Dieci anni senza Lou: tre frammenti dal satellite dell’umore (storto)

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Il poeta, l'hippie e il fan: tre personaggi nella vita di un rock and roll animal

Sono passati 10 anni e forse è il caso di parlarne. Sì, perché se David Bowie ci manca ogni anno di più, come se avessero eliminato una stagione dal calendario. Se Kurt Kobain ha scheggiato il cielo desertico fiammeggiando malinconiche ironie. Se Syd Barrett ha perforato lo spazio e tempo per raggiungere reami di favola dove echeggiano di risate e filastrocche. Se Ian Curtis ha cucito le ombre e lo sconforto per incorniciare kafkiani specchi esistenziali. Se Jim Morrison ci ha donato il calore mistico della poesia nell’ebbrezza estatica.

Ebbene “se” tutto questo, allora cosa ci ha lasciato Lou Reed? Il poeta dei vicoli newyorkesi, l’affabulatore degli incroci delle personalità e dei sessi, il naufrago delle droghe da marciapiede, il nichilista ante punk e il narratore-spina (a doppio senso) nel fianco di ogni sistema uniformante.

Lou Reed se ne è andato nel 2013 in un sospiro, diciamolo, senza particolari clamori. La sua scia biografica abbandonava troppi riverberi taglienti, i lividi dei tanti screzi e urti non avevano ancora cambiato del tutto colore.

Lo scrutatore senza pace

Lou non era una persona facile da “leggere”. Lo si può intuire scorrendo la sua spigolosa biografia, ascoltando le sue interviste tranchant e la maniera in cui rimbeccava il pubblico che mancava di rispetto all’espressione della sua arte. Lou era uno scrutatore attento e anche un sincero emotivo, amava la distanza per osservare ma chiedeva la profondità, voleva guardare il cuore del vero delle cose. Era il lato combattente dell’introversione: non si negava al campo di battaglia ma si incazzava quando tentavano di appiccicargli un’etichetta dritta, una bandierina già colorata, un braccialetto con la serratura, si indispettiva. Forse perché sentiva che la verità che portava in scena non sempre veniva percepita come tale, bensì come la replica di una recita ben studiata

Ma Lou non era la scatola di zuppa Campbell glorificata da Andy Warhol nel suo concetto di arte seriale. No, era l’esatto opposto: ribellione alla convenzione, alla tranquillità, alle false zone di conforto. La realtà è sporca, dolorosa, le persone violente, disturbate: ebbene questo non ci impedisce di cercare la gioia e la dolcezza. Anche gli sconfitti hanno diritto ai loro piccoli sogni di gloria. Lou portava in scena le vite disperate e le esistenze emarginate dei beat e dei freaks con poetica precisione delle sue liriche e il fuoco delle sue performance.

A Lou Reed cantore di trasgressioni non interessava “tutelare” il proprio personaggio pubblico (il privato sì, certo lottava per conservare la sua precaria autonomia), non aveva niente da giustificare perché tutto era detto. E con la massima chiarezza. Da quando aveva abbracciato il codice poetico di sintesi e immediatezza coniato da Delmore Schwartz (suo insegnante) praticava la schiettezza forse a livelli mai sentiti nel panorama rock. Poche parole, pochi accordi, ripetuti, ossessivi, come nel blues più scuro, ma percorsi dall’elettricità fragorosa delle chitarre: un nuovo linguaggio per raccontare il mondo: tutto in tre battute, percussioni e distorsioni.

Una Divina commedia in tre battute

Nel bel libro “Lou Reed: la vita, le poesie inedite, la musica di un protagonista del rock americanoAnna Abate osserva: “Se oggi non esiste più la possibilità di una visione complessiva individuale, allora ben venga anche chi invece di tentare di scrivere una nuova Divina commedia si fa forte di tre battute sempre uguali e, faticosamente, dà vita a brevi storie, a graffiti che descrivano una società che non riesce più a tirare fuori colombe dal cilindro del prestigiatore”.

Viene da sorridere alla precisione di queste parole scritte attorno al 1980 e poi pensare che proprio in tema di magia e dramma nel 1992 usciva l’album Magic and Loss: uno dei dischi del periodo più equilibrato musicalmente di Reed, benché ugualmente lacerato dalla dualità tra l’aspirazione alla trascendenza e l’ineluttabile dolore del vivere.

La convivenza di due istanze divergenti è una buona chiave di lettura per Lou Reed. Non potendo (e non volendo) disquisire di tutti suoi percorsi personali, è interessante costruire un piccolo itinerario marcato dalle “perdite” di alcuni personaggi che hanno rappresentato – o potevano diventarlo – dei punti di svolta.

