Sacri, surreali e psichedelici: tre tracce d’ascolto per l’inverno

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Le sonorità "altre" di Comelade, Perosi e Khruangbin

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Poca luce (e cara). Poco calore (e caro pure quello). Umidità e freddo da vendere. Voglia di raggomitolarsi sottocoperta e attendere un raggio di luce (possibilmente gratis, possibilmente senza alito radioattivo da bomba). Per metterci nel “mood” dell’inverno conviene aprire qualche scatoletta sonora per rallegrare i nostri rifugi anti sconforto.

La prima è di Pascal Comelade: è uscito l’album (ha ancora senso parlare di album?) nuovo che si intitola “Il non senso del ritmo” (Le non-sens du rythme). Se gradite le sonorità low-fi, il minimalismo ben architettato, il gusto frizzante della sorpresa ritmica, Comelade fa per voi.

Nato a Montpellier ma catalano d’adozione, attivo dalla fine degli anni ’70, il nostro è polistrumentista e compositore che si è progressivamente affinato nella combinazione sonora: nelle sue mani di forbice le cosiddette canzoni diventano delle esplorazioni di micro ambienti musicali. L’idea più immediata è quella di un puzzle, però con tanti pezzi e minuscoli dentini d’incastro, tanto che lo sguardo sul totale ci consegna un quadro senza tagli e strappi, un quadro indubbiamente astratto nel quale ogni pennellata si fonde morbidamente. Il risultato è straniante perché dopo una manciata di secondi vi chiederete “cosa sto ascoltando?”.

Già i titoli delle canzoni sono dei camuffamenti che alludono al classico e introducono a scherzose parodie. “Choni bi gutt” è un campionario di micro assoli di chitarre imbizzarrite su un monotono tappeto di batteria. In “Skyn saxo derivato” emergono le note della Van Morrisoniana “Gloria” (forse più vicina alla versione dei Doors) e soprattutto il teatrino dell’orchestra giocattolo, che è il marchio proprio di Comelade.

Nella sua camera (forse cameretta) della musica l’attrezzatura non può prescindere da pianoforti mignon, chitarrine dalle corde di nylon, set di batteria per bambini, xylofoni di latta e tastiere gracidanti: tutto un armamentario da “piccoli musicisti che vogliono fare i grandi” che Comelade usa per smitizzare brani noti della canzone popolare e lanciare sfide all’ascoltatore.

Non si può definire altrimenti una composizione come “Nothing but U” che davvero offre un testo unicamente di “U” intessuto da ritmiche ossessive che si intrecciano ad escursioni pianistiche per creare un ipnotico crescendo. Come spesso accade per questo genere di brani evocativi, si ricorre all’aggettivo “cinematico” e non a sproposito dato che Comelade è anche autore di colonne sonore. La forza evocativa del suono è oggetto di una modulazione che tratteggia paesaggi con pennellate di sentimento: ascoltate “Cimitière de la photographie” e vi ritornerà in mente qualche suite di Wim Mertens. “L’orge parisienne” invece è un racconto ”parlato” che pare una sua personale interpretazione di una rap/trap che vira sulla declamazione poetica (ossia alle origini della spoken word anni ’80) in un efficace impasto lirico.

Pur spaziando nei generi, Comelade conserva una cifra stilistica precisa, che si ritrova più nella ricreazione che nella creazione. Comporre significa rielaborare l’archivio sonoro globale, filtrarlo nella percezione personale che resta ancorata alla giocosità, alla continua sperimentazione di dimensioni interiori. Senza fare grandi sforzi i numi tutelari di Comelade si possono identificare in Erik Satie (autore di tessiture sonore eleganti e labirintiche), nei Residents (gruppo avanguardista degli anni ’70 capace di ironiche scorrerie iconoclaste sui classici del rock) e pure nei Gong (specie nella vena surreale e nell’approccio libertario e anti schematico). L’invito a esplorare non solo il suo ultimo album, ma l’intera discografia è un’occasione per concedersi piacevoli sorprese.

Sorprese che non mancano nell’ascolto dell’opera di monsignor Lorenzo Perosi (1872-1956), autore difficilmente incasellabile: attraversa due secoli seguendo una rotta individuale. Nella sua musica l’orecchio addestrato coglie echi lontani dei giganti della “classica”. Parliamo di Mozart, Schubert, Haydn. Eppure non appena si cerca di mettere a fuoco la citazione, il rimando all’orecchio: ecco che la forma muta e sboccia in uno stadio ulteriore.

Perosi ha un rapporto profondo con la musica, un linguaggio che nella sua concezione è connesso al dialogo con il divino. Centrale quindi la sua produzione di musica sacra, espressione di una fede che palpita di gioia e non trema dinanzi alle manifestazioni dell’eterno. Non si compiace infatti di affermazioni tonanti o categorici leit motive, il compositore tortonese preferisce accompagnare l’ascoltatore in un percorso vibrante, una polifonia architettata per un gentile rapimento dei sensi.

