False percezioni della gamificazione dell'esistenza, ovvero la profezia di Forster

Pur con tutti i google maps e i navigatori dalle voci preregistrate è davvero facile trovarsi disorientati sulla spiaggia del terzo millennio. Niente di nuovo dall’età moderna ad oggi, forse. Ma non va trascurata l’entrata in scena di un nuovo attore che ha rapidamente assunto forme e funzioni insostituibili per la nostra vita quotidiana. Sono stati chiamati calcolatori, poi computer e oggi siamo alla cosiddetta intelligenza artificiale. Un confronto prefigurato dalla narrativa fantascientifica, declinato in varianti che oscillano dalla tecnologia che amplia le facoltà umane a quella della totale subordinazione alla macchina.
Una pietra miliare in questo discorso evolutivo resta “2001 – odissea nello spazio” (1968) di Stanley Kubrick: a distanza di oltre mezzo secolo l’affascinante visione del futuro incanta e inquieta. L’alba della storia rappresentata da Kubrick ha il suo punto di svolta in una interferenza (la comparsa del misterioso monolite nda), una presenza esterna che scardina l’animale dal contesto naturale e lo proietta verso orizzonti infiniti. Un’odissea che comporta delle crisi e la ricerca di un nuovo equilibrio. Interessante nella trama a più livelli, seguire il tracciato dei conflitti, che partono dalle preistoriche divisioni tribali (gli ominidi che si contendono la pozza d’acqua), approdano al contemporaneo tecnologico (la guerra fredda tra blocco occidentale e blocco sovietico) e sfociano in un inedito confronto. L’uomo si ritrova ad affrontare la sfida con Hal, l’intelletto artificiale. Il “calcolatore” della serie 9000 prima assiste, in qualità di nocchiero e ciurma della missione verso Giove, poi adopera per sostituire l’equipaggio. Non si tratta di malvagità o pulsioni violente, il tarlo del conflitto è innescato dall’uomo: è un difetto di programmazione.
L’unica strada per uscire dal circolo vizioso sta nel punto di svolta: il monolite, la porta per una nuova dimensione. Quello è l’accesso ad un “salto di livello”, un salto che – stando al linguaggio delle immagini – consiste in una rifondazione dell’uomo in una ulteriore fase evolutiva della specie: il bambino delle stelle.
Scienza, poesia, arte visiva: il film di Kubrick condensa concetti filosofici in un racconto di rara perfezione ed efficacia nella consegna del messaggio. Un racconto di tale portata sulla parabola umana presuppone una grande capacità di lettura e sintesi del mondo e dell’uomo che lo anima.
Nell’arte e nella filosofia i tentativi di riflettere sulle conseguenze dell’informatica evoluta non mancano. E anche se non sempre vanno a segno, hanno il pregio di alimentare un dibattito indispensabile per essere consapevoli del cambiamento epocale in atto.
Nel 2018 pre pandemico Alessandro Baricco – scrittore, affabulatore, fondatore di scuola di scrittura Holden – dava alle stampe un testo che non si può non definire “ambizioso”: “The game”. La tesi era evidente fin dal titolo: la nostra civiltà è mutata, ha assunto una nuova forma grazie alla rivoluzione digitale. La velocità di comunicazione e la disponibilità di informazioni stanno plasmando le nostre relazioni e il nostro approccio al mondo. Le parole che definiscono la rivoluzione in corso sono ormai entrate nel lessico quotidiano: smart, touch, social. E si riferiscono alla semplicità di accesso alle notizie, alla capacità di maneggiare dati e di connettere persone distanti per geografia e cultura. La semplificazione di tanti passaggi che nel secolo scorso sembravano imprescindibili conduce alla ridefinizione della nostra civilità nel Game.
Baricco cita a più riprese l’arcade Space invaders come la pietra miliare di un futuro in dispiegamento: il mitico tiro a segno elettronico per sgominare i marziani diventa il paradigma del futuribile, osservatorio sperimentale su una dimensione ultra reale.
Leve, pulsanti e schermi. Casse di circuiti stampati, video e microchip. Non sarebbero semplici componenti, ma “estensioni” dell’azione dell’essere umano sul mondo.
E come avviene tutto ciò? Attraverso il gioco: la tecnologia giocosa ci ha conquistati e invasi, proprio come gli alieni di Space Invaders. Una colonizzazione interiore – che sarebbe certo piaciuta a J. G. Ballard – capace di modificare il nostro rapporto con il tempo e lo spazio: le azioni e le reazioni sono più rapide, le distanze si sono accorciate, il globo si è ristretto. Tanto che i problemi di pochi governanti, sono oggi il dilemma di tutti: cambiamento climatico, conflitti sociali, guerre regionali, sfruttamento delle risorse. Nessuno può tirarsi fuori, inutile ficcare la testa sotto la sabbia.
