Children of the revolution: giovani ribelli in un pugno di film del ‘900

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Il conflitto generazionale dal '68 di If... ai punk di Salt Lake City

“Puoi agitarti e urlare, ma non fregherai i figli della rivoluzione” Marc Bolan dei T. Rex 1972

Quando i media si affollano di notizie catastrofiche (ogni quarto d’ora circa), servite con le stesse espressioni beote amabilmente anticipate dai notiziari pilotati visti in Robocop e Starship trooper, ecco che allora un pensiero compassionevole sfugge per la sorte dei più piccoli, di coloro che hanno iniziato da poco a compilare le pagine del libro della vita.

I battaglieri ambientalisti in stile Greta lo hanno urlato con chiarezza: ci state rubando il futuro! Un messaggio che davvero non avrebbe necessità di spiegazioni, basta guardarsi attorno ed evitare le giustificazioni comode e le spiegazioni ardite. La frattura generazionale ha quindi una doppia motivazione oggi: quella classica identitaria (noi non siamo come voi… vecchi) e quella di un contemporaneo cambiamento epocale.

Una novità? Nell’età contemporanea è difficile assegnare l’etichetta di “inedito”, assonanze e similitudini si rincorrono e finiscono sotto lenti deformanti. Questo detto senza nulla togliere alla gravità dell’appello.

Allora restiamo nel nostro e facciamo un gioco (qui al Club è la regola 😉. Un percorso in modalità skip: salteremo tra le decadi del secondo ‘900 andando a sbirciare i film che hanno cercato di mettere in scena il conflitto generazionale. L’ambito di partenza è quello della cinematografia Usa, che ha pervaso l’immaginario internazionale con i suoi modelli. Nello specifico è il Paese che ha inventato i “giovani”, ossia i teenagers, una categoria identificata per età e disponibilità economiche, foraggiabile con i prodotti del fiorente mercato dell’intrattenimento e manipolabile tramite desideri indotti per via pubblicitaria.

Nonostante gli sforzi del marketing, il sogno americano non incanta e non include tutti. Inoltre la tentazione del lato oscuro è un racconto che fa colpo. I drammi senza veli erano il pane della Hollywood ante guerra prima che la controriforma del codice Hays infilasse brachettoni ovunque. Così gli anni ’50 fermentano sì la teenager-mania a ritmo di rock and roll, ma forgiano anche i Ribelli senza causa: dai motociclisti de Il Selvaggio (1953) con l’iconico Marlon Brando, al classico Gioventù bruciata (1955) con il mitico James Dean.

Si tratta però di ribellioni non strutturate, fiammate di insofferenza che sfociano in tragedia per supposti eroi in cerca di un palcoscenico. Proprio come l’Achille cantato da Omero, figura assetata di vita e gloria, quasi accecata dal desiderio di autoaffermarsi. Ancora non esiste una coscienza di categoria, quella della giovane generazione che si oppone a quanti pretendono di dettare le regole e imbrigliare ogni slancio. La svolta matura nel decennio successivo e si radica soprattutto nell’opposizione alla guerra in Vietnam: un conflitto che sembra replicare (in peggio) scene già viste in altre parti del mondo, in altre epoche. E i giovani si ritrovano concordi: non vogliamo essere marionette per l’ennesima recita mortifera.

 

Il nostro start cinematografico lo fissiamo nel 1968, data mitica della contestazione (ricordiamo: epicentro francese, risonanza mondiale), che sullo schermo trova la sua corrispondenza in “If…”, un classico del Free cinema inglese ad opera del regista Lindsay Anderson. La storia è quella di un gruppo di giovani che attraversa gli anni della prima formazione all’interno della soffocante istituzione di un secolare college britannico. Un ambiente esclusivamente maschile, gerarchizzato secondo l’anzianità, inamidato nelle consuetudini di un ordine teso alla continuità e all’appiattimento. Il ghigno di Malcom McDowell (l’Alex di Arancia Meccanica di Kubrick, per intenderci) è la bandiera di una generazione repressa che non abbassa più la testa, insorge. E a mano armata.