Partiamo dai Velvet Underground, che nella metà degli anni ’60 sono stati la base di lancio della notorietà di Lou Reed. Il gruppo, crocevia di personalità e caratteri altrimenti inconciliabili (la viola anarchica di John Cale, lo studente di letteratura Sterling Morrison, l’algida musa cinematografica Nico, l’operaia della batteria Maureen Tucker), uniti dall’urgenza del dire ciò che si viveva ma non era detto, di suonare ciò che ancora non era stato ascoltato. La formula Velvet – adottata dall’abile promoter Andy Warhol – è nota: percussioni tribali, riff di chitarre taglienti, incursioni di sonorità bizzarre tra minimalismo e rumorismo che comunque non disdegnava stranianti momenti melodici.

Come accennato, il melting pot musicale, prima di includere la tenera Maureen Tucker ai tamburi, vedeva – sporadicamente, sia detto – all’opera la evanescente figura di Angus MacLise. Quando vi dicono di un hippie in viaggio per Shangri-La con basco e gilet ricamato, ebbene immaginatevi Angus, un uomo fedele ai suoi bonghi piuttosto che a quisquilie come gli orologi e il calendario. Di lui si dice che non si sapeva quando iniziasse (posto che cominciasse) e soprattutto quando avesse intenzione di finire di suonare: questo a prescindere dal resto del gruppo.

Uno spirito libero questo percussionista dalle fascinazioni orientaleggianti, perito di bonghi, cimbali ed esotiche tablas. Un figlio dei fiori in piena regola, ma soprattutto un credente: credeva che la musica fosse la chiave per raggiungere le alte sfere della conoscenza, un ponte di comunicazione oltre le falsità della realtà terrena e una potente arma per sbugiardare il Sistema.

Sogni a mano armata

MacLise spazia dal misticismo tibetano all’improvvisazione musicale attraverso varie tecniche di registrazione per veicolare un messaggio di arte e verità, che si propone disarticolato e confusionario proprio per sfuggire agli schemi ed evitare le trappole dell’uniformità. Sarà stato anche un figlio dei fiori, ma la flora che trattava aveva radici piuttosto rivoluzionarie. Una delle sue creazioni si intitola appunto Dreamweapon, l’arma-sogno (che è anche il titolo di una mostra retrospettiva del 2011).

MacLise lascia il contesto terreno nel 1978, a Kathmandu, tappa culminante di un lungo abuso di sostanze e disinteresse per “l’abito corporeo”. Ma lascia anche una grande quantita di materiale sparso e inedito, collaborazioni con il tecno-poeta Brion Gysin e non poche leggende: un itinerario esistenziale che è quasi un flusso di (in)coscienza e rispecchia l’evoluzione delle controculture dall’attivismo politico degli anni ’60 al riflusso artistico-filosofico nel corso degli anni ’70. MacLIse scompare alla vigilia del decennio che segnerà la reintegrazione del movimento del dissenso: un mondo inospitale e incompatibile per bonghisti incalliti, buddisti convinti e studiosi delle alchimie sulfuree di Aleister Crowley.

Ora, MacLise è citato tra i fondatori dei Velvet Underground ma non risulta in alcuna registrazione: per qualche combinazione del caso le sue performance nel gruppo non sembra siano state testimoniate. Il che è curioso visto che proprio alcune canzoni sembra abbiano attinto parecchio dal suo stile ipnotico, da percussore continuo (diverso dal battito tribale della Tucker). Ma è chiaro che i Velvet erano il punto focale di istanze solo momentaneamente sovrapponibili. Lo dimostra la motivazione del brusco “divorzio” di MacLise: gli dissero che per la loro esibizione live nel 1965 sarebbero stati pagati! Soldi? Sterco del diavolo! Veleno del Sistema! Ai suoi occhi l’arte era un valore troppo alto per essere mercificato. Se ne andò (salvo tornare a dare man forte ai soci per una breve parentesi a causa di una malattia di Reed) e voltò pagina, incamminandosi per altre strade.

Una separazione che magari oggi, nella nostra realtà prezzata e prezzolata, ci pare assurda. Eppure ai tempi era un’espressione di coerenza e integrità, per quanto economicamente castrante. Ma era la schiavitù del capitale ad impaurire MacLise e i suoi sodali piuttosto che la prospettiva di una vita di avventurose (a volte anche dolorose) incertezze.

Difficile dire se Reed, sentimentale ma con i piedi ben piantati nella realtà fatta di carne e ossa… spezzate, sia stato colpito dalle scelte radicali di MacLise. Probabilmente no. Eppure in questo no si trova una direzione precisa per la sua arte. Se la misura del consenso è il denaro, allora ben venga il compenso. La lezione dell’etereo ma venale Warhol è assimilata. Così come quella del controllo artistico, la direzione della propria creatività.

