Bilal, Naviglio e Fassbinder: la crisi dell'umanità oltre il complesso di frankenstein

“Vedremo come andrà a finire…” Nei discorsi sull’andamento delle grandi cose (guerra, crisi economica, epidemie globali, cambiamento climatico), la frase rappresenta la conclusione più tipica e ricorrente in questi giorni bigi. Gli eventi sono in movimento in questa decade del terzo millennio e la maggioranza bisbigliante avverte d’essere vicina al limite. Una soglia – dicono i bene informati – che segnerà l’avvio di un nuovo ordine (o forse, più propriamente, un nuovo disordine). Naturalmente la curiosità circa l’evento che sta dietro l’angolo resiste da tempo immemore e supera l’ansia e le paure del contingente. Che accadrà dopo? La domanda è quasi connaturata all’approccio dei sapiens alla conoscenza, alla lettura/interpretazione della realtà. Ma senza scomodare religione e medium messianici, volgiamo l’attenzione alla dimensione che più appartiene al Retrofuturismo, ossia la narrativa di anticipazione, detta anche fantascienza.
Cosa attendersi dal futuro è il motore perpetuo del genere fantascientifico e perciò quasi impossibile pensare di riassumere le miriadi di alternative immaginate dagli autori. L’anno prossimo però “scade” uno dei possibili futuri “disegnati” (è il caso di dirlo) da Enki Bilal: infatti inizia nel 2023 la sua Fiera degli Immortali, il fumetto in tre capitoli (la Trilogia di Nikpol si scandisce dal 1980 al 1993) che lo ha reso noto alla platea mondiale.
Il futuro immaginato da Bilal è un crogiuolo di suggestioni cosmopolite, nel quale confluiscono le frontiere più estreme della tecnica tesa a superare i limiti dell’umano e le riflessioni malinconiche sul passato perduto che si riflette in un presente inafferrabile. Uomini e semidei, esseri modificati geneticamente e meccanicamente si confrontano fisicamente e filosoficamente nel tentativo di costruire dei ponti oltre l’orizzonte.
La cronaca di Bilal del marzo 2023 inizia con una strana apparizione nel cielo dell’agglomerato di Parigi, una città-stato retta con pugno di ferro da un regime catto-fascista, che periodicamente si dà qualche verniciata plebiscitaria per meglio misurarsi con il contendente blocco Cecosovietico. L’apparizione corrisponde al “ritorno a casa” di un detenuto in criogenesi, un dissidente spedito in orbita 30 anni prima: Nikpol. Lo choc è enorme: la moglie è morta, apprende di avere un figlio che ormai ha la sua stessa età e si trova a vagare in un mondo incancrenito nei difetti del passato, una sorta di parodia nera, fatta di masse senza più speranza ed élite avvinghiate all’esercizio del potere.
Nikpol è accompagnato da Horus, divinità cardine del pantheon egizio, tornato sulla Terra a bordo di una piramide fluttuante nel cielo parigino (in attesa di fare il pieno per ripartire). Una guida che però ha un costo: Horus è stato bandito dagli altri “colleghi” e rischia di perdere la sua essenza divina. Nikpol pertanto diventa lo strumento di rivalsa del dio e, in forma incidentale, anche la scintilla impazzita di una riforma che sconvolge le stanze del potere e ridà fiato alla rivolta parigina.
Nei seguenti capitoli della trilogia i lettori incontreranno l’enigmatica Jill, bella e disperata, perduto amore e rinnovata follia: una donna protesa in un abbraccio quasi impossibile con la felicità. Insieme a Nikpol e Horus completerà un’odissea che allo stesso tempo si riavvolge nel ricordo e si schiude in freddi refoli di passione sulla pista dell’eterno.
Nelle tavole di Bilal, caratterizzate da un tratto greve e scenari pastellati, ricchi di suggestivi dettagli, prevale il taglio cinematografico. Il colore e i contorni sono volutamente imprecisi per offrire l’impressione di un movimento nella staticità. Bilal ha piena consapevolezza della sua forza stilistica e infatti si è messo dietro la macchina da presa per dirigere cortometraggi e film (tra questi Immortal ad vitam, ispirato all’ultimo capitolo della trilogia, ossia Freddo Equatore).
