Dal palazzo di Kubla Khan alla Perla di Patera: l'arte dall'altra parte della realtà

La macchina delle meraviglie che chiamiamo corpo è l’interfaccia del reale che possiede l’ordine del tempo e la forza per navigare nella vita. Una fonte di quotidiane sorprese e piccole meraviglie. Oggetto e soggetto si condensano nel corpo, dinamiche sottopelle processano sensazioni e producono effetti che la nostra mente intreccia per costituire la trama della realtà: una attività creativa inconscia che troppo spesso diamo per scontata.
E se l’osservazione del reale è una continua rincorsa, non lo è da meno il sogno. Un’espressione della nostra attività mentale ancora oggi oggetto di indagine. Si studia infatti per capirne la natura e quali aree del cervello siano coinvolte e in quale misura, ossia come il racconto del sogno venga concepito e in che rapporto sia con il pensiero cosciente.
Prendendo a prestito il modello informatico, si è ipotizzato che il sogno possa essere una sorta di screensaver, un’attività collaterale del cervello per evitare un completo spegnimento dei processi mentali alla base del pensiero. Mentre il corpo è in pausa, la “regia” della coscienza proietta un film composto da elementi pescati da un cilindro che contiene le informazioni di maggior valore emotivo. Immagini simboliche e sequenze narrative che, in associazione (difficilmente libera) possono generare nuove connessioni rivelatrici.
Il principio operativo del sogno, così inteso, è la rappresentazione di un pensiero dissociato, che si alimenta dello stesso processo del racconto. Possiamo chiamarla improvvisazione? Possiamo classificarla come creatività inconscia? Possiamo definirla “gioco” della mente? Se le risposte sono affermative, il sogno è un narratore “terzo”, una voce che alberga dentro di noi e prende parola, non appena il nostro ego cosciente si assopisce, per allestire il suo angolo ri-creativo in autonomia.
Versi “visti” in sonno
Il poeta e filosofo Samuel Taylor Coleridge – noto ai più come autore della Ballata del vecchio marinaio e per aver definito il concetto di “sospensione dell’incredulità” tanto caro al cinema – è il protagonista di uno dei casi letterari più celebri di incursione creativa dal mondo dei sogni. Siamo nel 1797 e il nostro autore non è particolarmente in forma, decide perciò di ristorarsi in un piccolo villaggio e approfittare delle piacevolezze della natura del Somerset. Un giorno, per tenere a bada i dolori, assume un paio di grani di oppio e nel dormiveglia “vede” un poema, una storia in rima che appena sveglio riesce a ricostruire in cadenze e melodia.
Purtroppo Coleridge viene interrotto da un visitatore e quando può tornare al calamaio, ecco che la labile impronta del sogno è svanita. Portata via dalle quisquilie di un inopportuno personaggio giunto da Porlock. Così dell’epopea di Kubla Khan, che in Xanadù costruì un palazzo del piacere, non rimane che l’architrave di una grandiosa facciata, un elegante frontone sorretto da una impalcatura abbozzata (Che comunque ha dato sprone alla hit dei Frankie goes to Hollywood ;-).
C’è chi dubita dell’aneddoto, però i primi versi della poesia possiedono una musicalità onirica, che risuona maestosa dentro il lettore, invitandolo ad immergersi nella storia come farebbe un palombaro stregato dai tesori nascosti nelle profondità dell’inconscio.
Coleridge non è comunque il primo autore che confessa d’aver attinto al pozzo dei sogni a occhi aperti. Nel 1785 l’eccentrico sir William Beckford (1760 – 1844) scrive Vathek, un romanzo che narra le malefiche gesta di uno sregolato califfo, istigato al peggio dalle astuzie di un demone, o meglio un angelo caduto. Beckford, figlio del sindaco di Londra, unico destinatario di una cospicua fortuna, beneficia di una formazione invidiabile (lezioni di musica da Mozart e d’arte dal pittore Alexander Cozens) e di un carattere volitivo e poco conforme ai crismi dell’epoca (per gusti estetici e pulsioni sessuali).
