Moto, tecno-padrini e city pop: La perfetta pillola blu prima di akira e matrix

Se vi raccontassi di un giovane che ama la velocità, un carattere poco incline al rispetto delle regole, aperto agli entusiasmi del brivido sulla pelle da sensazioni forti. E se aggiungessi una moto, rossa, dalle forme e dalla meccanica avveniristica, possente e leggermente sinistra. E se mettessi uno scenario metropolitano di neon, palazzi e vetrine, dove le luci dolci nascondono complotti che vanno oltre l’immaginazione dei più. Se vi dicessi tutto questo, quale anime vi verrebbe in mente? Akira?
Errato. Il caposaldo dell’animazione di Katsuhiro Otomo targato 1988 in realtà ha un solido “antenato” in Megazone 23. Un Ova (original video anime, ossia anime prodotti direttamente per il mercato home video, diversamente dalle produzioni destinate ai circuiti televisivi) distribuito nel 1985, che vede alla consolle di regia Noboru Ishiguro (Bem, Stablazers, Goldrake, Combattler V, Macross e Lupin III sono nel suo portfolio… per tacere di Legend of Galactic heroes) e Shinji Aramaki (che successivamente sarà dietro le quinte di titoli come Applessed, Ghost in the shell, le animazioni di Starship trooper e infine Blade runner: black lotus).
Tra Akira e Megazone 23 la distanza è breve, ma significativa perché nel giro di un tre anni l’immaginario fantascientifico si sintonizza sul canale chiamato cyberpunk. Ebbene Megazone 23 appartiene ad un’età precedente. Lo si comprende dal rapporto uomo e tecnologia informatica che permea la trama: c’è più “2001 Odissea nello spazio” che periferia di Chrome.
Megazone 23 nelle intenzioni degli autori doveva diventare una serie anime, ma cammin facendo venne meno il supporto di alcuni sponsor e il progetto venne ricomposto in un Ova. Posso azzardare l’ipotesi che i finanziatori non abbiano gradito alcuni aspetti della storia: il motociclista proto teppista, l’atteggiamento di aperta sfida alle istituzioni, la brutalità della polizia segreta e alcuni accenni poco edificanti al marcio oltre i lustrini dello show business. E per finire una generale nota cupa che attraversa il pur colorato mondo di Megazone 23.
Forse era troppo presto – per chi ci metteva i soldi – ma non per il pubblico che già si nutriva di fantastico, videogame e cinema d’azione americano: così, a dispetto delle fosche previsioni e delle titubanze, il titolo ebbe un buon riscontro. Tanto che nel 1986 venne realizzato il secondo episodio conclusivo (va detto che cambia notevolmente la grafica, con mio personale scorno, visto che preferivo il tratto un po’ naive del primo team). Lo so c’è anche il terzo Megazone 23 nel 1989, ma arriva post Akira e l’effetto apripista si perde. La sceneggiatura è in mano a Hiroyuki Hoshiyama, che ha lavorato in Gundam, Dirty pair, City Hunter, Capitan Futuro e Capitan Harlock: quindi una grande dimestichezza con la fantascienza, il rapporto uomo-macchina, gli scenari metropolitani e spaziali. La sua esperienza si traduce in un racconto che suona come “già sentito” per varie tematiche, ma secondo una miscela originale. Infatti nei primi due capitoli si trovano una quantità di idee poi sviluppate in altre produzioni che ne hanno fatto il “loro” marchio di fabbrica.
Oltre ad Akira, possiamo citare tranquillamente i miraggi del reale che hanno fatto la fortuna della saga di Matrix (iniziata nel 1999), del cult di Dark City (1998) o di curiosità come Pandorium (2009). Gli hacker militari di Megazone 23 in lotta con il super computer Bahamut forse sono un po’ ingenui, però fanno un bel gioco di specchi con Wargames (1983).
Ma se mettiamo da parte l’esercizio dei rimandi, l’aspetto possente che Megazone 23 mette in evidenza, per farne il tappeto sul quale imbastire la trama, è il “fattore nostalgia”. E qui spoilero: il computer Bahamut è un guardiano, protegge l’umanità da sé stessa. Per mettere in atto questo gravoso compito ha costruito un mondo artificiale che rappresenta… gli anni ’80. Immagino la perplessità di molti: gli anni ’80 sono il migliore dei mondi possibili? Anche chi li ha vissuti (quindi condizionato dall’esperienza personale) dovrebbe avere qualche dubbio. Eppure gli autori dell’anime si sbilanciano e affermano che il “contemporaneo” è la modalità migliore per cullare l’umanità nell’infinito.