Inutile dire che la sua rappresentazione del 2023 non somiglia molto a nostro futuro dietro l’angolo. Certo qualche richiamo forte c’è: la polarizzazione delle idee, la frammentazione politica ed economica nella quale le posizioni di potere tendono a perpetuarsi come virus, la inevitabile mescolanza di generi e culture e le altrettanto inevitabili frizioni (conflitti a bassa intensità).
Bilal è nato a Belgrado e lascia l’ex Jugoslavia prima che questa venga infiammata dalla guerra che attraverserà i Balcani negli anni ’90. Ma anche se non vivrà in prima persona le vicende dello sfaldamento del Paese dopo la morte del suo “creatore” Josip Broz Tito nel 1980, la sua visione del futuro è comunque attraversata dalla sensazione di separazione e dalla costante ricerca di un senso comune. A volte Bilal affida alla memoria il valore centrale: nella “retro” visione degli eventi che hanno plasmato il presente può trovarsi il collante di istanze diverse. Però lui stesso ammette che questo filo è molto sottile e, spesso le trame della vita sono tanto intricate da incepparsi in grovigli di letture personali poco inclini a conciliarsi. Il rifugio più saldo, nella sua stessa inconsistenza, per Bilal sembra quello della poesia: l’enunciazione di attimi di infinito, potenti e perfetti, in cui gli esseri finiti possono specchiarsi nell’immortalità.
Forse un pensiero troppo lirico per dare soddisfazione alle nostre inquietudini. Allora facciamo un passo indietro, al 1977, anno di pubblicazione di una recente “scoperta” in pieno spirito retrofuturista. Mi riferisco a “Era oscura” di Louis Navire. Ancora fantascienza all’ombra della tour Eiffel? Nossignore, perché il buon Louis era in realtà un nostrano Luigi Naviglio (nato nel 1936 e dipartito nel 2001), autore di romanzi di svariati generi e fumetti (il famigerato Killing, fotoromanzo fumettato e vietato per l’alto tasso di violenza fu anche opera della sua penna, così come l’erotico Jolanka) ma legato al fascino delle nuove frontiere dello spazio. I suoi libri sono opere ad alto tasso di avventura, con protagonisti ben caratterizzati e diretti con un piglio che salta ogni ristagno per tenere desta l’attenzione del lettore. Forse oggi i suoi romanzi possono apparire un po’ “scritti” (in realtà ben scritti) e scontati nelle dinamiche (per quanto ottimamente oliate), ma il “difetto” sta soltanto nel nostro sguardo saturo di referenze sottotraccia e nei nostri menu farciti di rimandi precotti.
Non significa che Era Oscura sia una opera miliare, un unicum di originalità, il suo pregio maggiore infatti è l’essere figlia del suo tempo. La data di pubblicazione del libro, il 1977, dice molto. In Italia equivale al culmine degli anni di piombo, ai momenti più tesi e violenti della lotta armata contro le istituzioni e le fazioni avverse: odore di polvere da sparo, stridori di guerra civile spezzati dagli slogan di piazza.
Nel libro di Naviglio si percepisce questa atmosfera di sobbollimento sociale che anticipa la rivolta. È un racconto distopico, ambientato in un futuro imprecisato, un mondo che sulle prime pare costruito come un labirinto: ogni cittadino ha sua casella, le sua funzione e i beni e le misure per soddisfare ogni pulsione. La prima impressione – molto vintage – è stata “questa è la risposta italiana a 1984 di George Orwell e Brave new world di Aldous Huxley”. Cammin leggendo, emerge la differenza primaria: Naviglio entra nei dettagli della politica con una voce molto critica. Sam, il suo protagonista narrante, dettaglia con dovizia la geopolitica mondiale e locale, declinata in sfaccettature intrise di imperialismo e opportunismo.
