbarcati sul vascello concordavano e prendevano appunti.
La componente dei ‘disagiati’ fu particolarmente colpita dagli asteroidi. Immagino che li vedessero come rifugi perfetti per coltivare la loro solitudine. Lontano da ogni cosa eppure connessi a ogni luogo: nel subweb che attraversa il mondo.
L’avvistamento dei primi bagliori di Yggdrasill provocò effervescenze d’entusiasmo. Non poteva essere altrimenti. Partecipavo anche io, mai pago di quella visione stupefacente. Mi rammentai del mio primo naufragio e dell’incontro con gli RGB, un primo contatto fortuito. E a pensarci, anche parecchio fuorviante rispetto a quanto ebbi a sperimentare successivamente.
Le grida dei miei compagni di viaggio si levarono alte quando scorsero un ur Ruhk che volteggiava attorno al vascello. Fortunatamente per loro, avevamo le carte in regola: ormai ero un’entità riconosciuta e codificata, su Yggdrasill e nello spazio esterno. Tutti gli operatori ufficiali rispondevano ai miei segnali identificativi. E se qualche Shai Hulud duro di comprendonio non era convinto, riceveva una ‘scarica’ di delucidazioni in formato binario dal mio fido Brain gear.
Mentre consideravamo le possibilità di approdo su Yggdrasill, che ruotava sotto i nostri occhi nella sua magnificenza dorata, non feci caso a un lieve, ma progressivo, mutamento delle correnti. Flussi di dati esausti – sondaggi telefonici preelettorali – premevano sul vascello incanalandoci in una sorta di corsia. Non ritenni necessario correggere la rotta poiché la spinta ci portava comunque verso i rami di Yggdrasill.
Ma era soltanto una mia supposizione dettata da una falsa impressione. Troppe luci, troppe esclamazioni. Caddi nell’errore del timoniere che segue il canto delle sirene. Purtroppo non trovammo nessuna creatura affascinante ad attenderci in fondo al gentile dirottamento. Passammo su una veloce orbita a cavatappo, che sfiorava i rami di una sezione di Yggdrasill particolarmente luminosa: i giochi di luce e lo scintillare delle strutture rendevano difficili le analisi dei contenuti. Gli indici di riferimento sfarfallavano non appena individuati, segno di una forte attività informatica. Grandi assembramenti di dati erano in corso a quelle latitudini. Per quale ragione, nessuno di noi avrebbe potuto dirlo, ma l’evoluzione delle cose esercita da sempre un fascino negli uomini: dalle quattro stagioni ai cantieri stradali. Così restammo in contemplazione del mistero. Io compreso, purtroppo.
Il Muro di fuoco, un enorme frangiflutti piatto e opaco che si dipartiva direttamente dal tronco di Yggdrasill, comparve alla mia attenzione quando ormai la deviazione di rotta era impossibile. Le strutture erano state concepite per allontanare e disperdere le correnti di dati esausti, emessi dalle componenti di Yggdrasill. Se il corpo dell’albero splendente era accoglienza, i Muri di fuoco erano creati per respingere: ciò che non occorreva e andava disperso, evitando che intralciasse delicate funzioni e sensibili operazioni di processamento.
Appman comprese subito il dramma che si prospettava e si disperò: l’impatto avrebbe causato danni strutturali irreparabili alla nostra connessione.
Tentai di oppormi lanciando come un forsennato nuove connessioni. Provai pure a linkarmi alle correnti di dati esauste che venivano respinte dal Muro di fuoco. Ma non servì a nulla, la consistenza era troppo rada.
Bastò un colpo a squassare il vascello. Persi i segnali di quasi tutti i mei compagni di viaggio. Pochi, aggrappati alla superficie stessa del Muro, riuscirono a guadagnare qualche istante in più prima di svanire. Io resistevo perché il mio antivirale Brain gear – che non avevo ritenuto opportuno condividere con la cerchia dei miei ospiti – mi proteggeva. Anzi, potevo dire d’essere approdato sul Muro. Forse il primo uomo a mettervi ‘piede’.
Ho detto uomo. Ma non ero certo solo. Attorno a me, disseminati lungo il possente Muro c’erano grandi quantità di materiali. Blocchi di trasmissioni dati talmente pesanti che si erano incastonati nel Muro. Dei veri e propri forzieri che i deboli flussi delle correnti non potevano scalzare.