Il Califfo dallo sguardo che uccide
Riguardo a Vathek, affermò d’essere stato posseduto da un flusso creativo inarrestabile, una trance onirica che lo portò a completare l’opera nell’arco di tre giorni. Tre giorni di lavoro in veglia, rapito da una suggestione nata mentre ideava una rappresentazione per la sua piccola corte di amici. Tre giorni imbevuti di inchiostro, suggestioni esotiche e combinazioni febbrili: uno spazio di libertà che non è soltanto uno sfogo, un esercizio letterario sul modello de “Le mille e una notte”. No, Beckford costruisce una trama nera e famelica, precisa come la tela di un ragno, secondo un ordine di geometrie che si ripetono e si combinano per intrappolare i lettori più arditi. Il romanzo ha una sequenza ossessiva di rivolgimenti e finte resurrezioni che hanno una stretta parentela con gli schemi disinvolti della narrativa onirica: un flusso di (in)coscienza pilotato che si pratica negli stati del dormiveglia.
Non tutti danno per genuino l’exploit creativo di Beckford. La distanza tra la prima stesura in francese e la successiva in inglese nel 1787 farebbe supporre una qualche ritrosia, il gioco letterario infatti per certi sguardi poteva apparire troppo sfacciato, una confessione raffinata di inclinazioni incompatibili con la morale del tempo.
Che l’autore sia stato sincero o meno poco importa: tre giorni, trenta o tre mesi il risultato è una narrazione ombrosa, un gotico che scintilla, adornato di gioielli peccaminosi, lame insanguinate e tessuti preziosi. Sono le ricchezze che lastricano la via degli inferi e amplificano il sentore di decadenza nello sfarzo, come un tour nella corte di un Erode malato e corrotto, ma non pago di voluttà.
In Vathek l’esercizio della volontà del califfo dallo sguardo che uccide non sembra muoversi nel solco segnato dal fato (il Profeta sembra quasi compiaciuto della sua caduta, lo lascia fare affinché il suo dramma sia un fulgido ammonimento per i fedeli), ma da un arbitrio che sfugge all’uomo né alla natura. Si ha l’impressione che la storia voglia perpetuarsi riciclando i suoi enunciati, come un frattale narrativo imperniato nella tentazione e nel desiderio insaziabile.
Infatti la vicenda del califfo scellerato si allaccia nei successivi capitoli alle tortuose spirali di caduta di altri sfortunati nobili rosi dal vizio o resi miopi dalla ricerca dei piaceri. Giovani traviati da spiriti demoniaci, terribili eunuchi praticanti intrighi di corte, esperti in inganni e crudeltà sul popolo, inclini alla menzogna, ai travestimenti e ad ogni genere di attrazioni pericolose.
Una gotica dimora fuori dal mondo
Indubbiamente Beckford gode nella descrizione articolata dei misfatti, sgranati come un pietoso rosario da penitente, ma collocati in bella vista come un quadro di nudi armonici in scenari esotici. Il suo Oriente da favola nera è un mondo lontano, dove gli eccessi più turpi si possono contemplare senza conseguenze grazie alla distanza geografica e culturale: cose da arabi!
E il ricco ereditiere del Somerset (località già nota, vero?) sa bene quanto sia pericoloso esporre allo sguardo altrui i propri desideri: maggiorenne e sposato, finisce nei guai per alcune avances a un ragazzino. Da qui la decisione di sottrarsi ai rigori della legge e della morale del suo Paese. I suoi viaggi all’estero più improntati allo svago che all’erudizione, fortificano il suo spirito eccentrico. Beckford è il prototipo dell’esteta e dispone dei mezzi e del gusto per consacrare la sua vita al culto del bello e del piacere. Una vita da sogno? Per certo, nel suo splendido isolamento coltivò questo sogno con tutte le sue forze circondandosi di opere d’arte in un imponente palazzo (la gotica Fonthill Abbey ideata dall’architetto James Wyatt, crollata nel 1825) nel Wiltshire. Proprio come accadde al Kahn nei versi di Coleridge.