La stagione del terrorismo è dietro l’angolo: alla coralità vitale dell’affermazione della young generation si somma la matrice politica/ideologica/ideale che immagina un altro mondo. Se… appunto.

Saltiamo in avanti di un decennio, balzando dagli attriti contrappuntati da bombe e raffiche ai toni brillanti e alle esplosioni esilaranti della commedia. Ci siamo sintonizzati infatti su Animal House (1978), celeberrimo film di John Landis che sfodera i talenti comici del Saturday night live, primo fra tutti John Belushi. Il racconto ha già il sapore di un amarcord, infatti è ambientato negli anni ’60, in un college zeppo di imboscati renitenti alla leva e stralunati personaggi sospesi tra i “viaggi” alla Easy rider e parodie di Flower power. Qui lo scontro tra generazioni rispecchia le dinamiche di If.. ma si tratta di una guerriglia buffonesca, a colpi di goliardate (alcune epocali) che pure fanno parte del linguaggio anarchico-surrealista sdoganato dalla contestazione sessantottesca.

Più che un nostalgico “come eravamo”, Animal House sembra il racconto folle di “come potevamo essere”. Tanto che nel finale, quando le didascalie sintetizzano il destino di ogni personaggio, li si vede tutti ben inquadrati nell’architettura sociale: avvocati, professionisti e politici. Il messaggio landisiano è che tanta energica ribellione abbia il suo finale di parabola nell’omologazione: il sistema vince, perché tu prendi il posto di chi hai contestato. In fin dei conti un avvicendamento naturale, pratica salubre dai consessi tribali ai consigli d’amministrazione.

Concedetemi soltanto una piccola digressione per menzionare “Taps – squilli di rivolta” del 1981 (che vede un cast di giovani stelle come Sean Penn, Tom Cruise e Timothy Hutton): esempio di una chiara inversione di tendenza alla ribellione generazionale. Anche qui abbiamo una scuola, un collegio di stampo militare che forma i ragazzi ad un futuro ingresso in accademia. Ma per problemi di carattere economico immobiliare l’istituzione rischia la chiusura, una criticità che deflagra per una serie di incidenti. A questo punto i ragazzi rimasti soli al comando organizzano una resistenza a mano armata con l’obiettivo – per quanto ormai irrealizzabile – di dare continuità alla scuola.

A prima vista sembrerebbe un passo indietro: giovani schierati con le istituzioni, con i vecchi. Invece no, la loro resistenza è una pulsione al sacrificio per un ideale, fuori dalla logica del profitto e dalle dinamiche della convenienza. Il conflitto generazionale si sposta su altre frequenze, sulla capacità dei giovani di dare nuova linfa ai valori condivisi (in Taps si parla di onore marziale, ma il concetto rimane).

Altro balzo decennale per atterrare in una scuola senza classi e senza banchi, ossia la strada. Spesso il cinema ha narrato la lotta di insegnanti contro il degrado delle periferie, idealisti impegnati sul campo della formazione delle menti per ridare ai ragazzi la dignità sottratta. Nel 1988 ci sono due titoli degni di nota. Il primo – tratto da una storia vera – è Stand and deliver (Forza di volontà in italiano): il difficile cammino di un professore di informatica/matematica deciso a riscattare dall’ignoranza gli studenti di una scuola periferica di serie Z. Il secondo è Colors, stupendo affresco della criminalità giovanile nei sobborghi di Los Angeles ad opera di Dennis Hopper (indimenticato regista del generazionale Easy rider e, guarda a caso, attore in Gioventù bruciata).