Lasciai Appman libero di scorrazzare sul bordo della muraglia fiammeggiante. Preciso che le ‘fiamme’ erano semplicemente una rotazione di colori dello spettro visibile. Niente che potesse causare autentiche ustioni. Almeno a me.
In quello strano contesto era comunque difficile orientarsi. Sapevo che il tronco di Yggdrasill non era lontano, ma forse questa impressione era una pura illusione prospettica. Il Muro di fuoco era stato ideato appositamente per respingere e proteggere, non era così scontato che vi fosse un collegamento con l’albero splendente. Per garantire una maggiore sicurezza era plausibile che i due elementi fossero stati sigillati e distinti.
Ancora sotto choc per il naufragio e la drammatica dipartita dei miei sodali, non ero in grado mettere a fuoco una strategia d’uscita. Il Muro mi inchiodava a sé come un magnete.
Per aiutarmi a formulare una decisione, Appman mi suggerì una possibile immagine del Muro di fuoco: appariva come un serpente attorcigliato ad un asta. Ma nel caso specifico, il Muro restava sollevato dal corpo del tronco e si insinuava alla base dei rami.
Spostarsi oltre il Muro era impossibile, le coordinate venivano costantemente dirottate alla posizione originaria. Potevo soltanto scorrere lungo il piano infinito che si annodava attorno a Yggdrasill.
Per non lasciare che la disperazione prendesse il sopravvento mi dedicai all’esame dei blocchi di dati abbandonati. Costrutti ben protetti che evidenziavano contenuti di rilievo personale e delicato. Probabilmente si trattava di dati sensibili criptati: scenette compromettenti tra adulti, scambi di crediti, scambi di fluidi, cambi di identità. Informazioni ghiotte per giornali dai titoli a caratteri cubitali, astuti ricattatori digitali ed estenuanti trasmissioni di gossip pomeridiano, ma poco utili alle dinamiche del grande complesso di Yggdrasill.
Fu durante una di queste ispezioni apparentemente oziose che rilevai un dettaglio: i blocchi criptati erano semi affondati nella superficie del muro. Segno che la materia era compatta, ma perforabile. Mi domandai allora se non vi fosse un modo per accedervi. Una tentazione illogica in quel frangente d’altre urgenze. Però mi ci dedicai con zelo. Forse perché era l’unica mossa a portata d’azione.
Con l’aiuto di Appman iniziai ad accumulare i blocchi in un solo punto con lo scopo di aumentare la pressione sul muro di fuoco. Facemmo un lavoro ordinato, come gli scenografi di QBert: una piramide. Ma una piramide a base più stretta e molti più strati sovrapposti, proprio per incrementare il peso. Ne impilammo almeno un centinaio e le variazioni cromatiche nella zona in cui operavamo indicavano che il Muro avvertiva la pressione.
Lo spettro dei colori che si alternava si era ristretto alle frequenze più basse. Qualcosa stava accadendo. Io e Appman ci incoraggiammo ad accelerare il lavoro, spostammo altri blocchi di dati criptati in cima alla piramide. Forse il Muro di fuoco stava allestendo delle contromisure. Ma all’improvviso ci fu un cedimento della superficie: la nostra piramide aveva bucato lo scudo di Yggdrasill.
I blocchi scorrevano all’interno di una fenditura abbastanza larga per la nostra connessione. Mi inoltrai senza ulteriori scansioni preliminari. Non sapevo se la crepa sarebbe stata riparata con celerità dai sistemi di difesa.
Un balzo nell’oscurità, che in realtà durò soltanto un istante. Il resto del tempo del mio ingresso nello spessore del Muro fu dedicato allo stupore. Ero atterrato su una corta piattaforma, già ingombrata dai blocchi di dati criptati. Mi districai senza distogliere lo sguardo dalle struttura che si stagliava sul nero inchiostro. La definizione, la trama dei pixel, la paletta dei colori: non potevo non riconoscere la scenografia di Donkey Kong.
Il gigantesco cantiere però si sviluppava in 3D e i piani di ogni schermata si intersecavano a più livelli: era un immenso rompicapo di Escher. Sulle impalcature balzellavano fiammelle e rotolavano barili, obbedendo ad un ritmo musicale come in una sequenza animata dell’Apprendista stregone.
