Da Tekkaman ai Soprano: lo choc dei racconti senza finale

Un omino dal grande naso espressivo, rappresentato da una singola linea bianca, cammina su uno sfondo piatto e uniforme. All’improvviso la retta sulla quale si sposta si interrompe. Perplesso, l’omino si rivolge al disegnatore – buca la quarta parete, o forse la terza dato che si muove nelle due dimensioni – e rumorosamente gli chiede conto della mancanza.
Molti avranno riconosciuto la descrizione: la Linea di Osvaldo Cavandoli, nata nel 1969, ha fatto storia, spendendosi con ironia e trovate surreali per vari progetti: dalla pubblicità della pentole ai cartoni animati a scopo educativo. Con il suo fare da spaccone, lo sberleffo facile e il carattere irascibile, la Linea – magistralmente interpretata da Carlo Bonomi con un mix di dialetto meneghino e universali onomatopee – incarna il cammino incessante del racconto: ogni incidente di percorso genera una storia. E molte di queste storie iniziano quando la linea tracciata sullo schermo si interrompe.
Sembra una affermazione contraddittoria, ma tra i tanti finali categorizzati nell’arte del narrare, esiste anche il finale sospeso, la trama interrotta. Una scelta rara, coraggiosa, che trova il suo senso nell’opera stessa. Perciò per “compiere” l’incompiuto occorre una grande forza d’autore, nella scrittura, nella direzione del progetto artistico.
Nel 1957 Piero Manzoni inizia a definire il concerto di Achromes, i quadri senza colore, quadri vuoti eppure densi di significato. Il significato di una “superficie liberata”, di “uno spazio totale, di una luce pura e assoluta”.
Manzoni affida allo sguardo dello spettatore il compito di “creare” l’opera amplificando le potenzialità espressive della tela. Anche qui si sfonda la quarta parete, aprendo un ponte tra artista e pubblico che sancisce un concreto passaggio del testimone.
Troppo concettuale?
Un uomo cammina per le strade di Londra arroventare da una anomala ondata di calore. È un cronista a piede libero, narratore esclusivo di quello che potrebbe diventare l’ultimo giorno dell’umanità. Si tratta di “E la Terra prese fuoco” di Val Guest, uscito nel 1961: un film che narra una catastrofe planetaria innescata dagli esperimenti con bombe atomiche. Sono gli anni della guerra fredda e la storia, nella sua ambientazione, è di stretta attualità. L’anno seguente il confronto tra il blocco occidentale e quello sovietico raggiunse il culmine nella notoria “crisi dei missili” a Cuba.
“E la Terra prese fuoco” contiene un messaggio per niente velato ai potenti del mondo, affinché evitino colpi di testa e di mano nelle “stanze dei bottoni”. Il risultato di un confronto nucleare non porterebbe nessuna vittoria, ma soltanto lo strazio per i sopravvissuti. Pertanto il finale “aperto”, sospeso sugli esiti di un conto alla rovescia, offre il tempo per una riflessione che è un esplicito appello al buonsenso, alla saggezza di chi può evitare un tuffo nel pozzo dell’autodistruzione. Il passaggio incompiuto in tal senso ha un obiettivo etico e politico.
La carica ideale però assume valenze diverse negli anni ‘70, culla di tante narrazioni apocalittiche e scenari distopici a tinte fosche. Riusciranno a convivere pacificamente gli uomini e i primati intelligenti nel Pianeta delle scimmie? Il sacrificio di Yul Brinner ne Gli avventurieri del pianeta Terra sarà l’inizio di una rinascita della civiltà? Dove porterà la rivolta contro le corporazioni innescata da Jonathan/James Caan in Rollerball?
Le risposte viaggiano nella fantasia del singolo spettatore, si forgiano nel suo stato d’animo e nelle sue personali convinzioni sulla natura dell’uomo e sulla società.