Nei due casi la fauna giovanile rappresentata porta i segni della sconfitta, individuale e collettiva. Sono una massa dilaniata da scontri gangsteristici di stampo tribale, teppismo generico, sopraffazioni travisate da stato di necessità e ignoranza livello “zoccolo duro”. Sulla strada i giovani tendono ad associarsi in clan, non a caso i colors sono i colori di guerra che contraddistinguono le bande. Il gruppo è il sostituto della famiglia, della scuola e del lavoro. La coscienza unitaria di una generazione, in questi racconti è del tutto frantumata in piccole esistenze che rischiano di chiudersi in un ciclo vita-morte molto rapido. Alcuni – fortunati – riescono ad evadere ma non da soli, sempre grazie agli sforzi saggi di qualche adulto.

Arriviamo al 1999, superando la fascia radiale di Trainspotting che nel 1996 ha marcato un gol pesante nella rappresentazione di violenza, ribellione e disagio giovanile. Alle soglie del fatidico duemila, con il millennium bug che incombe, qualcuno si ricorda che prima del cyber c’era il punk. Ecco così Salt Lake City punk, opera di James Merendino basata su spunti autobiografici, ambientato negli anni ’80, in uno degli Stati meno ricettivi alle sottoculture giovanili moderne (dopo il Wyoming ovviamente, dove i punk sono presi pazzi, sfuggiti a una casa di cura).

Stevo, il protagonista, racconta la sua stagione di furore e anarchia in una Salt Lake City gelida non solo in termini climatici. Facile comprendere che in una realtà ad alto tasso di controllo sociale i giovani tendano a smarcarsi. Già, facile a dirsi, ma come? La città offre poco, è culturalmente polarizzata e le devianze sono respinte, cosa resta? Se non resta nulla tanto vale buttare all’aria tutto: studio, relazioni, prospettive di carriera. Stevo e l’amico Bob decidono di vivere alla giornata perseguendo la filosofia nichilista, alla ricerca del caos.

Attorno a loro, altri giovani praticano la loro confusa resilienza abbracciando – soprattutto nel look – gli stili che hanno caratterizzato i ribelli degli anni precedenti: i mods inglesi, i metallari, i neo nazisti e i neo hippie o new wave. In pratica sono delle tribù che somigliano a quelle di Colors, però più a livello estetico che pratico. Infatti l’accusa che “vola” più spesso, anche tra i punk e di non essere abbastanza autentici, di atteggiarsi senza essere. Stevo ammette che tutti i suoi “credo” si sono smontati e smussati. Lo spirito critico con cui ha fatto a pezzi le aspettative dei genitori, ha distrutto il suo stesso ideale di lupo solitario. Così nel finale ammette che anche la sua stagione ribelle è stata una posa, una moda. Un po’ come Rent Boy che sceglie la vita “normale” all’autodistruzione fatta di droga e violenza.

In questo excursus cinematografico del ‘900 la fase più viva della lotta delle giovani generazioni contro i matusa sembra esaurirsi. Pensiamo al film Battle Royale, che arriva proprio nel 2000, e concettualmente rappresenta la controffensiva totale degli adulti sull’intemperanza giovanile: classi di ragazzi deportati su un’isola per un gioco al massacro in nome dell’ordine e della disciplina. Quasi una pietra tombale per i ribelli del presente e del futuro.

Non ho dato poi conto dei vari film sugli intrighi di cuore al college o quelli in salsa fanta/horror che ancora oggi vanno per la maggiore sui tavoli delle produzioni poco avventurose. In generale, bisogna ammettere che il tema del conflitto generazionale viene spesso sbriciolato nella fiction o nel dramma che attinge alla cronaca. Ma lo spirito selvaggio dei teenagers per sua natura non può essere cancellato: oppressione miope e crisi epocali sono le occasioni migliori per farlo divampare. La cause ci sono, i ribelli arriveranno.

Gianlorenzo Barollo

È un alter ego professionale attratto dall’amatorialità e gran cultore del perseverare nell’errore che ci fa umani. Per pochi ma belli è noto come autore del bestial seller “I pensierini di Mosè” e di “Triscaidecafobia”.

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