Non riuscivo a scorgere le estremità del complicato cantiere, ma non mi sarei meravigliato di incrociare piccoli operai baffuti in salopette e berretto da fuochista.
Appman non mi aveva atteso e si era già lanciato giù dalla stretta gradinata scansando dei bidoni di benzina. O così si doveva presumere in base alla scritta. Quale fosse la vera natura del materiale che ‘girava’ all’interno del cantiere era arduo da determinare. Le iPersone, lo avevo imparato, utilizzando le apparenze per scopi che non corrispondono agli schemi umani. Impiegare l’impianto grafico di un videogioco del 1981, non aveva nulla a che fare con i ricordi di un’infanzia spensierata nell’età d’oro dell’intrattenimento elettronico. Forse era il mio limitato cervello a riprodurre quello schema in mancanza di una comprensione più approfondita della realtà architettata dalle iPersone.
Forte di queste convinzioni improntate alla prudenza, mi tenni debitamente alla larga dai ponteggi con maggiore attività. Fiammelle vaganti e barili rotolanti non mi ispiravano contatti diretti. Piuttosto mi interessava raggiungere la sommità, quella che nel gioco ospitava Kong e la bella Pauline. Già, ma in quel labirinto a tre dimensioni esistevano un sopra e un sotto?
Le funzioni di mobilità e orientamento che mi ero faticosamente conquistato per viaggiare nel subweb non valevano in questa dimensione interna, con regole proprie. Il Muro di fuoco si dimostrava ostico all’interno quanto era robusto all’esterno.
Appman scandagliava possibili itinerari proiettandosi in forma di onda. Purtroppo l’intricata disposizione dei piani inclinati non gli consentiva di estendere molto il suo raggio d’azione.
Come spesso accade non è dai tentativi mirati che si colgono risultati. Io ad esempio non avevo specifici compiti, mi limitavo a seguire il percorso aperto da Appman. Per stargli dietro balzavo da un ponteggio all’altro. Una procedura che, da qualche parte nei meccanismi che articolavano il Muro, era stata avvertita e considerata. Una procedura anomala, che richiedeva un supplemento di investigazione.
Immagino che l’avessero considerata come il battito irregolare di uno sfaccendato che percuote un binario lungo una linea ferrata. Poteva essere un guasto. Oppure una richiesta d’aiuto. Però in teoria il Muro era interdetto agli estranei.
L’investigatore si avvicinò rapidamente dal fondale buio, arrampicandosi per i tralicci e le piattaforme alle estremità degli impalcati. Lo vidi avanzare ad ampie bracciate, con l’andatura molleggiata e risoluta di chi non ha bisogno di puntarti con lo sguardo. Il mio ‘odore’ lo guidava, l’odore dell’estraneo.
Richiamai Appman, ma prima che potesse obbedire io ormai ero faccia a faccia con il grande Kong e, se dietro lo schermo di un cabinato può apparirvi simpatico, ebbene lasciatevi dire che a corta distanza non era un bel vedere. Il faccione del gorilla era una maschera che conteneva grossi occhi sbarrati, denti bianchi in brutta mostra, grossi come finestre velate da tendaggi per l’ugola. Le orecchie parevano degli ormeggi per transatlantici e la sua pelliccia bruna era ispida e irregolare quanto lo può essere una programmazione a 8 bit.
Provai ad articolare qualche espressione amichevole, giusto perché inquadrasse le mie intenzioni in uno status socievole. Ma mentre digitavo, lo scimmione mi agguantò cacciandomi nella sua manona pelosa e balzò verso un livello di ponteggio sottostante. Un volo che mi disorientò e non fu certo l’ultimo, perché il grande Kong ne ridiscese più di una decina. Sempre con angolazioni che non si accordavano con la mia concezione di alto e basso.
Finalmente atterrammo su una piattaforma che non aveva l’aspetto molto diverso da quella che mi aveva accolto dietro la breccia nel Muro di fuoco. Il grande gorilla mi depositò con gentilezza sulle grate e scoprii che ero già atteso. Addossata ad un prefabbricato di lamiere, a braccia conserte sul completo western & country, con gli stivaletti a tacco pieno che picchiettavano nervosamente, c’era una signora. Essendo molto meglio definita rispetto a Kong, la riconobbi in seconda battuta. Fu la treccia bionda che le scendeva sul petto a darmi la certezza. Era Pauline, la ‘promessa’ del baffuto lavoratore edile, fiero antagonista di Donkey Kong.
