Lost in the mood for love

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Amore e libertà nei film di Wong Kar-Wai e Sofia Coppola

In the mood for love, film di Wong Kar-Wai del 2000 è il racconto di un continuo non accadimento tra un uomo e una donna. Due sposi traditi dai rispettivi consorti, ma ingabbiati in una vita alla quale sentono di non appartenere più. Il film è ambientato a Hong Kong nel 1962 e, a parte un paio di scene, è girato completamente in interni: camere d’appartamenti in affitto, stanze d’albergo, angoli di uffici, piccoli ristoranti, taxi. Il paesaggio esterno si manifesta soltanto nel finale, quando il segreto di un desiderio manifesto eppure inconfessabile viene finalmente “depositato”.

Non sto a tediarvi con gli scampoli della trama, non per via delle anticipazioni che tolgono il gusto, quanto per la necessità della visione: l’opera non è comprensibile altrimenti. Sarebbe come chiedervi di “ascoltare” una statua. In the mood for love è un film fatto di sguardi, di inquadrature che ritagliano e sfuggono per evitare l’esposizione dei sentimenti, la sovrapposizione delle emozioni. Il colore e le luci sono sapientemente addomesticate per contenere e arginare la deriva della passione. Se Michelangelo Antonioni ha filmato l’incomunicabilità, il communication breakdown, Kar-Wai invece cattura la sfumatura del non detto.

Le vite della signora Su (una splendida Maggie Cheung) e del signor Chow (un elegante Tony Leung) si incrociano ma non si incontrano, si sfiorano, camminano insieme, si sostengono a vicenda, ma non si “toccano” mai davvero. Si confidano, condividono l’intensità di momenti di autentica sincerità. Forse quella chiarezza che neppure gli amanti possono permettersi. Perché in loro manca la paura della perdita dell’altro: tutto è un continuo stare sulla soglia. Ammissioni sconfessate, confessioni recitate, appuntamenti non rispettati. E in mezzo i timori, le esitazioni, la fuga dai problemi e l’immersione nelle ripetizioni del quotidiano, con il gioco delle maschere e delle formalità. Resta il fantasma di una possibilità non colta. Una scelta troppo lacerante, che avrebbe forse compromesso anche la felicità futura della coppia. Il sentimento puro che avvicina la signora Su e il signor Chow rimane sospeso nel tempo, carico di nostalgia per ciò che poteva essere e non è stato.

L’amore non dichiarato riverbera anche in Lost in translation (2003) di Sofia Coppola. In scena l’attore affermato alle prese con lo spettro del declino e la giovane moglie trascurata ancora in cerca di una collocazione nella vita. Due parabole che si intersecano, una in fase discendente, l’altra in ascesa. A mio avviso, qui non siamo nei territori propri dell’amore, quanto di un’affinità sentimentale creata dal contesto. Nel confronto tra Bob Harris (l’iconico Bill Murray) e Charlotte (una Scarlett Johansson appena sbocciata) si avverte una forte attrazione, una alleanza segreta che nasce dal sentirsi stranieri in terra straniera. L’incontro potrebbe sfociare in una relazione, ma non accade. Bob è consapevole di marciare su un binario che non farebbe la felicità di Charlotte e anche lei comprende che non avrebbe senso affidarsi a un’altra persona: è tempo di uscire dal guscio, vivere con le proprie forze. 

Si è scritto molto sul finale del film, su quelle ultime inaudibili parole bisbigliate all’orecchio da Murray alla Johansson, prima di lasciare “l’incomprensibile” Giappone. Una promessa d’amore? Un poetico addio? O forse un augurio per una vita vissuta davvero, fuori dalla paura dell’errore e della solitudine, perché ovunque si vada – o si stia fermi – non si è mai soli. More than this…

Gianlorenzo Barollo

È un alter ego professionale attratto dall’amatorialità e gran cultore del perseverare nell’errore che ci fa umani. Per pochi ma belli è noto come autore del bestial seller “I pensierini di Mosè” e di “Triscaidecafobia”.

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