Un concetto che, ad esempio in Matrix, è ben cucinato: un mondo pieno di conflitti è uno stimolo costante, utile ad abbindolare la scimmia-uomo e a distoglierlo da osservazioni più profonde. La spiegazione, molto più stringata, che viene data in Megazone 23 è che gli anni ’80 sono stati il periodo più felice per l’umanità: una situazione di pace relativa (forse in medioriente e in america latina non sarebbero del tutto d’accordo), un livello di tecnologia dove la componente umana (soprattutto manuale) era ancora predominante, un mondo in cui le pressioni della globalizzazione non apparivano in tutto il loro devastante potere. Insomma un piccolo Eden, benché non privo di spine. Quel che basta per tenere occupate le menti degli uomini oscillanti tra l’ozio, il vizio e l’autodistruzione.
Non è un caso che una delle manifestazioni di Bahamut sia Eve, una idol, una divetta dello schermo che incanta trasversalmente il grande pubblico. Eve è una sorta di nume protettore che si sgancia dal guinzaglio del computer – aggredito dal solito comitato di militari testosteronici – e forma un alleanza con Shogo, il giovane motociclista selvaggio di cui sopra.
Il dilemma quindi è duplice: Bahamut (o chi lo ha programmato) ha creato un paradiso artificiale con l’obiettivo di perpetuare la vita umana, i sabotatori vogliono riguadagnare la piena autonomia con licenza di sfracello, i giovani ribelli invece desiderano un po’ di verità e una terra promessa (possibilmente anche un mondo diverso).
Abbandonare l’Eden – anche sapendo che è costruito su una colossale menzogna – non è cosa da farsi a cuor leggero. Megazone 23, seguendo il filone biblico, adotta la forma del trauma obbligato: i giovani che aspirano al divertimento, alla carriera nel mondo patinato dello spettacolo e vivono inseguendo il sogno edonista del successo, saranno strappati con violenza dall’orbita delle loro convinzioni. Le cicatrici sono spesso il biglietto di ingresso nel mondo adulto e Shogo, la sua ragazza Yui e il team dei moto teppisti ne guadagneranno parecchie prima di approdare al Mondo nuovo.
Il vero quesito è: riusciranno i nostri eroi, concepiti in una provetta nostalgica, a liberarsi della malia del tempo che fu? Non sentiranno mai il rimpianto del loro mondo falso, edulcorato, ma tutto sommato familiare, organizzato in schemi noti? Usciranno mai dagli anni ’80?
Se è difficile rispondere per loro, forse dovremmo girare la domanda a noi stessi. Consideriamo titoli che hanno avuto un buon impatto di recente, come Ready player one o Stranger things. Ricapitoliamo le quantità di reboot e sequel di storie e atmosfere che hanno germogliato in quella decade (ogni anno almeno due o tre). Escludiamo che sia soltanto un’operazione di mercato per acchiappare boomers e millennials, che hanno ricevuto comunque un imprinting culturale segnato dalla matrice ottantesca. Perché piacciono gli anni ’80?
La risposta ha più livelli. Il primo è il terreno della conoscenza: come accennavo, il processo di globalizzazione – che pure è sempre esistito nella storia e nella preistoria dell’umanità – negli anni ’80 stava compiendo il suo balzo conclusivo attraverso le reti informatiche e il consolidamento delle piste commerciali intercontinentali. In quei dieci anni il mondo fisico si stava rimpicciolendo, mentre si allargavano le frontiere virtuali. Con il risultato odierno di comprimere il nostro raggio d’azione, e quindi, di rimbalzo, il decennio appare ai nostri occhi usurati avvolto nel bagliore libertario di una residua possibilità: a quei tempi le alternative esistenziali esistevano ancora.
Il secondo aspetto è direttamente legato al primo: il brodo di cultura. Gli anni ’80 sono stati il primo periodo più documentato e mediato della storia umana grazie alla diffusione di tecnologie alla portata di tutti (o quasi). Fotografia, video, cinema, musica viaggiavano rapidamente come mai era accaduto prima. Una mole di informazioni che riverbera ancora oggi giacché gli stili, i divi, le saghe maggiori, si sono cementate proprio in quegli anni fissandosi nell’immaginario di generazioni di persone. Il mercato dell’intrattenimento di massa ha conseguito una dimensione non solo internazionale ma planetaria. I Duran Duran potevi sentirli in un bar di Soweto o in un pub di Bangkok, E. T. o Top Gun si proiettavano nei cinema di Tel Aviv come a Buenos Aires. Anche nei Paesi più ostici il materiale estero circolava: in Russia – oltre la cortina del blocco sovietico – conoscevano Thriller di Michael Jackson, Indiana Jones e (di nascosto) non si perdevano gli episodi “decadenti” delle avventure capitaliste di 007.
Il terzo fattore è anagrafico/esistenziale: vale per tutti – in condizioni normali, ossia per chi non ha subito un’infanzia alla Oliver Twist – manifestare una particolare affezione per gli anni della propria giovinezza. Un periodo in cui, sotto l’ombrello della potestà genitoriale e lo scudo spesso dell’ignoranza delle cose, si poteva guardare con occhi sognanti le profondità magiche di orizzonti inesistenti. E’ l’età verde nella quale si culla l’illusione di un mondo soffice, accomodabile come un cuscino per immaginare le meglio cose per sé e per il circondario.