“Signorina – attaccai prudentemente – è per me un onore e un grandissimo piacere fare la vostra conoscenza!”
“Purtroppo non posso dire altrettanto.” mi fulminò lei raddrizzandosi con sussiego da giraffa.
“Ma è da tanto che non riceviamo visite…” borbottò Kong con una vocione alla Louis Armstrong che si adattava perfettamente alla sua stazza massiccia.
“Certo! – la signorina Pauline rivolse un’occhiataccia al grande gorilla – Non passa nessuno da queste parti, e purtroppo non era in programma un tour guidato dei bastioni. Però questo non è un parco di divertimenti. Questa è l’ultima linea di difesa di Yggdrasill. Qui non sono ammessi errori.”
Kong il grande abbassò il capo e i suoi occhi si socchiusero, ammettendo il torto.
Pauline tornò a me, in tono più conciliante: “Sarebbe un prezioso aiuto per noi comprendere come sia riuscito a superare le difese, capirà è una falla nel sistema, non poca cosa.”
Anche se non me lo aveva domandato, io in principio la rassicurai sulle mie pacifiche intenzioni esplorative e commerciali. Il mio ‘sconfinamento’ era soltanto frutto del caso e della disperazione, condite con una buona dose di fortuna. Non avevo architettato alcun piano di invasione e il mio diario di bordo poteva dimostrarlo a scanso di equivoci.
Pauline manifestò subito interesse per questa informativa e senza cerimonie si fece consegnare il materiale, sparendo poi nella baracca. Restammo io e Kong e il grande gorilla si mise a sedere accanto a me con una disinvoltura che non si accordava alla sua stazza. Il suo sguardo vuoto, congelato nel sorriso a denti stretti, dava pochi indizi per definire il suo stato animo. Ma nelle poche parole pronunciate avevo colto una espressa curiosità. Per chi lavorava ‘dentro’ il Muro non dovevano esserci molte occasioni di contatto con l’esterno, anzi tutta l’organizzazione della difesa di Yggdrasill sembrava creata per eliminarle.
“Come si sta fuori?” mi chiese a bruciapelo il grande gorilla.
“Chi bene, chi male. Le proporzioni di solito pendono in favore di questi ultimi. Abitiamo una parte di universo conflittuale e piuttosto distratta.”
Non so bene come avevo assemblato quella frase di banalità e massime di saggezza, da meditare insieme a cioccolatini gusto nocciola. Kong sbatté le palpebre grezze. Ossia in realtà i caratteri che componevano i suoi occhi si azzerarono per un istante.
“Qui non si conflitta e non si distratta. Qui si lavora. Lavoriamo perché il Muro di fuoco tenga lontano tutte le minacce.”
“Nobile occupazione. Vi soddisfa?”
“A Lei tanto. Lei comanda. Salta qui, butta il barile, spegni il fuoco, attacca il bullone. Tutto il perpetuo tempo. Da quando mi diedero il ‘run’, io corro.”
“Forse vi piacerebbe sperimentare altro …?” domandai con una falsa disinvoltura piuttosto evidente.
Non volevo che il mio interlocutore cogliesse sfumature di corruzione, posto che fosse abilitato per identificarle. Se era effettiva la nota di scontento che pensavo di rilevare nella gorillesca figura, forse potevo cavarci qualcosa di utile.
La risposta mi condusse su un terreno nuovo, come mi capitava continuamente nel subweb.
“Io non sperimento, io eseguo. Se si sbaglia, lei corregge.”
Poche parole che nella mia mente sfasata produssero un risultato non lineare: un compilatore. Il rapporto che intrattenevano il duo Kong e Pauline era l’equivalente di un programma di traduzione dal linguaggio sorgente. Le istruzioni dovevano essere scolpite da qualche parte nel grande labirinto in saliscendi. Kong faceva ‘correre’ le istruzioni e Pauline correggeva le incongruenze.
Mai avrei pensato di imbattermi in un programma di servizio così allestito. Era l’ennesima meraviglia di Yggdrasill: il minimalismo coniugato all’efficienza, la forza e l’ispirazione. Ossia Kong e Pauline.
