
Ready player one. Vogliamo parlarne? Gli spunti davvero non mancano. E a seconda di come si comincia si può ottenere un esito differente, come la soluzione di un cubo di Rubik (non di Zemeckis, occhio) però difficilmente uniforme. Io credo che questo film sia una buona prova di intrattenimento e il marchio di Steven Spielberg ne è garanzia. Se si dovesse catalogare però, più che alla voce “avventura” o “fantascienza” lo piazzerei come esempio lampante del grande filone della cinematografia di saturazione. Una maniera di fare cinema che sfrutta al massimo le possibilità tecniche per offrire il massimo impatto sul nostro organo di percezione principe: l’occhio. C’è un momento nella storia in cui l’antagonista espone il suo piano per vendere spazi pubblicitari nell’80% del campo visivo (senza causare crisi epilettiche, per carità). Ebbene in Rpo non si va molto lontano. Sono tanti e tali i particolari da sbirciare ed esaminare che lo sguardo va in affanno. Una visione davvero non basta per apprezzare il maniacale mosaico di citazioni. Volendo può diventare un bell’esercizio di memoria, un gioco di società. Come i ben informati sanno, Rpo è tratto dall’omonimo libro di Ernest Cline, nerd autentico e sincero, uno che non si capacita dell’estinzione delle meraviglie dell’età d’oro della prima giovinezza. Un sentimento comune a molti ex giovani che si traduce nel collezionismo, nell’associazionismo, negli acquisti compulsivi, nella creazione di circoli e piccoli santuari domestici di memorabilia. Ernest ha ideato un luogo della fantasia nel quale infilare senza limiti di spazio e soldi tutto quanto ha segnato l’immaginario delle generazioni cresciute negli anni ‘70 e ‘80. Musica, personaggi, storie del cinema, tutto condensato – anzi amplificato – e mescolato in un mondo virtuale accessibile a tutti (il punto non è chiarissimo) nella rete. E ha fatto di questo sogno il libro “Ready player one”, appunto. Spielberg, che si è contrassegnato come cineasta della memoria (nelle sue opere indubbiamente i ricordi vincono sulla fantasia), non poteva non cogliere la ghiotta occasione per inscenare una storia che abbina il futuro e il passato. Un passato che gli è familiare e al quale ritorna volentieri – pensiamo a Super8 (una sorta di precursore di Stranger thing?) – e che conosce bene perché è in quegli anni che ha costruito la sua fama (Duel, lo Squalo, E. T. Indiana Jones ecc). Rpo è quindi il punto di incontro ideale tra una generazione americana che, uscita dal dopoguerra, ha vissuto l’apertura dei modelli di consumo e di costume e quella internazionale che è cresciuta nella prima globalizzazione mediatica fatta di musica rock, cinema spettacolare e, ovviamente, l’intrattenimento casalingo declinato nella televisione e nei videogame. L’intesa ideale tra Spielberg e Cline è evidente quanto quella tra un creatore di sogni e un sognatore. Ma, a mio avviso, la traduzione del progetto Rpo in termini cinematografici non è stata liscia e indolore. I lettori del libro sanno che non è stato trasposto fedelmente – e ci mancherebbe, nessun reato di lesa maestà, media diversi usano linguaggi diversi – però nella trama si riscontrano alcuni strappi, altri svolazzi che fanno intendere un lavoro di scrittura faticoso.
