L'arte delle domande seriali: essere, avere e la ricerca di un senso

“Dall’essere o non essere” di Amleto al “Che fare” di Lenin, il tema del senso dell’esistere attraversa irrisolto la nostra ultra millenaria filosofia. “Che ci faccio io qui?” o “Fermate il mondo, voglio scendere”: domande e appelli si sono alternati o ripetuti in miriadi di varianti e con obiettivi variabili.
Se un soffio vitale ci ha portati qui, sulla spiaggia dell’essere, allora ci sarà un motivo?. Vivere, sostentarsi, gioire, soffrire: tutto ciò ha un significato? C’è uno scopo ultimo in questo viaggio? Per illuminare un arco vitale dobbiamo cercare dentro di noi o appellarci a qualcosa che sta fuori, inconoscibile ma intuibile?
La religione è la risposta forse più naturale, il credente prende dimora in un edificio saldo, costruito secondo un disegno divino, ultraterreno, non comprensibile con i mezzi razionali perché basato su fondamenta dogmatiche ed eretto con i mattoni della fede. Chi crede però sa di partecipare ad un piano definito e accetta di farne parte, pur sapendo di non poterlo conoscere interamente: la conoscenza non è di questo mondo, quello che conta è conformarsi al progetto che si estende oltre le frontiere della materia e ha la sua rivelazione nella dimensione dello spirito.
Un’altra soluzione al dilemma dell’essere? L’obiettivo del “Che fare” di Lenin, onda rivoluzionaria del pensiero materialista, è riportare il senso del vivere nell’azione collettiva, nella spinta individuale per il beneficio generale – altrimenti detta progresso – che riassegna alla realtà i valori della politica. Il singolo uomo è privo di significato se la sua particella non concorre alla reazione a catena volta a disarticolare l’abbraccio opprimente del capitale alla produzione.
L’analisi leninista risente della lettura della società articolata in classi e incardinata nei meccanismi dell’economia. Non c’è spazio per l’immateriale che resta e deve restare fuori dal campo di azione. E anche del pensiero.
Ma l’uomo in bilico non smette di pensare, anzi. William Shakespeare raccontando il dilemma di Amleto di fronte all’omicidio del padre e al tradimento della madre (si è messa con lo zio) sembra prigioniero di un incubo. L’unico modo per forzarsi all’azione consiste nel reclutare degli attori e rappresentare il suo sospetto, ovvero raddoppiare la realtà. In questo gioco speculare tra palco e platea innesca il processo per rimettere in moto la storia e ritrovare il suo ruolo nel compimento della tragedia.
Nel 1942, in piena seconda guerra mondiale, viene pubblicato il romanzo “Lo Straniero” di Albert Camus: il protagonista è un uomo che precipita in un crimine e nella relativa condanna senza passione, quasi senza emozione. Un Amleto senza regno e senza dilemmi. Accetta quanto gli viene riservato perché dentro di sé avverte che l’esito della sua storia umana sarebbe stato comunque lo stesso: la morte. Pertanto è indifferente scegliere o pensare di poter scegliere, opporsi o soppesare.
Meursault – protagonista del racconto, narrato in prima persona – scivola nella vita, è uno spettatore indifferente, che naviga a vista e a pelle, senza essere superficiale. E’ una persona che parla poco, perché non ha molto da dire e non ama parlare a vuoto. Forse seguendo le indicazioni di Ludwig Wittgenstein “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.
Meursault è un giovane introspettivo, legge le emozioni altrui, ma fatica a attribuire la “giusta” collocazione – ossia quella comune -, perché il mondo che guarda sta oltre una patina di indifferenza. Le sue azioni sembrano guidate da pulsioni e circostanza: il caldo, la luce, suoni lontani che accendono ricordi e suggestioni. Anche quando preme il grilletto per colpire a morte un giovane arabo sembra guidato da una misteriosa malia, piuttosto che da un sentimento autentico. Due sono le correnti che governano Meusault: il disinteresse, ergo la noia e le circostanze ambientali, ossia il constesto materiale, l’habitat. La sua unica presa di posizione, ferma e determinata, è la dichiarazione di non credere in Dio.