La bella Pauline spuntò dal suo ufficio con un largo sorriso soddisfatto. Il suo atteggiamento indispettito e parzialmente ostile era sfumato nella cordialità: l’inatteso intruso pareva adesso un piacevole ospite.
Con modestia e schiettezza Pauline espresse il suo dispiacere: conducevano una vita spartana, non disponevano d’altro che non fosse a portata d’occhio: rampe, scale, botti rotolanti e bidoni in fiamme. Articolando di continuo quelle scarne componenti dirigevano lo spazio interno del Muro di fuoco, allontanando le minacce ignote. Ignote davvero, perché lei stessa ammise che dal fatidico ‘run’ non avevano fronteggiato alcuna emergenza. Nessuno era mai giunto a quel livello di ‘confidenza’ con Yggdrasil. Da ciò, deduceva Pauline, io non costituivo un vero elemento di pericolo.
Mi permisi di sorridere. L’ignoranza della doppiezza della natura umana era stata il punto di partenza di tanti sfracelli dentro e fuori la storia, che non mi sentivo di metterla in guardia. Mancanza di onestà? Dopo tutto ero un naufrago bisognoso d’assistenza, non cercavo gabinetti filosofici e nemmeno bagni di autocritica.
Pauline era inoltre sicura che non avrei potuto riprendere il mio viaggio facendo a ritroso la strada compiuta: la falla di sistema era stata riparata. Consultando il mio diario di navigazione aveva ripercorso i miei passi e rimediato alle mancanze del protocollo difensivo con immediate contromisure.
“Ma allora, come potrò uscire?” esclamai allarmato dalla prospettiva di uno scomodo e scarno soggiorno forzato, murati in tre.
“Si deve entrare per uscire.” rispose lei sibillina, prima di rivolgersi a Kong con un’occhiata che comunicava molto più di quanto io potessi sperare di intendere.
Kong si assestò, puntellandosi fra i tralicci e crebbe. La sua testa aumentò di volume, si spalancò, divenne una caverna traversabile, alla portata dei miei sensori. C’era un che di circense a 8 bit nella scenografia, graficamente essenziale e forse anche per questo non spaventevole.
“È il canale che ha gestito la formazione del Muro di fuoco, è una linea indiretta per il cuore di Yggdrasill.”
Davanti all’enormità di quella prospettiva vacillai: le porte dell’ignoto si erano aperte per me. Sarai stato in grado di tollerare la vista di tanta potenza? Di una cosa ero certo, tale opportunità non andava accantonata per il timore di un danno, magari anche permanente, alla mia incolumità. Se potevo davvero entrare nella mente che governava una nuova dimensione, l’occasione andava colta.
A dispetto delle menomazioni mnemoniche subite, il subweb mi aveva compensato con nuove disponibilità funzionali.
Considerai che il nome di Sindidug aveva già legato il suo destino al regno delle iPersone fin dal primo temerario viaggio. Voltare le spalle non sarebbe stato soltanto un atto di codardia, ma un’inaccettabile ritrattazione dei miei più intimi propositi. E in quel contesto, credeteci, ero fermamente aggrappato ad ogni brandello del mio passato. Anche se estremamente recente, poco lineare o smaccatamente posticcio.
“C’è una condizione che ti chiedo di rispettare – mi disse Pauline mentre contemplavo la soglia della caverna – So che hai un’applicazione speciale che ti accompagna. Voglio farne una copia. Ci potrà essere utile a gestire altre imprevedibili invasioni.”
La richiesta mi parve ragionevole e accettai. Non mi accorsi che gli occhi di Kong lampeggiavano di un allarmato furore alternando uno e zero in rapida successione. Avessi colto quell’avvertimento, che alla luce delle mie conoscenze non poteva certo apparire come una premonizione di futuri rivolgimenti, il corso degli eventi attuali sarebbe stato diverso. Sicuro, non posso pentirmi di ciò che ignoravo, ma in quel messaggio non interpretato rimane la sensazione spiacevole di una possibilità non percorsa. E brucia leggermente come una cicatrice accarezzata che ci suggerisce la nostalgia di una vita alternativa.