Espressione di forza febbrile, acutezza di sensi e rapimenti voluttuosi sono la materia viva della biografia e dell’opera di Jan Potocki, nobile polacco nato nel 1761 in Ucraina, da famiglia fedele alla corona dello zar. Il suo nome è legato al misterioso Manoscritto trovato a Saragozza. Dico misterioso perché nel 2002 si è scoperto che di questo romanzo, singolare nello stile e nei contenuti, esistevano versioni differenti. Quella che venne pubblicata nel 1958 in Francia derivava da una versione ridotta, forse censurata. E quindi soltanto grazie alla fortuna e all’occhio di alcuni ricercatori, dal 2006 possiamo apprezzare l’opera integrale.
Potocki fu in primo luogo un diplomatico viaggiatore, oggi sarebbe definito un reporter: attraversò l’Europa, esplorò le steppe e il Caucaso fino alla Cina, visitò Turchia, Egitto e Marocco. I suoi resoconti sommano indicazioni geografiche, impressioni personali e informazioni etnografiche. Sono prodotti dal gusto letterario che rispecchiano uno sguardo vigile e ricettivo, qualità utili nella trattativa politica. Soprattutto per un nobile polacco in un contesto turbolento come quello europeo alla fine del ‘700: le monarchie nazionali, grandi e piccole, si davano costantemente battaglia per assicurarsi territori e risorse. La rivoluzione francese avrebbe portato sulla scena nuovi protagonisti e infine Napoleone avrebbe cambiato bruscamente lo scenario internazionale ampliando gli scontri, modificando i confini, scardinando dogmi e aprendo la via a nuove avventure. Sì, perché con il suo impeto guerriero il generale corso mostrava che il potere si affermava sul campo e non per diritto acquisito: una sfida aperta alle aristocrazie che decidevano i destini delle nazioni.
Il caleidoscopio della realtà in frantumi
Potocki, consapevolmente o meno, vedeva il suo mondo di potentati nobiliari andare in frantumi, o meglio lo vedeva spezzarsi e ricomporsi come le forme evanescenti di un caleidoscopio. Una trasformazione che è il dna del suo “Manoscritto”, scosso fin dall’avvio dal ciclone napoleonico: la vicenda infatti prende le mosse da un ufficiale francese impegnato in operazioni di guerra in Spagna e dal ritrovamento di un manoscritto che diventa la sua lettura privilegiata durante la prigionia. Lo scritto narra le bizzarre vicende toccate ad Alfonso Van Worden, capitano delle guardie Vallone che diretto a Madrid attraversa la Sierra Morena (è lui stesso che “traduce il manoscritto” con le sue vicende al prigioniero francese: una mediazione che sovrappone narrazione a narrazione). L’aspro territorio spagnolo, nel resoconto inventato da Potocki (abituato a resoconti geografici e antropologici precisi e schietti) assume tutte le qualità di una dimensione fantastica, romantica ante litteram, densa di venature gotiche e barocche.
La trama del “Manoscritto” non è di facile stesura. Di fatto Alfonso si perde in un labirinto di racconti – suoi e di altri – scandito in 66 giornate come nello schema del Decameron di Boccaccio, ma articolato con la cosiddetta mise en abime: un gioco di rimandi e connessioni tra le narrazioni. I personaggi diventano narratori e le digressioni fanno rientrare in campo altri protagonisti per rielaborare trame o esplorare legami ignoti. Alfonso infatti scopre che il suo retaggio è legato a quell’angolo di Spagna dai tratti selvaggi e fantastici in cui “mori”, ebrei, e antichi pagani hanno convissuto – se non in armonia – secondo intese di reciproco rispetto.