Baricco individua anche i caratteri degli uomini che hanno costruito il futuro-presente: sono outsiders, programmatori e ingegneri, visionari imprenditori/inventori che dall’età d’oro dell’informatica e alle frontiere della telefonia per tutti, hanno saltato gli steccati della politica e dell’ideologia, hanno scommesso su mercati che non esistevano, a volte ignorando anche i limiti della tecnica, per inseguire un’ispirazione. Il più delle volte per denari, altre volte grattando il soffitto dell’impossibile per vedere l’effetto che fa.
Il risultato delle loro intuizioni, a suo avviso, è la costruzione della dimensione nuova del Game, che aggrega e scinde gruppi sociali secondo categorie mutevoli ma dagli obiettivi chiari, il desiderio è il loro motore. I residenti di piena cittadinanza del Game sono i millennials: giovani non gravati da sovrastrutture, da zavorre morali e sapienziali. Sì, avete capito bene, la conoscenza non è un valore centrale nel Game di Baricco, bensì l’adattabilità, il muoversi con disinvoltura tra applicazioni e opportunità. Chi non è attrezzato alla mutevolezza degli scenari del Game è destinato a soccombere, come i dinosauri antidiluviani.
Immaginatevi il buon vecchio cannoncino di Space invaders spostato in un altro contesto che supera il suo limitato raggio d’azione sinistra-destra e viceversa. Ecco un tale mezzo sarebbe inutile in un gioco diverso come Gyruss in cui l’astronave circola di 360 gradi per spazzare via i nemici. Il Game detta regole nuove e non offre passaporti a tutti.
Tecnicamente Baricco ha ragione, la fluidità nell’assorbire nuove funzioni offerte dal mondo digitale è la condizione di base per “abitare” il Game. Eppure…
Eppure questo Game non è proprio inedito nei suoi caratteri fondamentali. Si trascina pregi e difetti di altre rivoluzioni, che hanno marcato stadi fondamentali nel progresso della civiltà umana. La stampa fu mezzo formidabile di divulgazione della conoscenza, aprì la via a nuove professioni e soprattutto alla circolazione di idee e saperi in grado di modificare pesantemente l’ordine del mondo. Il passaggio dal Medioevo al Rinascimento balza sulle pagine stampate di libri, fogli e gazzette. Le opere del pensiero hanno avuto nella stampa un propulsore formidabile. Certo, non per tutti. Non tutti sapevano comporre e divulgare, leggere e capire. Da quelle scintille di sapere però sono divampate le rivoluzioni politiche che hanno dato corpo alle istituzioni democratiche praticate – pur con viva difficoltà – nell’età contemporanea, e al corpus dei diritti dell’individuo (anche questi oggi rimessi in discussione).
Altro passo cruciale: lo sfruttamento del vapore, l’impiego di una forza d’energia non muscolare che rivoluziona il rapporto tra uomo e produzione. E’ l’inizio della rivoluzione industriale, di una riorganizzazione sociale profonda, che investe i tempi della vita e i valori materiali: l’economia della produzione seriale (e del consumo) diventa la struttura portante della società. Ed è l’avvio dell’antropocene con tutte le meraviglie e i disastri che palleggiamo ora.
Baricco magnifica la rivoluzione digitale e la chiama Gioco. Il gioco è aperto, ricco di lusinghe e promesse, ma non è per tutti, proprio come i “giochi” precedenti. Restano fuori i soliti poveri (e non sono pochi) e una larga fetta di quella classe media e dirigenziale che nel secolo scorso è stata continuamente al centro della scena. Avanza però un nuovo attore (o si dovrebbe dire giocatore?) nel Game: l’intelligenza artificiale. Dapprima strutturata come semplice potenza di calcolo, poi organizzata in algoritmi e ora spinta ad elaborare la materia stessa del lavoro intellettuale che fino a ieri era compito di menti e mani umane.
Sembra di assistere alle prime fasi dello scontro che nell’odissea di Kubrick opporrà l’astronauta Bowman e il calcolatore Hal. Non è una partita a scacchi, ma una sfida che ha più l’aria di un duello all’ultimo sangue. Ci sono delle regole di ingaggio – ancora pochine per la verità – in questo scontro per il dominio dell’attività creativa. Però, nonostante la giocosità delle interfacce, la dimensione ludica viene a mancare: è la macchina a governare il Game.