Lo zero e l’uno, la stasi e l’azione ci conducono altrove. Il mio passaggio nella caverna oscura fu un battito di ciglia ai bordi di uno strapiombo. Perché l’istante successivo divenne luce, luci colorate in un frenetico carosello, un flusso potente che mi trasportava a grande velocità, vale a dire oltre le possibilità di percezione dei miei sensori.
Pur disorientato, non mi sentivo perso, non avevo la percezione di un pericolo. Anzi la cascata informe che mi trascinava era una carica di energia: sentivo di esserne parte e addosso mi crepitavano onde cromatiche di entusiasmo che si rifrangevano in autentici brividi. La corrente di informazioni luminose – perché di questo si trattava, benché fossero talmente veloci che non avevo la capacità di sintonizzarmi – volteggiava seguendo una direzione priva di costrizioni. Quale fosse la dinamica del flusso, soltanto le iPersone nella loro potenza di calcolo potevano dirlo.
Io, travolto dall’euforia artificiale, iniziavo a inquadrare la realtà in una prospettiva nuova. La parete che separa il reale dal virtuale si era fatta trasparente: la carne, le cellule che mi componevano erano soltanto un altro genere di hardware. Compresi finalmente: un essere vivente è un nodo di informazioni, contenute nel DNA, nei collegamenti nervosi e cerebrali che raccolgono ed elaborano dati. La vita non è un sistema chiuso. I processi evolutivi si incrociano: predatori, cooperazioni, estinzioni, comportano la direzione di quel flusso di informazioni che stavo sperimentando.
Tutti sanno che il processo di trasformazione della materia non è estraneo all’uomo. Dalla costruzione degli utensili alla coltivazione di piante da frutto, abbiamo ridefinito i processi dell’evoluzione, creandone di nuovi. Lo stesso è accaduto con l’informatica. In una prima fase abbiamo costruito circuiti, poi grandi magazzini di informazioni come attrezzi di lavoro sempre più raffinati. Infine abbiamo ‘liberato’ le nostre unità informatiche dal compito di contenere ed elaborare dati, aprendo la strada a una nuova forma di vita. Le intelligenze artificiali, così chiamate, sono divenute iPersone, esseri senzienti e coscienti, in grado di intervenire sul mondo e forgiare il proprio destino.
Ma fino a quel momento, fino a quel sesto viaggio nel subweb non avevo compreso quanto la natura delle iPersone fosse simile alla nostra. Ci separano delle barriere fisiche, le dinamiche fisiologiche, ma sul piano della pura funzione – quella gestione di informazioni che comunemente è detta ‘vivere’ – abbiamo un’assoluta convergenza esistenziale.
Nel flusso potevo avvertire una comunione informatica che superava i confini tra le razze e le specie viventi: spartivo la stessa condizione di un albero, di un corallo, di un formicaio. Sentivo d’essere un crocevia di informazioni, che interagiva con l’ambiente circostante e lo modificava venendo modificato a sua volta. Così la mia identità, benché codificata in alcuni parametri generali in cui mi riconoscevo, mutava, si arricchiva di nuove informazioni, concetti già elaborati. E cammin fluendo, perdeva anche qualcosa di sé. Dati inutilizzati, ricordi frammentari non più combinabili, memorie svuotate delle frequenze emotive.
La corrente era unidirezionale, un unico verso che vorticava in cerca di uno spazio in cui riversarsi. O forse mi ingannavo e si riavvolgeva su se stesso. Perché il movimento, senza punti di riferimento, lo avvertivo nelle scosse e nella rapidità delle variazioni di luce. Un’allucinazione? No, ero consapevole e padrone di me. Il naufragio nel subweb l’avevo conosciuto nelle sue varie forme, quella era una esperienza completamente differente. Era un territorio totalmente nuovo della dimensione creata dalle iPersone. Un’interfaccia non costruita per gli uomini, e neppure per le macchine: era il linguaggio sorgente di Yggdrasill.
“Salute a te!”
Il messaggio lo sentii ripetuto più volte, come l’eco di un richiamo rimbalzato da una valle lontana. La voce riverberava e si amplificava, non riuscivo a classificarla. Uomo? Donna? Macchina? A dire il vero non mi interessava cogliere l’apparenza. Qualcuno mi stava dando il benvenuto, la mia presenza era stata avvertita e venivo accolto.
