Nemo Horror Club – Deadline

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Correva l’anno 1982, E.T. l’extraterrestre si apprestava a smarrirsi sul nostro pianeta, per la gioia di grandi e piccini, ad eccezione di qualche ragazza che ancora oggi giudica “paurose” le fattezze del piccolo alieno in cerca di un telefono.

Il genere fantasy cavalcava l’onda di successi cinematografici e letterari, rinnovato da nuova linfa vitale che Conan Il Barbaro avrebbe poi confermato depositando nei cinema milioni di spettatori. E che cosa succedeva invece in ambito videoludico? Tra le tante proposte per le macchine dell’epoca spiccava un titolo, appartenente ad un genere che nel corso dei decenni ha vissuto momenti di grande splendore e altri in cui solo pochi giochi riuscivano a farsi largo, a colpi di parole e atmosfere affascinanti. Il suo nome è Deadline, ed è un avventura testuale pubblicata dalla Infocom. 

Navigandonella rete potrete facilmente scoprire la natura di matrice investigativa del gioco, e quindi la domanda sorge spontanea: perchè parlare di Deadline in un angolo dove è l’ Orrore in primis a farla da padrone? E’ presto detto.

Innanzitutto l’atmosfera di Deadline, anche a causa di un comparto grafico totalmente assente e sopperito dalla presenza massiccia di caratteri bianchi su sfondo nero tipico del Dos, getta il giocatore in un mondo inquietante, dove la realtà quotidiana di una famiglia-bene viene sconvolta dalla morte del patriarca, apparentemente suicidatosi. Nei panni dell’investigatore incaricato di scoprire la verità, ci addentreremo nella magione dei Robner e conosceremo i vari personaggi protagonisti del gioco. Personaggi che saranno tutt’altro che individui di contorno, ma veri e propri avatar con cui interagire costantemente e che metteranno a dura prova le nostre capacità di videogiocatori. Il tutto senza un comparto grafico di riferimento: solamente il potere dell’immaginazione a braccetto con la musicalità delle parole, da sempre evocatrici, se sapientemente utilizzate, dei più grandi brividi che una spina dorsale può effettivamente provare.

Soffermandoci sul gameplay, scopriremo che tutto ciò che viene richiesto all’abilità del giocatore che si cimenta davanti al monitor per fruire di Deadline altro non è che una discreta padronanza dell’inglese, per iniziare. Sì, perchè il gioco non è mai stato tradotto, per quel che ne so io e anche da fonti ufficiali, quindi se vogliamo risolvere l’enigma di Villa Robner dovremo necessariamente armarci di pazienza, un dizionario inglese se non lo mastichiamo a dovere e… l’ho già detto pazienza?

Il giocatore “moderno” potrà effettivamente riscontrare qualche difficoltà nell’approcciarsi al genere delle avventure testuali, in un’epoca dove esplosioni e slow motion con dettagli fantascientifici sono diventati il minimo sindacale nei videogiochi per consolle e pc. E allora la domanda sorge spontanea? Perchè Deadline? Accantoniamo ogni analisi tecnica, non è questa la sede e sono certo che l’avrete capito due numeri fa quando vi ho presentato la rubrica, e immaginiamo di essere un investigatore, di quelli tutti d’un pezzo, magari con la sigaretta sempre pronta ad avvelenare i nostri polmoni e in procinto di risolvere un caso apparentemente già risolto, nient’altro che il suicidio del solito riccone che avendo tutto in realtà non aveva niente, circondato dai membri di una famiglia che dietro le maschere e i sorrisi nascondevano odi e rancori, e la brama di mettere le mani sulla sua cospicua fortuna.

Immaginiamo di incamminarci in silenzio lungo il vialetto che conduce alla porta dell’enorme tenuta, dove è avvenuto il presunto suicidio, e di sentirci a disagio, quando un maggiordomo dall’aria incartapecorita ci viene ad aprire invitandoci a raggiungere la vedova Robner, in cucina. E una volta giunti lì, vederla alle prese con i fornelli e la preparazione del pranzo come se nulla fosse. Tramite i comandi giusti e basilari come “look” (guardare) e “talk to” (parlare a) potremo raccogliere i primi indizi e farci un’idea di cosa è realmente successo, e come avventura horror che si rispetti, seppur travestita da giallo alla Agatha Christie, niente è come sembra, e la casa stessa trasuda segreti pruriginosi che verranno a galla con l’evolversi della nostra indagine. I muri sussurrano, le pareti delle stanze padronali insinuano, e aggirandoci per i corridoi della magione scopriremo come la Realtà, apparentemente nostra amica e ancora di salvezza quando la ragione vacilla e i demoni dentro di noi mordono l’anima, sia in verità molto più terrificante di zombi e vampiri in agguato nel buio.

Deadline è cupo. Deadline è difficile, e non per tutti, è bene sottolinearlo. Ma ricordo bene la sensazione di ansia provata in vari momenti del gioco, e a ripensarci ora, quasi quarant’anni dopo, trovo fantastico che un gioco basato solamente sul testo, spogliato di ogni orpello grafico, possa restituire brividi del genere. Se riuscirete a svelare il mistero, e soprattutto a non morire nel tentativo, dipenderà solamente da voi. E chissà, magari con un po’di fortuna, riuscirete a tornare a casa, farvi una doccia per lavare via tutte le scorie di una giornata di lavoro gravosa come poche altre, e avere il tempo per un whisky, nel peggiore locale della città. E sedendovi al bancone, con aria annoiata e stanca come nella migliore tradizione di un Raymond Chandler in stato di grazia, incontrerete una bionda dagli occhi di ghiaccio pronta a farsi offrire una sigaretta. 

Proprio da voi.

Mauro Corbetta

È un ologramma creato dalla Cultura Pop e dal (pessimo) umorismo milanese, ma se ce abbastanza corrente diventa vero in tutti i sensi. Tornerà?

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