
Anno 2018. Un mondo senza guerra, senza fame, senza altre necessità che lo svago. La produzione, l’organizzazione e in un certo senso anche il pensiero individuale sono compito delle corporazioni che governano il sistema. Un mondo perfetto? Non troppo, almeno per chi lo vedeva dal 1975 chiamandolo Rollerball.
Un futuro, immaginato dallo scrittore William Harrison, che viene raccontato attraverso lo sport. Una pista circolare come arena, pattini a rotelle e motociclette, una sfera d’acciaio da conquistare. La perfezione del cerchio a simboleggiare il senso ultimo di una società che aspira alla continuità e all’equilibrio: il movimento rotatorio nel quale tutto si risolve e si rinnova.
È vero che il film, visto oggi (è stata una delle recenti proposte del Cinequadrum), magari ha qualche lentezza e risente di dialoghi non particolarmente brillanti, ma occorre considerare lo stile del tempo e soprattutto il senso ultimo del racconto. In un luogo e in un’età in cui gli uomini sono abituati ad eseguire e a ricevere, quasi senza chiedere, ecco che il confronto dialettico si limita a poche formalità educate. La dirigenza ha sempre l’ultima parola, può cambiarti lavoro, compagno, residenza. E se non sei d’accordo, ci sono delle pillole che fanno dimenticare qualsiasi dispiacere. Il “Mondo nuovo” di Aldous Huxley sembra fonte ispirativa per il background di Rollerball, una società pervasiva che orbita dalle parti di Thx 1138 di George Lucas e La fuga di Logan di William Nolan e George Clayton Johnson. Schegge di futuro che si interrogavano sui limiti dell’umanità, sull’evoluzione dei sistemi sociali e soprattutto sugli spazi di libertà per l’individuo. Esisteranno ancora nel 2018?
Il futuro dopotutto non è forse come quel punto indefinito che sta in fondo ai nostri interrogativi? Esiste sotto forma di domanda. Cosa potrebbe riservarci? Negli ormai lontani anni ‘70 del ‘900, dopo un bis di guerra mondiale e un conflitto semifreddo tra Occidente e blocco sovietico, gli sguardi erano puntati agli scenari di una storia che si intuiva in rapida accelerazione.
La crisi petrolifera, le tensioni internazionali piene di risvolti indecifrabili, le voci dissonanti dei Paesi emergenti e sovrappopolati, la prima consapevolezza delle catastrofi dell’inquinamento legati a modelli di produzione senza scrupoli. Tanti nodi, tante cause che prefiguravano effetti incalcolabili forse, ma immaginabili. Ed ecco che la narrativa catastrofica prese fortemente piede in quegli anni, perché si avvertiva che a breve sarebbe giunto il momento delle scelte irrevocabili.
La frontiera dello spazio era data quasi per scontata, come lo shopping sulle stazioni orbitali e le coltivazioni minerarie lunari. Dopo 2001 odissea nello spazio di Stanley Kubrick l’immaginario della grande epica dell’uomo nel cosmo si era già saturato nell’estetica e nella filosofia del mistero universale che ci abbraccia. Non restava che tornare alla Terra, al rapporto scriteriato tra l’homo sapiens il suo habitat. Questa la vera scommessa, prima di pensare al biglietto per le stelle. Al cinema si cercava di anticipare raccontando la carestia (2000: la fine dell’uomo – 1970), le malattie (Occhi bianchi sul pianeta terra – 1971), la sovrappopolazione (2022 – i sopravvissuti – 1973). Nel 1975 al cinema arriva Rollerball, un progetto che nasce da un racconto pubblicato su Esquire (rivista letteraria) di un autore non etichettato come fantascientifico, William Harrison. Lui stesso scriverà la sceneggiatura del film definendo meglio il contesto e i personaggi di un 2018 futuro che si è lasciato alle spalle la terza guerra mondiale e un confitto tra corporazioni. Proprio queste entità aziendali hanno sostituito le nazioni e ora governano il mondo organizzato in città specializzate.
Houston ad esempio è la città dell’energia e qui dà spettacolo la sua squadra di Rollerball capitanata da Jonathan E, un campione acclamato e pluripremiato. In un certo senso un’anomalia, visto che per prevalere in questo sport fatto di violenza e velocità occorre essere tutto ciò che la società delle corporazioni vieta: un leader.
I presidenti delle corporazioni avvertono subito il pericolo e in più forme a valutare un glorioso ritiro a breve termine. Troppo tardi, in Jonathan E si è risvegliato lo spirito del guerriero, ormai insensibile alle lusinghe drogate degli agi largheggiati dalle corporazioni. La febbre del Rollerball non è più soltanto una scarica di adrenalina su pattini, sfogo animale utile al palinsesto televisivo, ma la brace di una rivolta che cova sotto la perfezione dell’ordine corporativo. La modernità e la serialità degli ambienti, la pulizia e la calma dei modi, i sorrisi stereotipati e i toni pacati, non nascondono le fattezze di un mondo represso, imprigionato in piccoli riti sociali che imbrigliano e cooptano emozioni e sentimenti. Lo spazio per l’uomo è definito in un perimetro ristretto, circolare, e ad un certo punto del percorso gli viene chiesto di uscire di scena.
Lo sguardo del racconto è centrato sul gioco del Rollerball, però oltre la pista scintillante si colgono sprazzi della struttura sociale che lo contiene: gli intrighi per raggiungere le alte sfere decisionali, la fragilità dei rapporti di coppia (partner a tempo), lo scarso valore assegnato alla vita etichettata come “inutile”.
Jonathan E, come un bambino che ha riaperto gli occhi, comincia a chiedersi il perché delle cose e cerca risposte. Eclatante il confronto con il computer custode della storia, un cervellone appariscente quanto imbecille che ripete lezioni registrate. Le corporazioni hanno sigillato e forse distrutto la memoria del passato, perché non possa ispirare la rivolta. Unico spiraglio per la natura umana è il Rollerball. Non c’è ragione, nessun piano, è soltanto istinto, rabbia, puro desiderio di evadere dalla gabbia dorata. Il cerchio verrà spezzato da Jonathan o sarà l’ennesima rivoluzione attorno all’ego umano? Forse per saperlo dovremo attendere Rollerball 2019 😉
Gianlorenzo