La rivoluzione digitale ha messo l’uomo spalle al muro: viaggio senza movimento, comunicazione istantanea, soddisfazioni a basso rischio. Ti serve un testo? Basta dettare una mezza idea. Occorre un’immagine? Abbozza una descrizione. E presto con stampanti 3 D e laboratori automatizzati (ne ricordo uno a bordo dell’Argo in Star Blazer e mi sembrava una fantasia sfrenata nda) il sogno diventerà tangibile. Tutto molto facile, a portata di touch. Sì, ma quel tocco presuppone costi non dichiarati: si gioca alle regole della macchina. E questo gioco globale riduce progressivamente la platea dei giocatori autonomi.
Sarà sempre più difficile trovare degli outsider capaci di innovare stravolgendo, perché il Game è inclusivo e pervasivo, ma omologante, appiattisce. Il Game non richiede sforzi, è piacevole e gratifica con rapidità. Chi vorrà ancora sporcarsi le mani con le frustrazioni del fare, o spremersi le meningi sull’inventare quando la macchina soddisfa il nostro capriccio con un set di proposte già confezionate? L’invasione – come accennavo – non è più una minaccia dallo spazio esterno, ma da quello interiore: il Game ha modalità virali e si radica agevolmente nel rapporto tra l’ego che ama essere servito e la mente che analizza e crea.
H. G. Wells rappresentò l’esito estremo di una umanità scissa tra desiderio e necessità: nella Macchina del tempo (1895) gli Eloi, la classe nullafacente, vive imprigionata nell’istante del qui ed ora, abbandonata in un flusso di piccoli piaceri superficiali liberati dal “fardello” dell’azione. Uomini svuotati che hanno come contraltare i Morlocks, oscuri tecnocannibali servitori delle macchine. Entrambi sono prigionieri, avvinti ad uno schema artificiale che non lascia vie d’uscita: una sconfitta dello spirito e dell’intelligenza.
H. M. Forster, forse impressionato dalla lettura del libro, scrisse nel 1908 il racconto intitolato La macchina si ferma, per offrire la sua visione della curva involutiva umana: immagina infatti un mondo in un futuro remoto in cui ogni individuo abita la sua stanzetta sotterranea. Nessuna città, ma nidi automatizzati, governati da una gigantesca macchina che soddisfa le necessità materiali, e anche intellettuali degli uomini. Vite recluse, vite separate, vite connesse virtualmente. Una anticipazione evidente dei nostri lockdown, delle nostre videoconferenze, dei nostri gratificanti social.
Forster anticipa tematiche odierne esponendo l’ideologia miope degli uomini del sottosuolo: “Diffidate dalle idee di prima mano (…) Le idee di prima mano in realtà non esistono. Non sono altro che delle impressioni fisiche prodotte dall’amore e dalla paura (…) Che le vostre idee siano di seconda mano e se possibile di decima mano, perché solo allora saranno realmente rimosse da quell’elemento inquietante che è l’osservazione diretta.” Così pensando si tolgono armi non solo alla libertà di pensiero, ma all’innovazione, alla creatività. Di sicuro il film distopico Thx 1138 di George Lucas ha attinto a questa fosca predizione sulla tecnologia. E l’epilogo del racconto di Forster non può che essere amaro: la macchina muore e trascina con sé l’umanità impotente reclusa nel “gioco” fuori controllo.
Un ammonimento da tenere presente quando maneggiamo gli strumenti digitali e i “servitori” artificiali: questi infatti “imparano”, memorizzano, riciclano sostituendo una potente forza di rielaborazione all’inventiva personale. La creazione umana è un processo che nasce dall’esperienza diretta, dalla sensibilità interiore che sfocia nella passione e anche dall’errore di interpretazione che ci spinge a trovare nuove strade: tutti aspetti che ritroviamo, guarda a caso, nella pratica del gioco. Il Game vuole invece giocare al posto nostro illudendoci di poter trasformare la vita in una piacevole partita.
Difficile sottrarsi alla sfida così ricca di lusinghe e soddisfazioni, costruita appositamente per indurci in tentazione. Impensabile poi immaginare di azzerare le nuove intelligenze, come ha fatto l’astronauta Bowman con Hal 9000. Quel che conta è la chiarezza: il Game cambia il nostro rapporto con il mondo, non lo risolve. Perché la vita non è un gioco, non l’abbiamo inventata noi e per quanto possiamo ingannarci mescolando le carte, non sarà mai l’uomo a lanciare i dadi sulla plancia del destino. Il gioco aiuta a vivere la vita, ma non può sostituirla.