La musicalità di Perosi comprende il recupero del canto gregoriano, che ben si tradusse nel suo incarico di direttore perpetuo della Cappella musicale pontificia Sistina e in un lavoro di fresca rilettura armonica che si rispecchia anche nelle partiture strumentali. Chi pensa alla musica sacra come ad una costruzione soffocata in canoni prestabiliti dovrà ricredersi ascoltando gli oratori perosiani come “Mosè” e soprattutto “Il giudizio universale”, autentiche scenografie dal taglio panoramico e dall’intenso gioco prospettico, davvero dei “tableaux vivants”.

Monsignor Perosi per sua missione di fede e per carattere non certo incline al podio (disturbi di natura nervoso lo tennero in scacco per parecchio tempo), metteva in cima ai suoi sforzi la composizione di musica sacra, ma questo non gli impediva di formulare musica profana d’alta qualità e dialogare con i massimi compositori ed esecutori del suo tempo. I suoi lavori erano apprezzati da Giacomo Puccini, Pietro Mascagni, Arrigo Boito e Leos Janacek, quindi da compositori di opere liriche a librettisti e musicologi di primo piano. In lui si intuiva una vena di novità coltivata da uno spirito originale, capace di misurarsi con gli alfieri della musica moderna di inizio Novecento come Ottorino Respighi, Alfredo Casella, Franco Alfano e Gian Francesco Malipiero.

Il contesto ecclesiastico (o forse il fatto che scrisse l’inno della Dc nel 1946… la faziosità è di casa in Italia) non contribuirono ad una vasta considerazione delle sue opere “profane”. Perosi stesso era piuttosto ritroso nella diffusione di questo materiale, dando precedenza assoluta alle Messe, agli Oratori e ai mottetti, essendo pienamente convinto del valore “aggiunto” di opere legate al messaggio spirituale. Eppure ascoltando oggi i quartetti d’archi o i quintetti per piano ci si accorge della padronanza di un linguaggio ricco nell’articolazione e nella tensione evocativa. In tanti passaggi sembra di sentire la leggerezza profonda di  Joe Hisaishi, Ennio Morricone o Nino Rota, ossia colossi della musica per immagini, e si concretizza così un ponte con il passato costruito su una espressione poliedrica del linguaggio musicale.

Il terzo anello sonoro torna al contemporaneo e al meticciato. Non si può dire altro parlando di una band texana che già ti spiazza con il nome: Khruangbin. Difficile da pronunciare, è un termine preso dal thailandense che equivale a “oggetto motorizzato che vola” ossia un aeromobile. Insomma… ascoltando i Khruangbin la sensazione di levarsi in volo c’è tutta. Ma senza grande apporto meccanico. La band, è formata da tre componenti: DonaldDJJohnson, il granitico batterista, vero metronomo vivente, un battito di pura regolarità che è la colonna portante della musicalità del gruppo. L’incantevole Laura Lee al basso, regina mesmerica della scena, sirena gorgheggiante e bassista serpentina. Completa la triade il lisergico chitarrista Mark Speer che, alla prima occhiata, pare un eccentrico imparruccato dall’aria di una brutta parodia hippie. Ma basta sintonizzarsi un attimo sulle corde della sua chitarra per rimanere piacevolmente intrappolati nella rete argentea dei suoi riff luminosi e carezzevoli.

Appassionato di sonorità lontane, dall’Afghanistan alla vasta fetta di mondo che si estende tra India e Cina, Speer ha modulato la voce della sua sei corde trovando un timbro che associa la contemplazione degli spazi infiniti e il tepore del focolare delle carovane. Tante gocce scintillanti che vengono sezionate nella metrica poetica della sezione ritmica di Lee e DJ.

Davvero, detto e scritto così sembra poco, l’ascolto è necessario per apprezzare l’originalità delle sonorità dei Khruangbin: trio che ha ormai oltre 12 anni di attività. Speer e Lee hanno suonato insieme per Joe Corrales jr. noto come Yppah, un musicista associato alla musica elettronica, abituato a scavalcare i confini tra rock, psichedelia e rumorismo. Quando si scopre che il suo primo disco era uscito per la Ninja tune, etichetta inglese indipendente che negli anni ’90 ha aperto alla musica elettronica le frontiere del trip hop entrando nei territori sacri del jazz e del funk, ebbene si possono intravvedere le radici del progetto Khruangbin: una mente musicale che balza negli angoli meno scontati dei continenti per assorbire la linfa dei ritmi primordiali, i sapori delle spezie locali, gli impasti e le tessiture che rendono ogni album un’esperienza di viaggio dal valore onirico.