Così quando aggiungiamo alla vita i lividi degli anni trascorsi, è naturale cercare rifugio nelle annate formidabili in cui tutto era chiaro e trasparente. E se in quei giorni la colonna sonora era un “Every little thing she does is magic” dei Police, piuttosto che “Moneys for nothing” dei Dire Straits, se si trascorrevano giornate a guardare e discutere anime giapponesi come Robotech o delle oscurità futuribili suggerite da Dune e Blade Runner, oppure ci si consumava nello sgranamento del cubo di Rubik o cacciando collane di cento lire in una “macchinetta” di Pac Man o Dig Dug. Allora basta l’accenno di un refrain, un pigolare elettronico per rievocare un mondo “perfetto”, fuori dal tempo, consacrato al puro intrattenimento.
Marcel Proust insegna che basta un poco di “zucchero” per ridare vita al passato perduto: gli anni ’80 sono una madeleine mediatica che ci rimanda con piacere nel non luogo e nel non tempo di un limbo moderno. Ma l’elemento interessante è che questa attrazione emotiva opera anche in chi non ha vissuto quegli anni: boomer e millennials si ritrovano accomunati dall’incanto. I primi ovviamente sono presi al cappio dal ricordo, che vince facile nel confronto con le asprezze del presente (si stava meglio quando si stava peggio, ai miei tempi… etc, etc). I secondi vanno a traino perché nel cassetto degli anni ’80 sono custodite le buone/bizzarre cose dei nonni/genitori: i videoclip, i videogames, i vagiti del rap, l’ossessione per i capi firmati e altre amenità che oggi sono pane quotidiano. E poi perché quel tempo lontano offre il comfort totale di una storia finita, senza l’ansia di un continuo cliffhanger, del sequel dietro l’angolo.
Per onestà va ricordato che i rimandi, i revival e le riscoperte, sono una costante nell’arte come nella politica, nei costumi e nel comune sentire. Negli anni ’80, ad esempio, si guardava con speciali paraocchi ai “favolosi anni ’60”, mitizzando e sbucciando i conflitti e le conquiste del periodo per focalizzarsi sulle canzonette romantiche e ballerine, sull’hippismo e il figlifiorismo con spruzzate vaghe di rimembranze della contestazione alla guerra del Vietnam (quasi altri Vietnam non fossero in corso d’opera). Ma i corsi e i ricorsi coniati da Giambattista Vico rientrano nell’abecedario dello sviluppo umano, così come nelle nostre storie personali. Ecco allora che Megazone 23, per un felice cortocircuito delle intenzioni degli autori, ha il pregio epocale di inscenare un mondo artificiale nel quale crepita una speciale “nostalgia del presente continuo”.
Se dovessimo dare una voce a questo sentimento, dovremmo necessariamente lasciare il microfono alla musica, linguaggio che comunica direttamente alla nostra parte emotiva. Ecco qui l’importanza di Eve, il personaggio canterino di Megazone 23, che intona melodie a presa rapida per il pubblico della metropoli. La sua funzione è doppia: ammaliare in stile sirena il gregge che ingurgita pillole blu, e riverberare nel tempo le sue promesse d’amore per l’umanità come il messaggio di una sonda spedita nello spazio profondo. Nel culto musicale che i giovani (e non) di Megazone riservano a Eve si avverte la forza lieve del city pop nipponico, filone di genere misto, spumeggiante e intrigante come uno spot, arrangiato con la cura con cui si disegna il sorriso sulle labbra di una bambola.
La nostalgia che permea l’inganno globale in Megazone 23 ha la sua confezione mesmerizzante nelle accattivanti melodie del city pop. La colonna sonora dei sogni metropolitani, dei desideri che navigano nei corsi affollati e negli sfavillanti arcade che preludono ai centri commerciali. Il city pop è una colonna sonora urbana che consacra l’incontro tra Occidente Oriente nello straniamento dal qui e ora, senza però disprezzare il presente. La saudade qui non è mancanza dolorosa di un affetto lontano e forse irraggiungibile, ma promessa di un futuro compimento, di potenziali ancora da esprimere, quindi la malinconia è dolce, è una soffice parata (per dirla con l’onirico display di una canzone dei Doors).
Non stupisce che il city pop anni ’70 e ’80 sia diventato un genere, quasi un bene rifugio contro il logorio della vita iper moderna. Ascoltare i successi di Miki Matsubara, Anri o Mariya Takehuchi è come assumere sintetica nostalgia e immergersi nella stasi dorata di un tempo mai vissuto. Come correre su un’auto sportiva in riva al mare, con una bionda al fianco, verso il tramonto che non arriva mai.
Megazone 23, il city pop e il revival anni ’80, pur mossi da ragioni differenti, convergono su una rivelazione comune, suggeriscono l’esistenza di una dimensione immateriale di sentimenti indefinibili e imperturbabili, dove la perfezione della felicità eterna è bella… come una schermata di Out Run.
Gianlorenzo Barollo