Le sorelle Emina e Zubeida, principesse dei Gomelez accolgono un Alfonso stanco e affamato nei loro possedimenti segreti, rivelandogli legami di sangue e instradandolo su un percorso d’abbracci e spaventi che si dischiuderà in una concatenazione di racconti e rivelazioni. A ben vedere più che la trama in sé, che inanella storie di vario genere improntate di tono drammatico e con forti pennellate sentimentali che aprono la via al sentire romantico, sono i personaggi a scandire l’evoluzione del racconto del Manoscritto.
Alfonso si imbatte in alcune figure chiave che si impossessano della traccia narrativa: si tratta del brigante Zoto che gli prospetta avventure fuori dalla legge e dalla morale, dell’ebreo errante che – costretto a vagare fino alla fine dei tempi – può offrire eccezionali stralci di vita passata e incontri con personaggi storici (Merlino e re Artù, Giulio Cesare e Alessandro il grande), del cabalista che gli trasmette la sue sete per la sapienza contrastata dall’Inquisizione, del capo degli zingari Avadoro che si ritrova a guidare una tribù dopo esserne stato rapito. Passioni e spaventi, delizie e orrori si srotolano dal Manoscritto, ciascuno incardinato nell’esperienza trasmessa attraverso l’incontro.
Anche qui la campanella del raffronto suona dalle parti de Le mille e una notte, che però è un racconto a “matrioska”, unito dal narratore, la principessa Sharazade. Di Boccaccio si è detto, anche se la sua è una sorta di raccolta tematica, come quella di Geoffrey Chaucer nei Racconti di Canterbury. Il Manoscritto attinge idealmente a questi precursori ma è un passo avanti nella raffinata e singolare concatenazione dei singoli episodi. Potocki anticipa infatti il concetto dell’ipertesto: l’artista polacco Mariusz Pisarski si è preso la briga di “sciogliere” le vicende di cui è composto il manoscritto e distendere nell’albero di un ipertesto, allacciando i brani in base ai comuni riferimenti piuttosto che alla sequenza temporale.
Un ipertesto ante internet
Togliendo la “rilegatura” al Manoscritto si ritrova la sua vera natura – che poi spiega anche l’esistenza di versioni differenti – di racconto fuori dai binari del tempo e della logica causa-effetto, più simile a una carta topografica che ad una compilation di novelle. Potocki è un viaggiatore non soltanto fisico, conosce il valore dello spostamento per acquisire informazioni: da qui la struttura della sua opera che all’apparenza sembra un memoriale, in realtà è un itinerario, un percorso di iniziazione che soltanto in parte richiama la massoneria. Il nobile polacco infatti convoglia giocosamente il folklore e gli esotismi raggranellati durante le sue missioni, ma fa trapelare anche i suoi umori, le sensazioni di abitare un mondo comunque sconosciuto, nel quale ogni individuo può possedere le chiavi per aprirti passaggi a dimensioni non immaginate.
Di sicuro hanno un peso gli eventi dell’attualità: la rivoluzione francese, i sentimenti nazionali, la reazione delle aristocrazie alle istanze borghesi, vacilla un impianto secolare, le crepe sono talmente ampie e spaventose da far intuire un nuovo mondo. Potocki, nella doppia veste di nobile e suddito di una casa regnante su un impero troppo vasto e composito, avverte tutto il peso della precarietà della situazione. I germi della depressione che lo porteranno al suicidio “rituale” con la pallottola d’argento ricavata dal pomello di una teiera maniacalmente limato, appartengono a questa rivelazione.
Potocki è apparentato a H. P. Lovecraft, il solitario di Providence, un uomo che si sente a disagio tra le necessarie ipocrisie del suo tempo e vuole trovare ristoro nelle avventure marcate dall’insolito e dal sovrannaturale. Il sistema di valori in cui sono nati e cresciuti i due autori si è rivelato soltanto un fondale dipinto, dietro c’è altro e quell’altro attrae e spaventa, fino alla follia. Che, in concreto, è l’ultimo rifugio di un fuggitivo. Morte a parte. Benché lo stesso Lovecraft abbia scritto che “anche la morte in strani eoni può morire”.