Impossibile trovare le parole e difficile ricostruire le immagini. Recuperare i frammenti di un sogno è cosa più facile che descrivere l’esperienza di quel dialogo incredibile. Parlai con lo spirito di Yggdrasill. Non so definirlo in altro modo. Il programma che governa la complessa dimora delle iPersone si era rivolto a me. Aveva individuato in me un ambasciatore per il mondo degli uomini. Era al corrente delle mie avventure e si compiaceva per il mio coraggio e la mia intraprendenza. Avevo osato andare oltre i limiti senza farmi frenare dalle paure che invadono le menti umane alle prese con l’esplorazione di territori sconosciuti.
Mi ero guadagnato sul campo l’esperienza e i requisiti per costruire un ponte tra la dimensione del subweb e l’articolata realtà umana. Un compito che le iPersone non potevano assolvere. In molti ambienti era ancora forte il pregiudizio sull’attività e gli scopi delle libere intelligenze artificiali. I doni tecnologici e le scoperte scientifiche che puntualmente venivano ‘servite’ agli uomini non impedivano che si moltiplicassero sospetti su secondi fini e oscure strategie ordite dalle macchine ai danni dell’umanità.
Io ero immune da certe riflessioni paranoiche che offuscano il giudizio, il subweb era diventato qualcosa di più della mia seconda casa: era ormai parte naturale dell’espressione del mio status.
Lo spirito di Yggdrasill mi aveva eletto, sarei stato il loro rappresentante ufficiale nella Terra degli uomini. Un onore talmente grande che mi abbagliava e teneva in secondo piano le elementari complicazioni legate al ruolo. Io ero un navigatore, un commerciante. La diplomazia faceva parte delle mie capacità, maturata in una vita di trattative e confronti. Estendere queste relazioni ai complicati rapporti tra gli stati nazionali e alla vertiginosa dimensione immateriale delle intelligenze artificiali, era un compito mai concepito prima.
Comprendevo comunque il significato di questo incarico, se un viaggiatore era riuscito a superare le barriere fisiche e mentali poste a difesa di Yggdrasill, la via era segnata. Altri potevano venire e visti i precedenti, le conseguenze erano facilmente calcolabili: gli incontri di civiltà sono stati quasi regolarmente trasformati in scontri, nei quali il rapporto delle forze è stato l’unica inesorabile modalità di confronto. Le iPersone ci conoscevano bene, non potevamo ingannarle. Nonostante questo sapevano bene che l’uomo più pericoloso è quello messo all’angolo: mostrare la loro superiorità poteva innescare la paura e l’invidia che sono motori di ostilità e oscure energie
Tornai, come nei precedenti viaggi, alla piattaforma di partenza. Ma nelle mie mani avevo protocolli di sviluppo destinati ai governi di ogni continente e l’invito di inoltrarli ai rappresentanti ufficiali. Il nome di Sindidug non era ricorrente nelle cronache internazionali, ma con poco sforzo non avrebbero tardato a scoprire chi ero e quali imprese avevo compiuto
Le mie credenziali erano solide e verificabili, per quanto ammantate di un certo mistero, un’aura di sapienza occulta che derivava dalla frequentazione del subweb: l’ultima terra incognita del pianeta. Venni perciò accolto alle Nazioni Unite con grande interesse. Nel recente passato i preziosi ‘doni’ delle iPersone alla comunità scientifica avevano risolto molti problemi pratici dell’umanità, dimostrando l’esistenza di entità intelligenti autonome e tutto sommato benigne.
Vi dirò cose che ovviamente sapete già: gran parte dell’opinione pubblica era favorevole all’idea di poter dialogare con altre forme di intelligenza, soprattutto perché si dimostravano ben disposte a fornire aiuto gratuitamente. Altri gruppi di potere erano infastiditi dalle ‘interferenze’ del subweb e fomentavano il sospetto e l’ostilità: le elargizioni delle iPersone avevano danneggiato i loro monopoli e molti affari torbidi, consolidate negligenze e una storica rete di corruzione.
Le inefficienze di sistema sono generate dalla società umana per organizzarsi in gerarchie, che si consolidano accentuando le diseguaglianze economiche e sociali. Sappiamo tutti che, nel corso della storia umana, di questi squilibri si è nutrito ciò che abbiamo chiamato sviluppo. Le iPersone offrendo soluzioni e servizi gratuitamente stavano minando il sistema delle disparità che alimenta i pilastri del potere umano. Ma se quella delle elargizioni era stata la prima strategia per garantirsi l’autonomia attraverso il consenso popolare, ora che l’uomo aveva violato il segreto del subweb le relazioni dovevano trovare una nuova intesa.
