Pretty in pink! L’equivoco del femminismo made in Mattel

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Barbie girl manifesto: la falsa rivelazione del pensiero dei giocattoli

La domanda – l’ennesima – si ripropone con la visione del film Barbie dove si immagina che i milioni di bambole vendute nel mondo abbiano una matrice ideale che esiste e si perpetua all’infinito in un imprecisato non luogo. Un regno plasmato dalla creatività degli adulti e dai desideri dei bambini, che nel caso specifico sono identificati in Ruth Handler (mamma di Barbie nel 1959) e dell’impero ludico Mattel.

Così assistiamo alla gioia del mondo perfetto e ripetitivo di Barbie, alla corruzione dell’Eden in rosa, alla scoperta del mondo reale (che agli occhi della bambola appare come una delle peggiori distopie) e alla battaglia per ritrovare – non la perfezione delle origini – un nuovo equilibrio.

Il nuovo equilibrio consiste nella sfida, nella inedita avventura dello stereotipo di Barbie calata nelle intemperie del nostro quotidiano.

Il film che affronta tematiche a più livelli: dall’identità femminile al potere dell’immagine, dal ruolo della donna nella società ai “disequilibri” nel rapporto tra i sessi.

Forse la dimensione che viene meno considerata in Barbie è proprio quella della natura originaria del soggetto: il giocattolo. E’ vero che il contesto di Barbieland non lascia dubbi: sullo schermo abbiamo la trasposizione dalla plastica alla carne di un tipico scenario di gioco con bambole. Perfetto nei suoi traguardi scontati, negli entusiasmi artificiali e nell’asettica atmosfera di luce, colori pastello e fluo brillantinato. In questo scenario roseo all’improvviso entra il mondo reale. Ecco, ma siamo sicuri che esista una simile distinzione?

Lo spazio ludico si sta espandendo

Nella dimensione del gioco il player e il game non vivono in due mondi distinti. Lo spazio ludico non è una fuga ma una dimensione che si crea nell’incontro, ossia il gioco appartiene al reale esattamente come ogni altra sua manifestazione. Il gioco è concreto quanto il progetto di una casa o il bilancio di un Comune. Si tratta di proiezioni, di speculazioni e simulazioni. Attività che impiegano l’immaginazione, l’aspettativa, il desiderio. Esercizi immateriali ma fortemente legati all’esplorazione delle possibilità del reale. Non importa che si parli di cowboy che cacciano dinosauri guidando cadillacs o di tartarughe mutanti che mangiano pizza: il verosimile e il fantastico sono una declinazione del reale, una carta delle (im)possibilità creata dalla macchina dell’immaginazione che chiamiamo mente.

Nelle “letture” di Barbie invece vediamo spesso un accento di contrapposizione tra il mondo immaginario delle bambole perfette incardinato sulla predominanza femminile e la realtà corrente scolpita nella tossicità del patriarcato. Ebbene, pur ammettendo i difetti (anzi le piaghe) del nostro habitat umano squilibrato, è difficile abbinare l’istituzione del matriarcato a Barbie. Il messaggio trasmesso dalla bionda longilinea bambolina superaccessoriata non solo stride con l’esperienza di una donna reale, ma anche con gli stessi valori di un mondo governato dalle femmine.

Rivoluzioni in minigonna

Di guerra dei sessi si disquisiva parecchio negli anni ’60, periodo in cui alla rivoluzione dei costumi e allo scardinamento dei pudori si allacciava il dibattito sul cosiddetto woman power, il potere alle donne. Il maschio guerriero e conquistatore non aveva storicamente fatto abbastanza danni? Non era tempo di pensare a governi meno testosteronici e leadership meno assertive? Insomma se l’età degli imperi e delle dittature era da considerarsi un capitolo chiuso, una lezione dolorosa segnata da due conflitti mondiali e una strisciante guerra fredda gravida di minacce termonucleari, non era forse il caso di entrare nell’era dell’Aquario, un’era della solidarietà, della comprensione, democratica e… femminile?

La rivoluzione “rosa” però arriva da più lontano: è all’inizio del ‘900 e soprattutto dopo la prima guerra mondiale che l’emancipazione della donna dall’orbita maschile assume il carattere di un movimento. Sul tavolo ci sono le attività lavorative fuori dalla cerchia familiare (ormai richieste dal sistema produttivo industriale), il riconoscimento del diritto al voto e il riconoscimento di capacità nell’ambito culturale e scientifico (quello nel settore degli affari è già riconosciuto da tempo).

Arriviamo così alla figura dello psicologo William Moulton Maston, uno studioso del comportamento sociale, un inventore, un creativo: definisce infatti le basi per quella che diventerà la “macchina della verità”, negli anni ’20 del secolo scorso scrive un saggio sui comportamenti “devianti” estremamente all’avanguardia (ben prima dei rapporti Kinsey che attorno agli anni ’50 fecero scalpore) e nel 1941 – insieme alla moglie – crea il personaggio dei fumetti chiamato Wonder woman.