Le prime apparizioni di rilievo della band sono in supporto ai ben noti Bonobo (dire che non esiste una sottile linea rossa tra Ninja tune, Cinematic Orchestra e questa band dalle eleganti fusioni sonore sarebbe una bugia) e proprio una loro canzone “Calf born in winter” finita nella compilation del 2014 “Late night tales” convince pubblico e critica della potenzialità del loro sound. Il brano sembra una ninna nanna, addobbata di teneri scampanellamenti in sottofondo, ha la cadenza di un blues lento, ma la chitarra arpeggia evocando dimensioni nascoste benché tenute a freno dalla precisione delle battute. La suggestione di una zona di conforto sonora ti abbandona lentamente dopo le ultime note. Un’introduzione perfetta per il trampolino del primo album, nel 2015: “The universe smiles upon you”. L’opera registrata nel fienile della cittadina di Burton, che è la base operativa delle sperimentazioni del trio, è letteralmente una expo universale delle loro concezioni musicali: è il Khruangbin sound a parlare ed è un racconto che ti trasporta in regioni di quiete, ritmi senza frenesie che si accoppiano al battito del cuore. Non c’è tensione ma un abbandono spaziotemporale in braccia amiche.

L’aereo-Khruangbin non ha fretta di atterrare ed è soltanto nel 2018 che arriva “Con todo el mundo”, disco che approfondisce le panoramiche sognanti del precedente, con pennellate chitarristiche sempre ben controllate, i sospiri melodici di Laura Leee e la precisa confezione del beat di DJ. In “A hymn” e “Rules” Speer sembra giocare con variazioni bacchiane, tonalità arabeggianti e atmosfere fantasmagoriche in salsa texmex.

L’anno successivo si sale “Hasta il cielo”, un album di remix che offre un respiro nuovo ai brani e indica direzioni espressive al trio. E in particolare si nota lo sforzo di andare oltre il canone compositivo strumentale. La base ritmica, il basso e la batteria, inizia a manifestarsi con più decisione ma senza alzare la “voce”. E’ come se il microfono direzionale sia stato disposto per inquadrare una conversazione secondaria. Speer si manifesta in forma di eco dietro le cortine mobili dei bassi e dei beat e puntella escursioni funkedeliche sempre più evidenti (insomma, arrivano pure i bonghi).

Mordechai, terzo album, fa tesoro del bagaglio acquisito e vede escursioni convinte dalla dimensione strumentale per giocare con la forma canzone, complice la bella voce di Laura Lee. Time (you and I) è un funky trascinante che profuma di seventies e crepita di piccole invenzioni percussive. Connaissais de face è una canzone-dialogata che ricorda alcuni classici italiani, sempre in area anni ’70. La chitarra di Speer è meno centrale, meno avvolgente e dispendiosa nello sviluppo melodico, salvo poi prendersi la rivincita in Father bird, mother bird, un volo pindarico compiuto tutto d’un fiato. I Khruangbin poi sorprendono con una canzone danzereccia spagnoleggiante come Pelota, a dimostrazione della piena padronanza degli stili e della scarsa soggezione con le etichette di “musica commerciale”. Quel che conta è la spontaneità, il divertimento che anima l’intento. E l’impressione è che con Mordecai si sia cercata una maggiore empatia con il pubblico, soprattutto nei live.

Arriviamo così al quarto fresco capitolo del terzetto texano: Ali. E’ con il coraggio di chi non vede steccati nella musica i Khruangbin approdano nel continente africano, in Mali, per affidarsi alla voce di Vieux Farka Touré, figlio del più noto Farka Touré (1939-2006), polistrumentista e padre del desert blues. Non si poteva immaginare matrimonio meglio riuscito: la chitarra di Speer ha viaggiato mezzo globo per incrociare le storie dei griot (narratori e poeti) dell’Africa occidentale. Buona parte dei brani sono cover di Touré padre, ma sinceramente chi potrebbe dirlo… l’amalgama tra queste nascite distanti, queste culture lontane è talmente ben riuscito che ancora una volta di più le etichette di provenienza paiono superflue. Ed è bello tuffarsi in mare di musica che nasce da mille rivoli diversi, da situazioni e incontri impensabili, personalità scostanti e agli antipodi eppure in grado di produrre melodie che alle nostre orecchie suonano naturali quanto un soffio del vento nei campi o il gorgogliare di un ruscello di montagna.

Prima di augurare buon ascolto pescando nel piccolo stagno degli autori suggeriti, un ulteriore caloroso consiglio: il video del Pitchfork live del 2018 disponibile gratuitamente sulle maggiori piattaforme è una summa perfetta per un tour musicale sul bus volante dei Khruangbin.

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Gianlorenzo Barollo

È un alter ego professionale attratto dall’amatorialità e gran cultore del perseverare nell’errore che ci fa umani. Per pochi ma belli è noto come autore del bestial seller “I pensierini di Mosè” e di “Triscaidecafobia”.

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