
Così, William Gibson, fece finalmente il suo primo film. Lo fece con il suo amico newyorkese Robert Kongo, artista e performer di una certa notorietà, qui alla sua prima esperienza cinematografica. Bill Gibson ha scritto la sceneggiatura, Longo ha diretto il film. Dal punto di vista della trama e del ritmo, i due sembrano veterani del cinema d’azione: tutto fila via liscio, una scena dopo l’altra, suspence assicurata, effetti speciali a posto, climax garantito. Stavo dimenticando l’essenziale, forse, ma di che film parliamo lo sanno tutti, l’hanno già visto, e probabilmente hanno anche letto il racconto da cui è tratto, Johnny Mnemonic, appunto. Ora, il racconto, raccolto in “La notte che bruciammo Chrome”, lungo una ventina di pagine, e da quando venne pubblicato è passata una trentina d’anni, mentre il film è a metà strada, uscito nel 1995. Nel frattempo ne sono successe di tutti i colori, Gibson ha pubblicato molti undici romanzi, hanno “inventato” le realtà virtuali, il cyberpunck ha attraversato i firmamenti della fiction (il che, oggi, vuol dire anche della realtà) e niente è più come prima. Di tutto questo il film doveva tenerne conto, è l’ha fatto. È un film ambizioso, e non solo per il budget (partiti con un progetto modesto, da un milione e mezzo di dollari, i due si sono trovati alla fine a gestire un colosso da 30 milioni di dollari), non solo perché è subito arrivato un videogioco su CD-ROM (allora una novità, visivamente, però, col film ha poco a che fare). Gibson, l’ha dichiarato lui stesso, ha voluto fare un film sulla politica dell’informazione, e perciò ha cambiato non la storia, che sostanzialmente è rimasta la stessa, ma il personaggio di Johnny e il finale. E ha aggiunto un elemento al plot. Nel racconto, il giovanotto che fa il corriere dell’informazione, con el sue centinaia di gigabyte (in verità solo 80, che diventano dopo il raddoppio 160, cioè quasi 200 volte la capacità media degli hard disk presenti nei computer casalinghi all’epoca in cui il film è stato girato), chiuse nel cervello che non può scaricare senza il codice d’accesso, sfugge alla yakuza e al suo killer con il filo monomolecolare che gli esce dal pollice, scarica i dati con l’aiuto del delfino Jones, e vive felice, contento e ricco con la sua Molly, la guardia del corpo che l’ha aiutato a togliersi dai guai. Nel film, più o meno tutto uguale fino allo scarico dei dati, ma in più c’è la malattia dei corrieri e degli interfacciati, l’ANS, sindrome da attenuazione nervosa, di cui soffre anche Molly, e Johnny scopre a un certo punto che quello che ha in testa è proprio la cura per l’ANS, che la cattiva multinazionale di turno, la Pharmakon, e la yakuza vogliono tenere per sé (indovinate per farci cosa), e che invece i Lo Tek, questa comunità di simpatici giovanotti underground che vivono appesi ai piloni di un ponte, vogliono rendere pubblica.
Johnny deve scegliere, e nel film non sceglie, come nel racconto, la soluzione individuale, ma quella collettiva: scarica i dati nel satellite, e il grattacelo della Pharmakon va in fumo. Uno a zero e palla al centro. Non posso che essere contento di questa nuova versione della storia, e non ho bisogno di dirvi perché. E bisogna aggiungere anche che finalmente abbiamo in un film, scene nel cyberspazio ben progettate e ben realizzate al computer, molto ma molto meglio di quelle più famose del “Tagliaerbe”.
Però, alla fine della fiera, devo confessare anche che il film non è memorabile, non segna, come forse avrebbe potuto, una svolta nell’immaginario visivo, come “Blade Runner”, o (per me, so che si questo sono in minoranza), “Natural Born Killers”. È un film, come dire?, timido: come se gli autori fossero sempre sul punto di dirci qualcosa di importante e si trattenessero. Uno dei punti deboli è proprio Molly, che infatti non si chiama Molly, ma Jane. Johnny Mnemonic, il racconto, introduce un personaggio (che poi tornerà in “Neuromante” e “Monna Lisa Overdrive”), che a me sembra una delle creazioni migliori di Gibson. Però deve essere lei, con gli occhiali a specchio impiantati nelle orbite e le lame retrattili che escono da sotto le unghie e tagliano come rasoi, non la scialba e nomale ragazza del film. Non è solo il gusto del bizzarro, non è solo un dato visivo, è un archetipo del cyborg. Capisco i problemi a trasportare sullo schermo un personaggio del genere: ma Cronenberg, per filmare “Il pasto nudo”, ne ha risolti di ben maggiori. Gibson e Longo evidentemente, non hanno avuto lo stesso coraggio.
Mauro