Nelle fauci del camaleonte

Quando il progetto Velvet si sfalda Lou Reed annaspa (per un certo periodo tornerà dai suoi e lavorerà come impiegato): ha una certa notorietà da mettere a frutto, idee e voglia di raccontare. Però… però gli manca la voce. Il suo primo album solista arriva nel 1972 e porta il suo stesso nome, è un’operazione notevole: canzoni solide, evocative del suo mondo di reietti e innocenti violati, un ponte tra le atmosfere alienate degli Underground e la main street del rock and roll. Lo accompagnano musicisti di pieno talento, però se lo si ascolta con cognizione di causa è un album “sottovoce”. Lou Reed non sembra avere la forza di un autore che canta.

Paradossalmente questo patentino lo acquisirà con l’aiuto di un socio maestro di camaleontismo: David Bowie (insieme agli arrangiamenti del glam master Mick Ronson) allestirà per lui una scenografia apposita, un vaudeville di lustrini e chiffon che non ripudiano i jeans e le giacche di pelle. Insomma, tutto l’armamentario dei bassifondi messo in scena nel suo splendore di ambigua decadenza. In una parola Transformer. Un disco che imperla hit orecchiabili senza rinunciare alla scabrosità dei personaggi, alle situazioni stralunate e a tutta la sua liricità urbana di doppi sensi e ammiccamenti.

Da quel capitolo epocale Lou Reed ritrova confidenza nel rock. Ciò che lo “tradisce” è la frequentazione di sostanze che vorrebbero compensare i suoi sbalzi d’umore, i pensieri paranoici. Sì il successo c’è, si dice, ma quanto è merito mio? La collaborazione con Bowie è dissestata e ombrosa, fino a una interruzione piuttosto brusca. Reed, pur incespicando, vuole dimostrare di poter camminare con le sue gambe.

Ebbene il suo passo successivo è la messa in scena dell’autodistruzione: il concept album Berlin è un dramma, nel senso classico, che include droghe, violenza domestica e un generale abbruttimento che annichilisce a poco a poco l’amore fino al buio della morte. Musicalmente è sontuoso, le composizioni generalmente sono vestite da sonorità che cinematiche, si assiste davvero alle scene che descrive, crudezze e sofferenze incluse. Un trionfo barocco del mal di vivere. Direi che è la ricetta perfetta per conquistare la top ten, no?

Il fatto che non piaccia non significa che Berlin sia un disastro. Oggi è un classico ampiamente rivalutato, anzi di piena attualità. Reed comunque è abituato a rialzarsi dopo rovinose cadute e con Sally cant’ dance riesce a rimontare in sella. Ed attraversare gli anni ’70 facendosi menestrello di un rock chitarristico, fresco e ben ritmato; artefice di coloriti ritratti, schegge di quotidiana follia e briciole di saggezza da strada incartate in rime facili da ricordare.

L’invasione delle videostars  

Arriviamo, tra alti e bassi (Reed non capitalizza: nel 1975 pubblica un doppio album strumentale Metal machine music che è una sfida all’ascolto e un flop di vendite), alle soglie degli anni ’80 e come ogni buon artista Lou Reed intuisce che il vento sta cambiando. Se il punk ha spezzato le forme, l’elettronica le ha aperto varchi sonori per modellare nuovi paesaggi. La musica si riversa nel tubo catodico, le canzoni si ammantano di immagini: è l’età dei videoclip.

Stupire il pubblico con effetti speciali? Non può certo bastare ad un poeta del rock. Reed cerca di innovare continuamente il suo sound con idee e soprattutto con persone. Entrano nella sua cerchia un bassista favoloso Fernando Saunders e un chitarrista sopraffino: Robert Quine.

Quine era un fan di lunga data dei Velvet Underground, aveva anche registrato dei loro concerti che sono stati pubblicati come rara testimonianza di performance non ufficiale. Imbracciata la chitarra, il giovane avvocato mancato si mise in luce nella scena punk tra Richard Hell e Tom Verlaine proponendo uno stile rumorista molto accelerato. Lou ne rimase affascinato e incorporò il suo sound in uno degli album più acclamati della sua carriera: Blue Mask.

Ascoltandolo si nota subito un impasto particolare. Il problema di dove collocare la voce – non molto espressiva, diciamolo – di Lou viene risolto da Quine con un brillante assortimento di nervosi arabeschi chitarristici che “dialogano”. Sì, il cantato ha la sua chitarra come contrappunto, finché non sfocia in duetti a sei corde con Lou. La sonorità è compatta senza perdere tutto il rumorismo che è segno distintivo dell’anima dell’autore.