Con il Manoscritto, Potocki consegna alla storia della letteratura una mappa narrativa che, al di là dell’esercizio di stile, ricco nel ventaglio dei generi, manifesta il suo valore nella sofisticata connessione delle singole storie. Una struttura che farà da modello a molti, non ultimo il famoso “Così parlò Zarathustra” del filosofo Friedrich Nietzsche: gli incontri del protagonista sono occasioni per esporre parabole, che però costituiscono i nodi di una rete sapienziale. Potocki invece non si occupa di verità, preferisce ritagliare i riferimenti della sua mappa da un tessuto fantastico che appartiene alla dimensione onirico.
Il sogno e l’inconscio diventano il campo di indagine degli studiosi della mente tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900. Il nome dell’austriaco Sigmund Freud, padre della psicanalisi, non è certo ignoto e proprio nel 1900 pubblicò il testo fondamentale “L’interpretazione dei sogni”. Meno conosciuto oggi è Alfred Kubin, che negli stessi anni costruì la sua notorietà nel campo dell’arte, un talento nel settore dell’illustrazione che attinge proprio da quell’inconscio che da poco era stato “battezzato”.
I riverberi oscuri delle nevrosi creative
La biografia di Kubin sembra uscire da uno dei “casi” di nevrosi trattati da Freud: un giovane malaticcio e sensibile, segnato dalla morte della madre e dalla severità del padre, comunque spesso assente. A fatica cerca la sua strada nelle arti figurative (i suoi riferimenti sono il fantastico grottesco e metafisico che emana dalle opere di Goya, Odilon Redon e Munch), vivacemente attratto dalla filosofia e dalla poesia, subisce il trauma della morte prematura della fidanzata. Si riprende innamorandosi e sposando la sorella di un caro amico e, quando sta per riconciliarsi con il padre, questo muore. Una ferita che lo rende incapace di continuare a lavorare.
Forse come forma di terapia, forse perché spinto a liberarsi da incubi che lo perseguitavano, Kubin si getta nelle lettere, scrive un romanzo: Die andere Seite, L’altra parte, pubblicato nel 1909. E l’altra parte che descrive fa esattamente corto circuito con il palazzo di Kubla Kahn. Sì, perché torniamo nel regno del sogno, un regno che il misterioso Claus Patera vuole riprodurre sulla terra.
Non dovete ingannarvi però. Quando si parla di sogno realizzato non lo intendiamo nelle forme classiche: il possesso e l’appagamento. Tutt’altro. Il sogno di Patera, progettista e deus ex machina della città chiamata Perla, consiste nel creare le condizioni per vivere un sogno ad occhi aperti cancellando i confini illusori tra ragione e… ciò che sta dall’altra parte.
La terra dove l’artista alter ego di Kubin si trasferisce con la moglie è un lembo dell’Asia centrale cinese che il ricco Patera ha trasformato deviando fiumi e importando pezzi di edifici da varie parti del mondo, poi riassemblati secondo criteri oscuri. A prima vista somiglia ad una sonnolenta cittadina del centro Europa, con tanto di palazzi, ristoranti, laboratori, quartieri poco raccomandabili e castello padronale. Ma nulla è come sembra.
Anzi più l’artista cerca di comprendere come funzionino le cose in città e più queste sfuggono e si complicano. La consuetudine a Perla non è ammessa, se non nella varietà di facciata. Gli ambienti e le attività non hanno nulla di sfarzoso o eccezionale, non si avvertono smanie di sviluppo e progresso, anche perché i rivolgimenti sono tanto rapidi quanto incomprensibili. Buona parte dei residenti sono invitati da Patera, ma ci sono anche numerosi ex costruttori, enigmatici indigeni e una risonante concentrazione di individui eccentrici capaci di far sobbalzare in maniera brusca qualsiasi normale relazione.
