
Cine fumetti involontari degli anni '70: il manierismo ispanobritannico di Marquez e D'Usseau
Passato Halloween e rimaste le guerre, giunte le piogge e le rincarate bollette, non smettiamo di rovistare nelle particolarità del passato per offrirvi qualche pepita rimasta nascosta dalla polvere degli anni. Il campo d’azione è cinematografico e la categoria sono i film d’horror e avventura.
Iniziamo con un cinegioco, tipo “indovina il film”? Vi darò scampoli di trama come indizi. La storia prende le mosse con l’esplorazione, agli inizi del ‘900, di una remota caverna situata in un desolato angolo della Manchuria… No, non è Indiana Jones.
Vengono individuati i resti di una creatura preistorica dai tratti umanoidi… No, non è l’abominevole uomo delle nevi. E neanche il fuggevole Big foot.
Successivamente ci troviamo su un treno che attraversa i territori russi… No, la signora Agatha Christie non è coinvolta, non si tratta dell’assassinio sull’Orient express.
A bordo del treno ci sono Peter Cushing e Christopher Lee… No, non è un film che tratta di vampiri o caccia alle streghe.
A questo punto vi chiederete, come il sottoscritto, che genere di film possa essere. Aggiungo tanto per gradire che nella trama si innesta un furto di gioielli, un prete ortodosso che è la parodia di un Rasputin invasato, una allegra baronessa russa in vena di cornificazioni e un paio di studiosi/inventori d’ingegno che preannunciano l’età moderna della tecnica.
Se annaspate nel marasma non stupitevi. Vale anche per me quando ho iniziato il viaggio sull’Horror Express, film del 1972 opera di Eugenio Martin Marquez, regista spagnolo di genere. Anzi di quasi tutti i generi, visto che la sua filmografia spazia dai sentimentali (pure uno con il sex simbol degli anni ’60-’70 Julio Iglesias) ai western (il suo Bounty killer con Tomas Milian è ovviamente finito nei radar di Quentin Tarantino), dagli avventurosi/storici (Il conquistatore di Maracaibo, La dea d’oro del fiume Beni e Pancho Villa) ai thriller a tinte fosche e sanguinolente.
Horror Express rientra nel periodo delle produzioni internazionali affidate a Marquez. La Spagna, pur “incapsulata” dal regime franchista, era stata individuata come un set ideale per contenere i costi e sfruttare scenari naturali molto versatili per varie ambientazioni. Lo “spaghetti western” ne aveva già beneficiato negli anni ’60 ottenendo un grande riscontro. Il nome di Sergio Leone e la “trilogia del dollaro” avevano fatto il giro delle platee mondiali riscuotendo successo e incassi. Perciò produttori americani, tedeschi, inglesi e italiani erano calati su Madrid per cercare di replicare la magica formula.
Marquez è l’uomo adatto per avviare i loro progetti: ha esperienza dietro la macchina da presa e si è già cimentato in operazioni che hanno avuto distribuzioni all’estero. Nel 1972 dirige Horror Express con Lee e Cushing e anche Pancho Villa, con Telly Savalas come protagonista, (l’iconico tenente Kojak) per una produzione che vede associate società spagnole e inglesi. Questo spiega perché Savalas faccia anche una delirante comparsata in Horror Express nei panni di un capo cosacco dalla lama facile e le maniere spicce.
Non aggiungo altro sulla trama di Horror Express, vi lascio il piacere di scoprirlo insieme alle sue connessioni con i film di Christian Niby, John Carpenter e un bel racconto di John W. Campbell. Va annotato che il soggetto del film è accreditato allo stesso Marquez che per la sceneggiatura si è valso del mestiere di Arnaud D’Usseau. Altro nome degno di interesse per due ragioni: la prima è biografica perché D’Usseau – americano nonostante il nome francese – nel 1953 finì sotto la lente della famigerata commissione del senatore McCarthy, votata alla caccia alle spie comuniste e di qualsiasi ”ombra” di anti americanismo. Le sue risposte poco collaborative gli fecero guadagnare l’entrata nella lista nera di Hollywood, restringendo di parecchio le sue possibilità di lavoro.