A volte però il finale sospeso non è voluto, è piuttosto il risultato di eventi imprevisti. Come spiegare ai ragazzini che la ventiseiesima puntata di Tekkaman, cavaliere dello spazio, non era l’episodio conclusivo programmato dagli autori? Nella puntata l’eroe si spende fino all’ultima stilla di energia per difendere la Terra e proteggere la prima spedizione interstellare, il viaggio che – forse – darà una nuova casa all’umanità. L’interruzione brusca non è in realtà un potente finale aperto che scuote emotivamente.
Purtroppo si tratta di una chiusura alla meno peggio, dettata da un calo di ascolti che non giustifica i costi di produzione: ecco che Tekkaman, articolato in 50 e passa puntate, deve chiudere i battenti anzitempo, con un colpo di serranda che lasciò i giovani aficionados con un pugno di quesiti e qualche vaga ipotesi.
Fuori dagli incidenti dovuti alla carenza di risorse o alla dipartita degli autori, i “puntini di sospensione” nel finale di un’opera possono scaturire dal desiderio di provocare, aprire il dibattito stimolando riflessioni, stuzzicando convinzioni e convenzioni. Il regista John Carpenter ama praticare questa forma di “adesso andate avanti voi…”. Considerate i finali di The thing – La Cosa o They live – Essi vivono, il primo si stempera in una veglia mortale, il secondo deflagra in un liberatorio conflitto.
Chiudere un racconto senza concludere la parabola narrativa è una scelta che rivela una estrema fiducia da parte dell’autore: questo infatti si rimette pienamente alle attenzioni del pubblico, facendolo partecipe dell’evoluzione del racconto dall’istante in cui si tace.
L’esempio più clamoroso ed efficace degli ultimi decenni è la conclusione della serie televisiva I Soprano. Ambientato nel mondo della mafia nel New Jersey, il racconto si snoda in sei stagioni realizzando un affresco vivido delle miserie e delle perversità di una grande famiglia stretta nelle logiche contorte del crimine e dei suoi consequenziali misfatti. Come concepire un finale soddisfacente per uno show che ha illustrato con tanto dettaglio gli aspetti quasi patologici dell’imprenditoria mafiosa?
Dave Chase, ideatore della serie, propone un finale choc: il boss e i suoi familiari si ritrovano in un ristorante, probabilmente per discutere come “uscire di scena” entrando nel programma di protezione dei testimoni. Sembra una quieta riunione come tante altre: clienti che entrano ed escono, padre, madre e figlio consultano il menu in attesa della figlia. Poi il nero. Lo schermo non mostra nulla. Anche la musica sparisce. Qualche secondo lunghissimo. Il tempo di domandarsi se c’era un guasto o la trasmissione era saltata per motivo ignoto. Ma ecco comparire i titoli di coda.
Il finale dei Soprano non c’è. O meglio è un taglio nel nero di una storia che si interrompe. La continuazione è assegnata totalmente all’immaginazione degli spettatori: l’omicidio del boss? Una strage di famiglia? Una sparizione che indica un cambio di vita radicale?
In definitiva Chase sembra suggerire che la parabola narrativa di Tony Soprano sia uscita dallo schermo, sia andata oltre le telecamere che l’hanno seguito nelle sue alterne fortune per 86 episodi. In quella frazione culminante lasciata incompiuta si completa in realtà un percorso a spirale, un cammino della narrazione che non va verso l’esterno per espandersi all’infinito e magari disperdersi. No, in quel vuoto nero si raggiunge il cuore oscuro della storia, un capolinea impenetrabile, oltre la dimensione del comunicabile perché il racconto è ormai fuori fuoco, oltre i riflettori della materia narrabile. E pertanto la rassicurante etichetta “The end” – o se volete, “game over” – diventa superflua. La storia in-finita dell’umano raccontare somiglia proprio alla Linea citata all’inizio, un filo sospeso che a volte si deve interrompere per esprimere il suo pieno significato.
Gianlorenzo Barollo