L’America isolazionista si è riservata un continente nel quale coltiva tutti i suoi difetti originari segnati dalla segregazione razziale e religiosa. Il blocco sovietico, un po’ sbiadito, assiste all’arrembaggio degli Stati cinesi e africani decisi a propagare la rivoluzione proletaria e “razziale” del Terzo mondo (l’autore arriva a ipotizzare la nascita di un “nazismo islamico”). In mezzo sta l’Unione europea – sì avete letto bene, una anticipazione azzeccata da Naviglio – una fusione di nazioni nel blocco demopopolare: un sistema democratico in salsa socialista, che lascia ampi spazi alle frange violente degli extra parlamentari come valvola di sfogo.
Naviglio descrive con lo sguardo di Sam (un orfano allevato in un istituto statale) l’articolazione sociale metropolitana, fatta di vertici elitari, colletti bianchi, operai e un terzo stato (in senso Francia 1789) di reietti politicizzati. In più aspetti la società europea manifesta la sua decadenza: chiusa nei suoi riti corrotti, schiava delle comodità e oppressiva attraverso l’applicazione delle tasse e il contrasto alla libera iniziativa, premiante soltanto nelle espressioni di conformismo, dalle arti allo sport. Ogni attività mira al controllo del cittadino attraverso la distrazione: un dispotismo in guanto di velluto.
Naviglio anticipa anche il dibattito attuale sui “generi” intitolando un capitolo “L’impero del terzo sesso”. Nel blocco europeo la libertà di costumi è incoraggiata, anzi è una prerogativa specifica dei vertici dirigenti: non c’è festa senza orgia. E avere un partner dello stesso sesso viene considerato motivo di merito. Più in generale, si descrive un processo di de-generazione: uomini de-mascolinizzati con trucchi, parrucche e gonnellini e donne con abiti che lasciano poco spazio all’immaginazione, fatue ma volitive. In mezzo il cosiddetto “terzo sesso” riconducibile a dei giovani omo/bisessuali che fanno dell’ibrido un modello di successo.
Naturalmente il racconto di Sam lascia trasparire un giudizio morale che connota negativamente queste espressioni della sessualità. Anche se hanno una logica nella tipologia di società che descrive: scardinare la famiglia ed evitare la trasmissione di valori e saperi individuali è un processo necessario per garantire la continuità dei governi demo-popolari. Soprattutto nelle classi ai vertici della piramide sociale, il ruolo di genitori va negato per evitare che le funzioni di potere si trasmettano secondo la linea parentale: il controllo deve restare allo Stato, lo Stato pensa e dispone per tutti.
Ma un sistema simile non può soddisfare ogni palato, così il giovane Sam da premiato scrittore di fiabe erotiche si aggregherà ai giornalisti indipendenti come cronista d’inchiesta e più in là, entrerà a far parte di una rete clandestina che si pone l’obiettivo di rifondare la società su nuovi principi: libertà, auto determinazione, riconoscimento delle attitudini, e delle capacità individuali. Un paradiso anarchico, ma organizzato e meritocratico, costruito nel reciproco rispetto. Certo, di mezzo ci sono delle bombe atomiche, ma… non vi rovino la sorpresa della soluzione di Naviglio per il nostro futuro nuclearizzato.
Se le prospettive filosofiche e poetiche non vi soddisfano e le incognite del mondo multipolare non vi intrigano, perché non tentare la via virtuale? La parola chiave è Simulacron 3, un romanzo di Daniel F. Galouye pubblicato nel 1964 dal quale sono stati tratti due film: il primo, forse meno noto, è un adattamento televisivo intitolato Il mondo sul filo per la regia Reiner Werner Fassbinder (trasmesso nel 1973, e rintracciabile in rete). L’altro, del 1999, è Il tredicesimo piano di Josef Rusnak e prodotto da Roland Emmerich. Se il primo – forse per l’incedere molto lento e circolare – rimane un po’ confinato ai suoi tempi, il secondo fu strangolato dal successo di Matrix, opera sintonizzata sulla stessa rivelazione: la menzogna del reale.
Un concetto che viene da lontano, ben esemplificato nel mito della caverna di Platone, secondo il quale la nostra visione del mondo è falsata da percezioni ingannevoli: siamo avvinti a ceppi in fondo a una cava e valutiamo come realtà in base una sfilata di ombre sulla volta della grotta. Non tutti siamo abbastanza “illuminati” per scorgere oltre il vedibile. Certo qualche sospetto dovrebbe sorgere anche nello spettatore più arrendevole quando la rappresentazione fassbinderiana inscena una discoteca popolata da culturisti neri in shorts, asiatiche in topless e in sottofondo una canzone di Modugno (?!?!).