D’Usseau si trasferì in Europa e qui ebbe modo di partecipare a diverse produzioni di film “popolari” come sceneggiatore. Il titolo di rilievo – ed è la seconda chicca – è Psychomania: film del 1973 diretto da Don Sharp che ci ha regalato vari gioielli: il bacio del vampiro, Rasputin: il monaco pazzo, Fu Manchu: Operazione Tigre e La maledizione della mosca, ultimo capitolo della trilogia della mosca umana. Psychomania si incardina nel filone della stregoneria e delle bande di motociclisti. I motociclisti satanici non sono una novità assoluta, il mercato americano da tempo si era baloccato con il fenomeno della violenza su ruote.
La vicenda di Psychomania si svolge in un paesello periferico della sempre verde Inghilterra: qui imperversa una gang di scatenati centauri, bravi a terrorizzare passanti e causare incidenti con manovre davvero spericolate (niente cga o scorciatoie di montaggio) sulle due ruote.
Il capobanda, Tom, è figlio di una agiata vedova dedita a pratiche spiritiche, riti occulti e alla custodia di arcani segreti. La scomparsa del padre di Tom infatti è legata ad un mistero contenuto in una stanza proibita della casa di famiglia. Soltanto con il permesso della madre Tom potrà fronteggiare l’orrenda verità e afferrarla con tutta la spavalderia di chi non teme la morte.
Il coraggio folle di voler andare “oltre” per tornare ribattezzati dalla morte, offre a Tom l’opportunità per riqualificare la sua gang di teppisti in un manipolo di morti viventi motorizzati, invulnerabili e senza più scrupoli di sorta: oggi il supermercato del paesello, domani il resto del mondo. Ma lo scriteriato Tom non ha fatto i conti con il cuore di mamma…
L’estetica del film è un accattivante pop british che si nota nei costumi e negli arredi, corredato di una buona colonna sonora e qualche gioco di luce o taglio prospettico. Gli effetti speciali sono ovviamente datati, ma accettabili considerando il periodo di produzione e il budget contenuto. Detto ciò, come per Horror Express, Psychomania è un buon esempio di racconto ibrido tutto impatto, che a volte sfiora toni fumettistici. Sono storie che avremmo di sicuro apprezzato anche sulle riviste Lanciostory o Skorpio, magari con le tavole disegnate dai maestri argentini.
Marquez (scomparso lo scorso gennaio) e Sharp (morto nel 2011) sono stati degli artigiani del cinema pratici di scrittura, sceneggiatura, messa in scena e un vario bagaglio di esperienze. Basso budget non significa bassa qualità. C’è chi ha bollato le loro opere come produzioni di maniera, commerciali, senza spessore. Invece la mancanza di mezzi fa prevalere le idee e la sospensione dell’incredulità fa il resto. Ovvio che non tutte le ciambelle finiscono per bucarsi. Di recente ho rivisto Neptune factor, sempre del 1973: pellicola d’avventura dedicata al recupero di una stazione sottomarina precipitata in un abisso a causa di un maremoto.
Il cast comprende un autoritario Ben Gazzara, il volto simpatico di Ernest Borgnine e Yvette Mimieux (indimenticata Weena in The time machine di George Pal). Il dispiegamento di mezzi pare significativo: ci sono piattaforme galleggianti, batiscafi, camere di decompressione, e naturalmente la base sottomarina (che è grossomodo una cisterna con oblò). Le riprese subacquee degli operai degli abissi sono realistiche e ben fatte.
Il vero problema è “l’abisso”, ossia un grande acquario con scogliere e grotte di schiuma scolpita e un profluvio di pesci tropicali nel quale si inoltra il modellino del mini sommergibile. La fauna marina per quanto “cresciuta” a causa delle esalazioni della zona vulcanica (?), risulta palesemente una rassegna di pesciolini comprati al mercato che si cimentano in squittii e borborigmi senza senso (se non quello di riempire i silenzi abissali).
In Italia, per fare gran cassa, il film venne intitolato con il roboante L’odissea del Neptune nell’impero sommerso, corredato da una meravigliosa locandina che non poteva lasciare indifferenti noi giovani aspiranti avventurieri. Oggi la magia è decisamente svanita: gli effetti speciali invecchiano presto, sono le suggestioni che continuano a intrigare.