La cosiddetta autorità è in mano a istituzioni che guardano al castello, dimora di Patera, agiscono in suo nome. Ma non è detto che sia così, come scoprirà l’artista nei suoi vagabondaggi. La città è sempre immersa in una luce fioca, il cielo fa scudo al sole ammantando tutto in una atmosfera ovattata che ha caratteri artificiali. Nonostante questo paesaggio riverberi sensazioni disagevoli, le necessità costringono la coppia ad adeguarsi presto alle consuetudini inconsuete del luogo. L’artista trova lavoro come illustratore di un giornale (dove gli si chiede di fare del suo peggio in termini di , ma invece di trovare stabilità si invischia sempre più nella mentalità “onirica” del luogo.
Le persone portano abiti un po’ datati e praticano professioni comuni, per quanto con approcci e attitudini spesso piuttosto originali. Ci sono personaggi talmente tipici che paiono strappati da un palcoscenico. Gli affari si regola come altrove: a Perla si fanno acquisti con monete, ma capita che ve ne rifilino di fuori corso. Gli scambi e le richieste diretti non vanno mai a segno, la volontà non trova mai compimento se non per vie tortuose: vale per le compere e per le trattative pratiche. Un modus operandi che la moglie dell’artista faticherà a praticare e questo alla lunga sarà fatale.
L’ignoto oltre il velo della realtà
L’artista ha subito la viva impressione che “dietro” ci sia qualcosa di non detto, che la città sia soltanto l’espressione di una elaborata costruzione, una gigantesca recita gestita dal suo amico Patera (che era un eccentrico compagno di scuola poi perso di vista) per venire a capo di un oscuro richiamo che giunge dall’altra parte. All’inizio quindi c’è curiosità, c’è voglia di comprendere i meccanismi reconditi della città del Sogno, ma le indagini vengono continuamente sviate, mortificate da rivolgimenti e incombenze che hanno fattezze di ossessioni e incubi.
Il disorientamento dell’artista è percorso da ondate di rabbia e paura che alterano il suo rapporto con il regno del sogno, si comprende così che gli stati d’animo influenzano la realtà della cittadina. Le ombre e i punti oscuri sembrano più minacciosi, quando si cerca di esplorarli direttamente. Ma se il protagonista narratore non ha la forza per incidere sul corso degli eventi, c’è qualcuno che si staglia come un campione della vitalità che si oppone all’inerzia impressa da Patera: si tratta del magnate Hercules Bell, un americano giunto a Perla con l’obiettivo di trionfare nel regno del sogno. Un proposito che innescherà rivolgimenti diffusi in tutta la cittadina, disordini folli e disastri immaginifici. Fino ad un confronto fatale con Patera, un duello tra il sognante e l’aspirante sognatore che spezza l’incantesimo dal quale il regno trae la sua energia fondatrice.
L’artista descrive una sorta di catastrofe apocalittica che, sintetizzata, è un concitato processo del risveglio: quando l’io cosciente vuole riprendere il timore, allora gli accadimenti del film onirico si fanno più intensi. La sospensione dell’incredulità deve raggiungere il punto di tensione per disgregarsi e farci entrare di nuovo nel racconto che chiamiamo realtà. Il protagonista de L’altra parte ammette di non aver compreso quale fosse il vero potere del suo amico Patera: era un sognatore oppure, a sua volta, era sognato da altri? Il velo dell’illusione si solleva davvero una volta svegli? O forse cambiamo semplicemente sogno?
Quesiti alla Matrix, validi ancora oggi. Nell’itinerario che abbraccia vita, in sogno o dormiveglia, Beckford edonisticamente preferiva lasciarsi portare al desiderio. Potocki tesseva la tela di una dimensione per sfuggire al logorio del tempo. Kubin invece si faceva cronista di un viaggio esplorativo senza speranza di interpretazione. Il mistero del sogno si rinnova, affascina, incanta. E fortunatamente lascia nell’arte tracce della sua meraviglia.
Gianlorenzo Barollo
Ps
Per altre connessioni tra sogno e realtà vi rimando alla lettura del brano Il sogno di Coleridge nel libro Altre inquisizioni di Jorge Luis Borges.