Il libro è indicato come una delle pietre miliari dell’esistenzialismo, anche se Camus non intendeva creare un racconto filosofico. L’esistenziale di Meursalut è un atteggiamento che non è elaborato, pare più un’adesione ad un modo d’essere piuttosto che un pensiero. Un personale “sentire” che si rivolta quando gli viene imposto un credo. L’ateismo dichiarato del personaggio ha una radice biografica: il padre è una figura assente nella sua vita e di riflesso anche il “grande padre”.
Nel finale, dopo un confronto serrato con il prete che lo vuole confessare afferma: “Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora.”
Senza legge morale dentro di sé, ma soltanto stelle lontane che ammiccano sulla sua testa, lo “straniero” non avverte il bisogno di trovare un senso alla vita, se non quello di viverla.
Una risoluzione opposta a “Henry pioggia di sangue”: film del 1986, una specie di anatomia del serial killer urbano (pre Silenzio degli innocenti e quindi in anticipo sulla fascinazione dell’omicida a cottimo che ha imperversato poco dopo) nel suo squallido quotidiano. La sceneggiatura è ispirata alle confessioni di Henry Lee Lucas, accusato di ben 214 omicidi (anche se togliendo i millantati e gli attribuiti la cifra potrebbe calare di molto, e infatti fu condannato per 11).
Il ritratto cinematografico di Henry è quello di un razziatore amorale e privo di ogni traccia di empatia: non uccide per necessità e neppure per diletto, semplicemente perché sa farlo. Agisce sfruttando l’occasione, dando sfogo da un istinto, senza giustificazioni o premesse: uccidere è il suo compimento dell’essere al mondo. E’ il “perché” funzionale di un predatore di uomini. Il suo credo potrebbe essere riassunto in: uccido dunque sono.
Il concetto del body count (il conto dei cadaveri) prendeva forma nell’immaginario pubblico proprio in quegli anni. Grazie al cinema (l’iper violenza di John Woo & soci di Hong Kong stava navigando verso i porti occidentali) e soprattutto ai videogame che, evoluti nella grafica e nel sound, iniziavano a offrire un po’ di malsano realismo. Dribbliamo subito l’equazione videogame uguale violenza, giacché l’uso della forza appartiene non solo alla cultura umana ma alla nostra stessa natura. Ergo, vedere la violenza convogliata in un’opera di tecnica e intelletto, non è una aberrazione bensì una conferma della nostra fascinazione come specie di fronte all’atto violento. Sopprimere il prossimo per dare senso a sé stessi? In molti videogiochi pare questa la sottotrama. Nel 1986 uscì Ikari warriors (SNK): uno sparatutto che ha come protagonista un “ignoto” milite a torso nudo, fascia rossa attorno alle tempie e mitragliatore spianato. Ogni similitudine con John Rambo è… puramente incidentale.
L’omino spara e lancia bombe a simil vietcong, falcia e stermina per farsi strada tra gli avamposti nemici nella foresta verdeggiante di pixel: eliminare per non essere eliminato. Il senso dell’essere ridotto al meccanismo della sopravvivenza. Come un salmone, il guerriero risale lo schermo infittito di trabocchetti e insidie per cogliere il significato ultimo. Certo, c’è la missione: deve compiere un salvataggio, onorare un patto di sangue, stabilire il prezzo del piombo e del petrolio. E c’è la conferma che il significato non sta nel fine, ma nel mezzo, nelle modalità del viaggio che offre la possibilità di esprimerci, ossia di essere.
Un paio di anni dopo uscì “Schegge di follia”. Film di non facile classificazione, tra il grottesco e il thriller, un’opera sparita per decenni dai canali televisivi. Due i motivi principali: la protagonista Winona Ryder caduta in disgrazia per un caso di taccheggio e la successiva frequenza degli assalti omicidi alle scuole, a partire da Columbine. Infatti l’ambientazione è quella dei college americani di provincia, imbevuti di arrivismo (una volta marchiato come “edonismo reaganiano”) e paranoie classiste.