E se Cline è stato affiancato nella sceneggiatura un motivo c’è. Per recuperare gli equilibri, ad ogni modo, gli hanno affidato un ruolo di co-produttore, ossia: facciamo un frullato del tuo scritto, ma ti diamo la possibilità di alzare la paletta rossa. Detto questo, per quanto ho capito di Cline, non è certo un “duro e puro”. Il suo fine ultimo è parlare a tutti e per fare questo sarà stato ben disposto ad accettare il buon consiglio dei “creatori di sogni” professionisti. Eccoci così al film che il nostro presidente ha lapidariamente etichettato come “fast & furious & videogames”. Sintesi estrema e non lontana dal vero, poiché la sostanza di questa disfida è una corsa per il possesso di Oasis. Il nome dice tutto: questo universo virtuale è una autentica Oasi nel deserto del reale degli anni duemila e passa, un mondo fatto di degrado, povertà, lotta per la sopravvivenza e sopraffazione. Un mondo che fa schifo e nessuno vuole guardare in faccia, tantomeno gli autori della storia visto che viene centellinato a dovere. Certo, la decadenza futuribile degli Usa è già stata raccontata, specie dagli autori del primo cyberpunk, ma in Rpo hai l’impressione che la situazione abbia raggiunto una sorta di equilibrio nel degrado che fa ancora più paura (forse perché somiglia tanto ai giorni nostri). La rassegnazione è il colore di fondo nelle sequenze di presentazione della favela americana abitata dal protagonista Wade Watts/Parzival. Lui stesso ne è intriso, anche perché come a tutti non gli importa molto del posto in cui è costretto a vivere. Wade – e altri milioni di persone – ha una forma di compensazione, un luogo dove il proprio ego può prosperare senza troppe costrizioni, un luogo brillante e denso di occasioni: Oasis. Questa ultima Thule di speranze però è assediata dai colonizzatori della mercificazione estrema. E qui fa un po’ sorridere: tutti i simboli citati nel film, per quanto belli e frutto di creatività sono figli del connubio tra commercio e marketing. Ma in questo non c’è netta contraddizione perché Oasis è il sogno di un solo uomo: Halliday, geniaccio del computer e nerd incallito ante litteram. Lui ama alla follia tutta la paccottiglia di plastica e panzane che rende la vita meno amara. Potrebbe sembrare un babbo natale nel suo dono di un mondo intero di ciocco-quisquilie ai willie wonka del deficitario pianeta Terra, invece dietro l’aria da buon sfigato ha un che di luciferino. Infatti il suo protoautismo esistenziale gli fa concepire un luogo perfetto, senza vero contatto fisico, ma con impensabili varietà di interazione. Nel regno dei desideri il timido può diventare leone e l’ambizioso fare la figura del cogl…. Oasis in definitiva è la soluzione personale di Halliday all’incapacità di comunicare i propri sentimenti agli altri. Un rimedio innaturale e tecnologicamente rivoluzionario che però sembra costruito apposta per placare le nevrosi di una popolazione mondiale sotto stress e bisognosa di un rifugio (mentale prima ancora che fisico). Halliday avverte che il cuore di Oasis è cavo, ma non può farci nulla. Soltanto quando scompare e mette in gioco tutta la baracca si apre la possibilità di riscatto. Infatti l’idea vincente della squadra e della condivisione sono dentro Oasis, è la rivincita della Comune che i giovani del ‘48 e gli hippie degli anni ‘60 hanno perduto.
Perciò la fuga dal mondo reale, può trasformarsi in una fuga per la vittoria quando viene messo in palio il destino dell’ultima oasi di libertà. Applausi, bel messaggio, per quanto non originalissimo: l’unione fa la forza. Alla fine sarà Wade/Parzival ad estrarre la spada nella roccia, pardon l’uovo di pasqua che governa Oasis, ma il risultato è opera della squadra e di tanti believers-fedeli che hanno dato credito alla sua causa. Ma tra i tanti, milioni, di Oasiani allora perché proprio lui? Perché è il Neo di turno? La risposta sta tra le righe – come molte cose in questo racconto – della sua biografia: Wade di fatto è nato dentro Oasis, non ha avuto una famiglia, è stato quel mondo virtuale a concedergli opportunità che la vita reale non gli avrebbe dato. Bè, in questo ritratto c’è un riflesso di Ernest Cline, e di tutti gli ex bambini a piede libero per il globo cresciuti a suon di fumetti, rock e space invaders. Legioni di “anta” con famiglia e cicatrici varie che si emozionano alla vista di un PacMan, sentendo il fruscio vibrato di una spada laser o il saluto “nano nano” etc. I ragazzini del film che hanno raccolto la sfida di Anorak sono quelli intangibili che portiamo dentro di noi, nei nostri corpi da Peter Pan invecchiati. In tal senso Rpo è soprattutto un bel gioco di specchi, che vale molto per alcune generazioni ed è un po’ sbiadito per altre più recenti (anche se non sono mancate le strizzatine d’occhio anacronistiche come i gesti alla dragon ball, i pastiche di zombie, gli halo team, et cetera). Lo stesso Spielberg avrà visto qualche frammento di sé nel canuto Halliday, creatore di illusioni per le masse mai soddisfatto. Concludendo, Rpo – forse per rammentare che troppo gioco fa male – si fa carico anche di una certa “satisfaction” da fidanzati che include la rivalutazione del reale svalutato. Forse qui sta il vero tallone d’Achille del racconto: perché riequilibrare il rapporto tra Oasis e la quotidianità significa disinnescare la carica rivoluzionaria del messaggio anti sistema. Ciò che è stato costruito in quel terreno digitale con l’aiuto di tanti ha dato un risultato prezioso. Certo in cima alla classifica c’è posto per un nome solo, ma come ogni giocatore sa, per fare risultato occorrono tentativi ed esempi. Oasis dovrebbe diventare un modello per scardinare lo status quo, invece Rpo sembra dirci: è stato un gran bel gioco, ora abbiamo vinto ed è giusto smettere. Ma voi scambiereste un vostro sogno di gioco con un’illusione di quiete?
Gianlorenzo