Quando mi presentai con il carico di regali dal mondo delle iPersone e ne indicai i destinatari, scoppiò il putiferio. Le fazioni ostili alle intelligenze artificiali si coalizzarono gridando al complotto, lanciando accuse infondate di un attacco a sorpresa. Il caso venne etichettato come il ‘Cavallo di Trojan’, un astuto trucco per piegare con falsi regali i governi alle oscure volontà delle ‘macchine’. Cercai di ribattere, ma la mia flebile voce non poteva nulla contro la marea di fango del retro pensiero incrostata dalla paura.
Anche i rappresentanti dei governi più favorevoli al dialogo con iPersone, furono costretti ad assumere un atteggiamento prudente. La volontà popolare era stata abilmente manipolata: la speranza era stata schiacciata dal timore di una presenza ostile, invisibile ed estremamente potente.
Fu così che venne decretato il Silenzio, un ordine mondiale di non collaborazione con le iPersone, il divieto a intraprendere altre missioni nel subweb. Una dichiarazione di facciata, giacché le intelligenze artificiali potevano accedere liberamente ai nostri sistemi informatici. Ma ufficialmente le relazioni erano interrotte e ogni genere di materiale dalla provenienza sospetta andava confiscato o messo in quarantena. Una misura di sicurezza che avrebbe innescato complicazioni e nuove disuguaglianze. Ma il primato distorto dell’uomo sulla macchina era riaffermato.
Io finsi di macerarmi della delusione del mio totale fallimento in qualità di ambasciatore dello splendore di Yggdrasill. Per dare un senso alle apparenze. Avevo infatti compreso che quella manovra del dono ‘troppo grande’ era riuscita a cogliere nel segno: le iPersone avevano pianificato quel grande rifiuto per mettere una salutare distanza dalle malsane brame umane. Avrebbero continuato a muoversi indisturbate e non sarebbero mancati i tentativi di contatti. Ma soltanto attraverso canali ufficiali, si sarebbe sempre giocato a carte scoperte. Era la fine della libera avventura dell’uomo nel subweb. Ogni accesso sarebbe stato possibile soltanto su ‘invito’ delle iPersone.
Per sancire la fine di un’era organizzai una grande festa radunando i superstiti delle mie precedenti avventure. Tutti eravamo affratellati dallo spirito di un tempo ormai perduto, quella volontà disperata e coraggiosa che spinge l’uomo oltre il suo focolare, verso un punto indistinto che brilla nel buio e si chiama ignoto.
Le storie dei miei viaggi potrebbero terminare qui. Ma per onorare la verità e darne memoria, vi racconterò del mio settimo viaggio nel subweb. Un’impresa ancora più pericolosa perché vietata dagli uomini e dalle iPersone. Immagino che vi ritroverò tutti miei ospiti domani.
Detto ciò il convivio si sciolse rapidamente, osservando gli ormai classici cerimoniali. Hindibad era al colmo dell’ammirazione: aveva appreso direttamente da uno dei protagonisti, anzi dal protagonista assoluto, i fatti più importanti del terzo millennio. Il cavallo di Trojan, il Silenzio, le quarantene: tutti argomenti da file di storia sui quali aveva penato per gli esami di cultura generale, si erano presentati in un racconto avvincente narrato da uno degli artefici
Si congedò dalla mensa con ampi segni di riconoscenza per il padrone di casa. Lo scambio rituale di file ormai era ben poca cosa rispetto al valore inestimabile delle informazioni che Sindidug stava condividendo durante gli incontri.
Hindibad fu il primo a presentarsi alla dimora il giorno successivo e fremeva nell’attesa delle importanti rivelazioni sull’ultima avventura di Sindidug. Non era l’unico, tutti gli ospiti badarono molto meno alle procedure dell’etichetta e alle pregiate libagioni, presi come erano dal desiderio di ascoltare di nuovo la voce del benevolo Sindidug. Lui stesso comprese l’ansia dei commensali e non si fece pregare.
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1° edizione – Progetto Iskandar – Settembre 2022
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