Nemo Horror Club – Chiller

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Nemo horror club "chiller"

Cover Chiller

La prima volta che giocai a Chiller avevo poco più di dieci anni, e questo la dice lunga sulla strada che avrei intrapreso poco dopo, quella che mi fece abbandonare senza troppi rimpianti l’abbonamento settimanale a Topolino per dirottare tutta la mia passione verso l’horror (Sì, avete letto perfettamente la mia età! Eppure non sono diventato un serial killer, quante bugie sanno propinarci i perbenisti che si credono psicologi vero?), nello specifico Dylan Dog, ma di questo parleremo un’altra volta.

Come tutti i ragazzini della mia età, anche io frequentavo una sala giochi. Una sala giochi VERA, non sto certo parlando di quegli antri oscuri e venefici pieni di slot machines e fumatori incalliti che scialacquano il loro stipendio (o la pensione) nel giro di due ore, no no. Il Play Up era il paradiso sulla Terra, l’Eden del divertimento videoludico e terra di conquista per teenagers impauriti dalla vita che li aspettava al varco con le sue fauci fameliche. Arrivarci era semplice: uscivo di casa, con il walkman nel marsupio e cinquemila lire in tasca, prendevo corso Dante, la via principale che conduceva al centro cittadino, e il gioco era fatto! Quindici minuti di camminata, gli Ace Of Base a palla nelle orecchie, se la memoria da quasi quarantenne non mi sta ingannando mentre scrivo, e l’insegna intermittente del Play Up presto mi avrebbe sorriso invitante, poco prima di entrarci dentro. Vieni, vieni, abbiamo giochi, giochi qui! Potevo forse dire di no? MAI. La prima volta che giocai a Chiller avevo poco più di dieci anni, e mi sconvolse. Ancora oggi mi chiedo come sia stato possibile che un gioco del genere, così gore da far impallidire i più goliardici film di genere di quegli anni, non abbia mai subito il taglio netto della censura. Il cabinato del gioco era stato sistemato nell’ultima sala in fondo della sala giochi, in agguato come il forno cattivo di Mamma Ho Perso L’Aereo. Quando lo vidi per la prima volta, con i miei gettoni in mano tintinnanti fra le dita, rimasi a bocca aperta. In quel momento stava giocando un ragazzo molto più grande di me affiancato dalla sua fidanzata (la mano di lei sulle sue chiappe non lasciava adito a molti dubbi, o forse la loro amicizia era davvero speciale, chissà.), e con la Gun attaccata al cabinato con un cavo spesso (ve li ricordati i cavi vero?) stava sparando a raffica sulle povere rotule di due prigionieri, appesi alla parete sporca di sangue in quello che appariva in tutto e per tutto un dungeon nascosto, le segrete di una magione lussuosa, magari. Quelle case dal pavimento sul quale ti ci puoi specchiare e dove invitare i consiglieri della città per proporre una nuova legge e acquisire voti e consensi, mentre di sotto i tuoi lacchè hanno imprigionato giovani sprovveduti per i tuoi piaceri più infimi e perversi.

Chiller vide la luce nel 1986, casa di produzione la Exidy, tanto per snocciolarvi qualche informazione storico-tecnica: la gun di cui vi parlavo prima era stata implementata nei propri cabinati proprio dalla Exidy, ed era appunto proprio quella che stava impugnando il ragazzo davanti a me. Ricordo che la sua amica-fidanzata era inorridita dalla brutalità del gioco, mentre lui rideva e le chiedeva che cos’avrebbe fatto lei. In che senso? Semplice. Chiller ti sottoponeva una scelta crudele, che determinava il gameplay e lo svolgersi del gioco stesso, nei quattro livelli-ambientazione. Potevi sparare ai carnefici e agli animali feroci che apparivano sullo schermo, prima che torturassero e uccidessero, nei modi più disparati che possiate immaginare (Torquemada e l’Eymerich di Valerio Evangelisti erano nulla al confronto), oppure scegliere di cedere al lato oscuro, e quindi coadiuvare i cattivi e facilitare il loro compito, mutilando e generando schizzi di sangue per tutto lo schermo, tra le urla delle povere vittime.

La grafica di Chiller non faceva gridare certo al miracolo, i pixel regnavano rockeggiando sullo schermo con la sfacciataggine della scheda grafica dei tempi, e non vi era colonna sonora in sottofondo, questo perchè avrebbe distolto, secondo me, l’attenzione del player dagli effetti sonori, come i colpi di pistola e le urla dei malcapitati che vedevano le proprie braccia e le gambe saltare via dai loro corpi.

Chiller non era un gioco per stomaci forti, la sua distribuzione, soprattutto negli States, risentì della quantità di violenza assolutamente gratuita che trasudava (indipendentemente dalle scelte morali che prendevi era sufficiente generare il caos nei dungeon, uccidendo chiunque per fare punti e passare al livello successivo), ma arrivò nella mia città natale, poco ma sicuro, e si fece notare. Eccome. Il cabinato di Chiller veniva preso d’assalto tutti i giorni, finchè non fu tolto per lasciare spazio ad altri cabinati, era così che funzionava allora e nessuno se ne lamentò mai. Indimenticabile per quanto riguarda le nefandezze perpetrate sui personaggi non giocanti imprigionati in quella sottospecie di scantinato, ma certamente lasciava a desiderare, e non poco, a livello qualitativo.

Inevitabile quindi che il suo destino fosse quello di finire nel dimenticatoio.

Spesi pochi gettoni per questo gioco, per la cronaca. E se vi state chiedendo quale fu la mia scelta di gioco una volta impugnata la Light Gun, beh… non è così importante, no? Quello che contava e conta tutt’ora è giocare e divertirsi.

Simon

Mauro Corbetta

È un ologramma creato dalla Cultura Pop e dal (pessimo) umorismo milanese, ma se ce abbastanza corrente diventa vero in tutti i sensi. Tornerà?

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