In Simulacron 3 il concetto di Matrice è affidato a un sofisticato progetto informatico destinato a creare copie ridotte ma estremamente dettagliate del mondo reale. I propositi e le applicazioni sono vaste: intrattenimento, terapia, predizioni sugli andamenti di borsa o dell’industria. Ma i programmatori si accorgono che più la simulazione del reale è accurata più sorgono domande: stiamo creando consapevolezza? Stiamo creando vita intelligente? Questo nuovo mondo può diventare la “terra promessa”?
In effetti, con la prima Terra non è andata molto bene. Simulacron 3 sembra una seconda occasione che riecheggia i nostri esperimenti digitali tipo Second life e il più recente Metaverso: dimensioni aperte alla sperimentazione che possono diventare opportunità sul piano collettivo o personale. Le ricadute del virtuale sul reale possono essere concrete e benefiche: il ”provare per credere” si potrebbe praticare senza timore di fare disastri (anche per mostrare ai cultori del “tutto è possibile” che il lieto fine non è automatico).
La storia di Simulacron 3 (che nel film di Rusnak termina con un lieto fine nell’anno 2024) è meno rassicurante e pone quesiti che vanno oltre le nostre problematiche quotidiane sulle guerre, le risorse, il clima. La simulazione infatti non risolve i nostri quesiti stringenti, ma alza il livello della riflessione: cosa è reale e cosa significa essere vivo? Nella nuova dimensione il termine “artificiale” diventa un termine arbitrario. Guardiamo agli “androidi che sognano pecore elettriche” postulato da Philip K. Dick e ci troviamo a interagire con repliche della vita che hanno emozioni, si relazionano: non è questa vita intelligente?
In uno dei primi racconti di fantascienza della storia, ossia “Frankenstein o il Moderno Prometeo” di Mary Shelley (1818) si esplora proprio la tematica della creazione della vita: lo scienziato ginevrino Victor Frankenstein si tuffa nella pratica scientifica più estrema per scoprire i principi fisiologici alla base dell’esistenza, studia e definisce il metodo per trasformare l’inanimato in tessuto vivente. L’esito disgraziato dell’esperimento è notorio e forse ha segnato negativamente con il dramma un confronto che poteva ambire ad una maggiore apertura mentale.
Tra lo scienziato e la creatura c’è una distanza che si gioca tutta sul “peso” dell’anima: all’hardware biologico assemblato viene negata la qualifica dell’umanità, anche se Frankenstein avverte che la materia vivente che ha creato è senziente e quindi in senso cartesiano pensa, è intelligente. Ma il dialogo con intelligenze “altre” non è mai stato il nostro forte.
Isaac Asimov dava grande importanza alla cibernetica, immaginava che i “cervelli positronici” avrebbero amministrato le faccende umane con tale efficienza da rendere incomprensibili le loro manovre. E questo non tanto per una subdola volontà di predominio, ma per ottenere un successo a lungo termine e impedire all’uomo di mettere lo zampino per fare danni.
Resta da superare il complesso di inferiorità, il timore della perdita del controllo che marchia l’immaginario del futuro dell’umanità, come accade nelle fosche previsioni di Matrix e Terminator (rabbrividevole fonte di paranoia per gli odierni complottisti da pub).
L’era delle macchine “pensanti” forse non è dietro l’angolo, ma l’attuale tecnologia consente di interagire con simulazioni utili ad estendere l’azione umana dove prima sarebbe stato impraticabile. Un’umanità “amplificata” potrebbe muoversi in scenari più incoraggianti rispetto ai panorami involuti prospettati da Bilal e Naviglio. Simulacron 3 e i suoi fratelli che frequentiamo da decenni sotto forma di videogiochi hanno qualcosa da insegnarci, una strada che porta altrove. Anche se questo altrove non sta tra le stelle, bensì dentro di noi.
