Pubblica amministrazione: le confessioni di un burocrate allibito

Ettore Ezio Pantaleone, chi era costui? La risposta non è come una sentenza, ma è ardua. Il motivo è semplice: Pantaleone appartiene alla genia diffusa dei travet, i “grigi” figuri – puntualmente disprezzati dai liberi imprenditori e irrisi dai giovani di incerte speranze – che sono gli umani ingranaggi della moderna burocrazia. Nell’immaginario popolare li ha immortalati Mario Soldati, raccontando al cinema – già nel 1945 – le “Miserie del signor Travet”: timido impiegato vessato dal capufficio e dalla moglie. Da allora il “travet” è diventato sinonimo di colletto bianco schiacciato dal sistema e dall’esosità del prossimo.
Lo stesso Totò nella sua analisi socio antropologica (sempre in salsa comica, per carità) aveva prospettato una grande divisione della fauna umana nelle categorie degli uomini e dei caporali, ossia dei lavoratori e dei “comandanti”. Insomma da una parte la massa di chi cerca di sbarcare il lunario, di fare il proprio dovere senza pestare i piedi a nessuno. Dall’altra la minoranza rumorosa, quella che vuole imporsi e che reclama, pronta subito a indicare le pagliuzze negli occhi altrui.
Negli anni ‘70 del secolo scorso Paolo Villaggio raccontò i travet delle grandi aziende private (o parastatali) esternandoli nelle figure di Fracchia e del mitico Fantozzi. Personaggi di micro borghesi senza radici e senza storia, schiacciati in un presente di furbizie e competizione che esaltano difetti e piccolezze caratteriali. I personaggi di Villaggio inquadrati in un sistema che li schiaccia e in cerca di una continua rivalsa per affermare la propria individualità, sono comici, in un contesto satirico, che ben profetizza l’alienazione del post moderno: la risata per l’assurdo non manca mai, ma è amarissima, nevrotica.
Pantaleone si distingue però dai suoi simili perché ha lasciato una testimonianza diretta. Anzi, quasi un diario che è cronaca delle traversie di ordinaria anormalità che segnano il percorso di appartenenza ad una “macchina burocratica”. Un super organismo collettivo – come un nido di formiche ma molto meno efficiente – che agisce nel complesso ma interagisce nel singolo. E pertanto il rapporto non è mai uno a uno, bensì uno è la totalità dell’ente e l’altro una particella. La macchina burocratica non riconosce l’individuo in quanto tale, ma solamente attraverso le sue attribuzioni: i certificati, le cartelle, i dossier, i codici. Tutto ciò che rientra nella grande e nobile famiglia delle carte bollate.
Pantaleone, sia chiaro, è un nome fittizio, un paravento indispensabile per tutelarsi dagli effetti di una causa pubblica che spesso disattende, anzi deliberatamente fa attendere il cittadino, appiattendolo ai suoi ritmi e sottoponendolo a prove di erculea pazienza.
Tutti però sappiamo che la burocrazia tanto bistrattata, non è in sé malvagia: la sua nascita fu salutata gioiosamente. Finalmente lo Stato si faceva carico del benessere dei suoi cittadini, si assumeva degli obblighi e si poneva degli obiettivi. Tutto ciò attraverso l’apparato burocratico, l’amministrazione pubblica. Un organo – nei principi – imparziale, destinato a valutare e operare sulla base asettica di leggi e regolamenti.
Al bando la discrezionalità e le prepotenze quindi, la burocrazia si poneva come scudo dei più deboli e spada per l’affermazione dei diritti di ogni cittadino.
Ebbene, nel Belpaese è difficile trovare qualcuno capace di negare che lo scudo sia pieno di buchi e la spada, piuttosto spuntata. Chi ancora dubitasse può leggersi i resoconti di Pantaleone. Sono racconti che non vogliono sbalordire, e neanche puntare il dito su disfunzioni sensazionali del sistema, ma illustrare come sia possibile sviluppare in poco tempo una logica contorta e autoreferenziale entrando a far parte di un servizio concepito in origine per l’utilità pubblica.
Ecco allora che Pantaleone, senza astio e quasi con la bonomìa arguta di un osservatore distaccato, introduce il lettore ad una serie di personaggi tipici dell’architettura burocratica. In breve la sensazione è quella di chi osserva le facce dell’Indovina chi: uomini, donne, occhiali, capelli, sguardi. Andando oltre l’aspetto fisico, riconosciamo subito il ragionier X, il dottor Y, l’architetto Z. cambia l’aspetto ma i personaggi sono gli stessi: il comandante scaricabarile, il precisino con la penna degli altri, l’indisponente indisposto, l’indaffarata sbuffante, l’uomo bradipo e il lamentatore seriale. Caratteri non unici e univoci, perché lo schema gerarchico della struttura burocratica favorisce la fluidità di queste attitudini: cambiando posto mutano prospettive e gli atteggiamenti.
Pantaleone descrive queste transizioni di status e ne fa dei quadretti dalle ampie prospettive stilistiche (la sua scrittura non ha nessuna sfumatura di “grigiore”) e dall’aneddotica orbitante sui più godibili punti dolens della vita nella pubblica amministrazione. Sfilano in un piacevole carosello: la vita selvaggia dello sportellista, gli insabbiatori di pratiche, gli ossessi della programmazione feriale, gli attoniti stagisti e la sagra della rappresentanza sindacale.
Forse nel libello di Pantaleone non troveremo del “nuovo”, ma si avrà la percezione netta del fluire del tempo-spazio dietro le quinte degli Enti che regolano la nostra vita. Pubbliche amministrazioni: agglomerati di sprechi, complicanze e inefficienze che comunque macinano un lavoro incredibile, accollandosi (nella totalità e mai nella singolarità) la responsabilità di interi Paesi. Per molti questi Enti rappresentano una contraddizione vivente, eppure sono l’incarnazione dello stato di diritto. Composta da uomini, la pubblica amministrazione non può che essere una “macchina” fallace, un danno necessario nell’organizzazione del vasto arcipelago delle singolarità umane. A volte è causa, altre volte è effetto, ma la burocrazia non manca mai di influenzare le nostre vite. E allora, guidati dall’esperienza di Pantaleone, è sano e utile sollevare il cofano e dare uno sguardo. Come dicevano i Pink Floyd: Welcome to the machine.