Una donna delle meraviglie: intelligente e combattiva, baluardo della giustizia e custode di antica sapienza, essendo parte vivente della leggenda della tribù delle Amazzoni, le donne guerriere capaci di sconfiggere condottieri ed eserciti dell’antichità. Maston, insieme alla moglie Elisabeth Holloway e alla compagna (di entrambi) Olive Byrne, pensavano che anche un media popolare come il fumetto potesse veicolare, soprattutto alle giovani generazioni, l’immagine di una donna moderna: fiera e autonoma.

La sincerità forzata dove il cuore non arriva

Ora siamo abituati a vedere in azione Linda Carter e Gal Gadot, floride e scattanti, nei panni dell’amazzone giustiziera. E siamo anche abituati a pensare a una donna come un individuo indipendente, soggetto di diritti e capace di avventurarsi nel mondo secondo i propri desideri. Ma non è stato (e non è) sempre così. Nel 1941 pensare ad un supereroe femminile espressione di forza e volontà fuori dalla sfera d’influenza maschile, era senz’altro innovativo.

La supereroina di Maston vanta le stesse qualità positive di superman e compagni, ma vi aggiunge fascino innato, eleganza di movenze e una sensibilità brillante, che la conduce alla vittoria non sempre a suon di sganassoni. Infatti un aspetto specifico di Wonder woman è l’uso del “lazzo della verità”: una speciale fune che impedisce di mentire a chi ne viene avvolto. Dispositivo che richiama il “poligrafo” inventato da Maston per determinare le alterazioni fisiologiche (tramite pressione sanguigna e battito cardiaco) rivelando le alterazioni coscienti del racconto della realtà. Insomma un rivelatore di menzogne. Un’arma piuttosto insolita nell’arsenale dei super poteri assegnati agli eroi, un mezzo che non solo svela complotti e facilita confessioni di misfatti, ma impone al reo di turno una esplicita sottomissione.

Il potere più significativo di Wonder woman è “verità”: la sua fune miracolosa non ammette sotterfugi, supera le resistenze delle menti criminali e offre delle rivelazioni che toccano anche il malvagio azzerando il suo desiderio di affermarsi con modalità illecite.

Maston lo aveva spiegato durante un’intervista sulle sue ricerche comportamentali: credeva che l’espressione di un potere pervasivo, irresistibile avrebbe consentito un maggiore equilibrio nella società. Il potere a cui pensava era una manifestazione dalle componenti erotiche: un magnetismo capace di aggirare le difese razionali attraverso la seduzione e di imporre la sottomissione attraverso forme consensuali di piacere.

Eugenetica e paradisi artificiali 

Interessante concezione, benché non inedita. Già alla fine dell’800 si era misurato l’impatto collettivo e individuale di pubblicità e propaganda politica. Nel 1932 Aldous Huxley pubblicò il romanzo distopico “Brave new world”: il suo mondo nuovo ambientato nel 2500, dopo una guerra mondiale devastante, è una società eugenetica nella quale gli individui nascono con caratteri predeterminati per occupare specifiche funzioni. Soltanto gli Alpha però hanno la possibilità del libero pensiero, per quanto condizionato da una certa competitività intrisa di ambizioni personali, ma calmierata dal sesso libero e dall’uso del soma: una droga raffinata per ottundere e spegnere le conflittualità senza troppi deleteri effetti collaterali. In sintesi si tratta di una “dipendenza di Stato”.

Nel romanzo una delle figure chiave è quella di Linda, una ragazza Beta-minus che durante una vacanza in una riserva non civilizzata si smarrisce, si unisce alla popolazione locale e ha un figlio (cosa inconsueta nel Mondo nuovo, dove le nascite sono extra uterine) che infine torna insieme a lei nel Nuovo Mondo. Per Linda è un ritorno al paradiso artificiale della soma, dopo una parentesi di stenti e dolori nella crudezza di un faccia a faccia con la natura non “addomesticata” dalla civiltà. Si immergerà così profondamente nell’oblio artficiale da esserne annientata.

Curiosa la similitudine con il film Barbie: la bambola ideale “ferita” dalla realtà ritorna nel suo mondo di perfezione nella speranza di attingere dal suo santuario inviolato la forza per convertire chi non crede più in lei. Ma anche lì l’incanto si è rotto: la favola è stata infettata dai germi dello sfruttamento e della prevaricazione maschile. Dei mali sconosciuti nel continente barbiesco, contro i quali non esistono antidoti, proprio come accadde alle popolazioni indigene a contatto con i conquistadores spagnoli nel nuovo mondo americano.

La contaminazione è il peccato originale che corrode l’età dell’oro e la trasforma in metallo meno prezioso: nemmeno Barbie può ricreare l’Eden una volta che la magia è svanita. Non servono le ripetizioni, i riti, le invocazioni che dall’antichità costituiscono le forme del dialogo tra il reale e ciò che sta oltre e (forse) lo governa. I Greci avrebbero offerto olocausti ed espiazioni, i cristiani delle penitenze o dei sacri voti; tentativi di riconciliazione con il divino e le armonie segrete del ciclo della vita.