Nel film Veronica/Winona è una ragazza insofferente della cerchia delle algide e pretenziose reginette della scuola, che si fa ammaliare dal nuovo arrivato: J. D. (un iconico Christian Slater) il giovane tenebroso, il tipico bello e dannato uscito dai classici come Il Selvaggio (Marlon Brando) e Gioventù bruciata (James Dean). Veronica non è certo una innocente studentessa e subito si fa coinvolgere in un gioco di scherzi pesanti che scade nel morto, abilmente “camuffato” da suicida.
L’aspetto che sorprende è come i due complici riescano a sublimare il peso delle morti causate: le vittime sono persone spiacevoli e odiose che il presunto decesso autoinflitto riesce a nobilitare. Veronica e J.D. navigano attorno alla convinzione di avere quasi compiuto una buona azione, anzi doppia: riabilitare personaggi pessimi – in memoria – e nel contempo mandare un messaggio critico ad una società che alleva generazioni vuote e votate ad una competizione lacerante e autodistruttiva.
Nelle parole di J. D. il “fare morte” per dare un senso alla propria vita raggiunge il culmine nel progetto di una strage travisata da suicidio di massa, un atto estremo di protesta: “Sarà una cosa che lascia il segno su un’intera generazione. Sarà la Woodstock degli anni ’80”.
Lo sceneggiatore Daniel Waters, alla sua prima prova, sa rappresentare il malessere giovanile della periferia americana, irretita dalle sirene dello yuppismo, dalle sottomissioni e dalle esclusioni che rafforzano le carriere e consolidano le posizioni sociali. Una gioventù cullata da genitori assenti, compiaciuti soltanto del quieto conformismo di facciata adottato dai loro rampolli, tutto va bene purché non si faccia troppo rumore. Il riscatto di Wynona/Veronica non ha un valore morale, è una reazione contro la corrente per autoassegnarsi un valore individuale. Lei è una ribelle con cognizione di causa acquisita, che si oppone alla tragedia, al disagio di una vita di miseria interiore già scritta. Un disagio che imploderà negli anni successivi dagli ululati del grunge fino al teatro del dolore dell’emo.
A ben guardare “Schegge di follia” nella sua combinazione di commedia e tinte nere anticipa molti elementi stilistici e iconici poi cesellati da Twin Peaks: personaggi estremamente caratterizzati da sembrare piatte figurine, ma con molti angoli oscuri. E infatti l’opera di David Lynch nel 1990 fa a pezzi il senso comune: un omicidio in un paesello diventa un indagine collettiva sulla dualità del bene e del male. Tutti gli stereotipati protagonisti nel dramma della morte di Laura Palmer si amplificano e rivelano radici luminose che vanno oltre l’orizzonte della materia e le categorie dello spirito. Somigliano agli stregoni “guerrieri” dei libri di Carlos Castaneda: a prima vista modesti indio addomesticati, eppure padroni di una consapevolezza superiore nel dialogo continuo tra l’universale e il particolare. Neppure loro, depositari di antiche saggezze semi occulte, hanno la risposta al perché siamo qui: ”Non è possibile riferirsi all’ignoto, dell’ignoto si può soltanto essere testimoni” (L’isola del Tonal di Castaneda).
Ecco allora un briciolo di conoscenza convidisibile dagli “uomini di potere” del Tonal: siamo limitati da necessità, da impulsi, da condizionamenti e costrizioni sociali e culturali, difficile affermare la propria autonomia nella nostra “bolla di percezione” del mondo. Eppure in questa lotta quotidiana siamo doppiamente protagonisti e testimoni della forza della vita. Il senso è oltre e noi ne siamo parte, perché sperimentiamo soltanto temporaneamente la separazione dal tutto che chiamiamo vita. Ognuno è un momentaneo agglomerato di eternità, sospeso tra la ragione della religione e appeso ai legami della logica, una risposta valida per tutti non c’è. Non è un caso che ci interroghiamo da millenni senza sosta.
Farsi domande, in fin dei conti, è comunque un buon modo d’essere.
Gianlorenzo Barollo