L’importanza di Blue Mask è segnata anche da una dichiarazione d’affetto profondo per Delmore Schwartz, insegnante di letteratura ma soprattutto una delle voci più promettenti della poesia americana negli anni ’30 e ’40 del novecento. Una promessa non mantenuta, perché minata dalla malattia e dalle dipendenze. Il giovane Reed però apprese e mise in pratica la sua lezione nelle liriche: sincerità e semplicità. Minimalismo? No, perché non servono grandi parole, frasi ad effetto per dire cose profonde. 

Nella canzone My house, Lou ricorda Schwartz morto nel 1966 in una sorta di auto reclusione mentre il suo allievo affrontava il palcoscenico con i Velvet. E per questo si rammarica di non aver potuto partecipare all’ultimo saluto del “primo grande uomo mai incontrato”. Ma una sera in casa giocando con l’Ouija board ecco che spunta fuori il nome di Delmore e Lou si dice felice di avere i suoi contorcimenti, la moto, una moglie e, al top, anche uno spirito di pura poesia che abita la sua casa di pietra e legno.

Una pugnalata nell’orecchio

Blue Mask riceve i plausi della critica, ma Lou può dirsi soddisfatto? C’è poi il tarlo di Quine: le sue soluzioni alla chitarra ricevono parecchi apprezzamenti, più di quanti possa tollerarne il boss. Così mentre è nelle fasi finali di lavorazione il nuovo album Legendary Hearts, ecco il colpo di mano. Sarà stato per un attacco di invidia oppure perché avvertiva che il sound elettrico non si accordava a quanto “girava” intorno (siamo nel 1983 e la new wave di sintetizzatori e bassi rotondi), ecco che Lou fa il brutto gesto di “abbassare” la chitarra di Quine nel missaggio. Praticamente sembra suonare da un ripostiglio accanto allo studio di registrazione.

Risultato: Quine giustamente si incazza. L’idillio si rompe. Anche se il chitarrista lo accompagna in tour e lascia la sua traccia in un paio di memorabili performance: Live in Italy e A night with Lou. Proprio in quest’ultimo concerto, nel finale, si legge nella mimica di Reed un leggero imbarazzo nei confronti di Quine. E anche se nella sua filosofia ci sono il “lasciare senza rimpianti e il ricordare senza nostalgia”, non si può non avvertire un’aura di dolore nella scena.

Quine morirà nel 2004 in modo tragico e triste, forse inseguendo l’amore perduto della consorte. Il suo talento però è ufficialmente riconosciuto e pur non trovando un contesto stabile in cui esprimersi, il suo cammino nella musica è stato costellato da collaborazioni di primo livello (John Zorn, Tom Waits, Brian Eno e Lloyd Cole) e altre da riscoprire assolutamente (Painted desert del 1997 con Ikue Mori e Marc Ribot è un ambient di delicata fattura che consiglio).

Discese ardite e risalite

La personalità di Lou Reed, in questo mini percorso biografico, ritagliata fra rinunce e abbandoni e meno impassibile rispetto all’icona del rocker corazzato nel suo giubbotto di pelle nera e rayban. Da ragazzo era stato sottoposto all’elettrochoc: una misura drastica per riequilibrare i suoi “disequilibri” comportamentali. Poi le droghe lo hanno accalappiato e ci ha lottato per decenni. Se davvero vogliamo, allora possiamo dire che ha cercato – come tanti – di trovare l’equilibrio ma non appena ci arrivava lo cacciava via. Quella conquista era associata al dolore, alla rinuncia della sua natura. Intrappolato in questo circolo viziato, Reed non dava l’idea di una persona appagata quanto di un uomo che si distanzia per tenere a bada la fiamma del dolore. Nell’ultimo scampolo di vita, con l’amore per Laurie Anderson e il tai chi, sembra avesse raggiunto la misura ideale tra sé e il mondo. Ma chi davvero può dire che invece non sia semplicemente una conquista dell’età?

Giornalista (fortunatamente) mancato, residente delle metropoli oscure, poeta della schiettezza, interprete delle nevrosi moderne, Lou Reed è stato tutto questo e ancora di più. Pertanto a 10 anni dalla partenza è un piacere tornare ad ascoltarlo per tributare un omaggio al nostro Satellite of love.

Pablo Miguel

Gianlorenzo Barollo

È un alter ego professionale attratto dall’amatorialità e gran cultore del perseverare nell’errore che ci fa umani. Per pochi ma belli è noto come autore del bestial seller “I pensierini di Mosè” e di “Triscaidecafobia”.

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