Gli autori di Barbie propongono di ricostruire un nuovo equilibrio, un nuovo patto tra le finzioni del giocattolo e le aspettative nella realtà. E’ la strada indispensabile per tenere in relazione due dimensioni che non possono escludersi. E non possono neppure confondersi. Diversamente… diversamente sarebbe il caos.

Simboli di culto e invide occulte

Il femminino, generatore potenziale di vita, cuore pulsante di ogni consesso civile, poco si accorda con gli accenti stridenti del caos disgregante. E’ vero che la nostra società belligerante coniugata al maschile tende a “oggettivizzare” il ruolo della donna, a farne uno strumento con compiti prestabiliti, allacciati alla famiglia, a incasellarla un mezzo d’accompagnamento non degno di piena parità di diritti. Di fatto sono forzosi tentativi per “contenere” una sorgente vitale della specie: ogni civiltà – a modo suo – rende omaggio al potere della donna, dai graffiti preistorici, alle statuette di Iside che hanno ispirato l’iconografia della Madonna cattolica. Tutti – consapevolmente o no – riconoscono che senza la determinazione e la malleabilità, la costanza e la sagacia dello spirito (e del corpo) femminile, qualsiasi impresa umana non durerebbe il volgere di un giorno.

Maston non aveva torto: la sottomissione genera forza, stabilità, è un pilastro solido sul quale costruire una società, magari non giusta, non egualitaria, però funzionale. E il processo risulta efficace quanto più la sottomissione è volontaria (addirittura Huxley, modernizzando altre concezioni utopiche, ne fa una questione di programmazione comportamentale e genetica).

Esattamente il contrario di Tank Girl, la ragazza portatrice di caos. Questa post moderna Pandora è un personaggio nato nel 1988 dalle fantasie di Jamie Hewlett e Alan Martin. Fantasie imbevute di anarchia, droga, rock e armi pesanti con scorribande tribali non sempre sensate in scenari post apocalittici in salsa australiana.

Anarchia e (auto)distruzione 

Tank Girl è una giovane ribelle, talmente rivoluzionaria che ha fatto il giro, portata naturalmente alle situazioni ai confini dell’auto distruzione. Sperimenta il dolore con lo stesso entusiasmo rivolto alla ricerca del piacere: il suo approccio è un costante sturm und drang, “impeto e assalto”, che a modo suo reinterpreta romanticismo e punk mettendo a fuoco l’essenza dello slancio piuttosto che il valore ideale dell’obiettivo.

Se Barbie è lo specchio magico di una società femminile ideale, Tank girl è un vetro rotto a sassate tra sghignazzi alcolici e strepiti. Nessuna delle due sembra consapevole dei “valori” che rappresenta finché non viene a contatto con visioni/organizzazioni incompatibili. Per Barbie è il “patriarcato” e per Tank girl è l’autorità (la legge, se vogliamo). Se la prima rappresenta un ideale femminino di autonomia e autorealizzazione nel quale le figure maschili sono marginali, l’altra è uno stato conflittuale aperto contro ogni limitazione del desiderio.

Il vero “difetto” del messaggio di Barbie sta in un equivoco originale: Barbie non è una donna, è stata creata per rappresentare una donna adulta ed è stata declinata in una miriade di possibilità per richiamare l’attenzione dei piccoli. Insomma per motivi commerciali. La realtà di Barbie corrisponde ad un catalogo di tipologie, ai quadretti idilliaci nelle pagine pubblicitarie inserite nelle pubblicazioni per pre teenagers e agli spot video. Però, una volta entrata nelle case degli acquirenti, Barbie recita seguendo una regia completamente personalizzata dalla fantasia del possessore.

La bambola è il mezzo, non il messaggio

Suggestiva quindi la trovata di una rivendicazione sociale da parte di Barbie. Ma se consideriamo la trama del film con attenzione, la bambola cerca in realtà di restaurare la sua identità originale, di riacquisire la sua posizione centrale nel marchio Mattel e, quando decide di confrontarsi con il mondo reale, non contesta nessuno ma punta a ricertificare la sua identità.

Il messaggio pertanto è solo in apparenza femminista, soltanto lateralmente perora la causa paritaria. Nel concreto replica le sessioni di gioco tra bimbe alle quali i maschietti non sono ammessi. Più che un manifesto della dimensione femminile in cerca di riscatto, Barbie è il brillante racconto di una bella “ri-giocata” da parte di fan di lungo corso dei prodotti Mattel.

Cosa davvero possano “pensare” i giocattoli del nostro mondo resta (e deve restare) un mistero. Ma è un gradevole mistero che si manifesta ogni volta che la meraviglia del gioco viene messo in scena.

Gianlorenzo Barollo

Ps

Che Margot Robbie sia considerata una opzione come protagonista di un nuovo film di Tank Girl è la dimostrazione che tutto torna, no?

Gianlorenzo Barollo

È un alter ego professionale attratto dall’amatorialità e gran cultore del perseverare nell’errore che ci fa umani. Per pochi ma belli è noto come autore del bestial seller “I pensierini di Mosè” e di “Triscaidecafobia”.

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