Time machines: bighellonando nel tempo tra warp, continuum e vortici

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Mini mappa cinematografica per autostoppisti del tempo perduto

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Viaggiare nel tempo: un sogno a occhi aperti? Una ventura possibilità tecnologica ? O una via per espandere la coscienza individuale? Andiamo con ordine (finché si può).

Il primo viaggiatore del tempo dell’era moderna – o almeno il più noto – è Herbert George Wells. Con la sua fantasia è l’ideatore della macchina capace di attraversare decadi ed ere e proiettare l’uomo verso nuove conoscenze, all’esplorazione dei propri limiti. La storia di The time machine (pubblicato nel 1895) la sapete: un inventore britannico, in epoca vittoriana, animato dallo spirito dei grandi esploratori si spinge ad osservare il futuro remoto dell’umanità. Approda approssimativamente all’anno 800.701 scoprendo una doppia degenerazione, da un lato l’ozio degli Eloi che ne atrofizza il cervello, dall’altro la brutalità dei Morlock, adoratori della tecnica decaduta in mero sfruttamento. Uno sfruttamento che al viaggiatore temporale appare doppiamente orribile: per via del cannibalismo e per la prospettiva di un equilibrio sempre più precario, condannato all’autodistruzione. Insomma, il messaggio dell’autore è lampante. Il futuro ci riserva la tempesta che stiamo “coltivando” oggi.

Wells opera una lettura critica della società del suo presente: dipinge gli Eloi molli e fatui come la classe dominante dei suoi tempi, tratteggia i Morlocks come una classe lavoratrice brutalizzata, avvinta alla macchina fino a perdere i connotati umani. Nel futuro di Wells i caratteri peggiori dell’uomo non sono soltanto amplificati ma radicati in una ricombinazione che esclude etica e morale. I valori della civiltà si sono spenti, non esiste più futuro per l’umanità, soltanto la continuazione di un nuovo ordine naturale. E’ la devoluzione, bellezza!

Nel delizioso film The time machine di George Pal (1960) alla trama si include la minaccia della guerra atomica. La bomba è lo spartiacque radioattivo che divide l’umanità in quelle che diventeranno due razze distinte, ma comunque connesse dalla catena alimentare per garantirsi la reciproca sopravvivenza. Archiviate cultura e morale, le leggi della natura tornano ad imporsi.

Stesso anno e stesso tema in Beyond the time barrier (Oltre la barriera del tempo). Qui nella trama manca la base letteraria di un romanzo, la supplisce la cronaca: la corsa allo spazio degli Stati Uniti in competizione con il Paesi del blocco sovietico, l’escalation militare sullo scacchiere mondiale che aumenta il rischio di una scintilla fatale nella polveriera nucleare. Nel film diretto da Edgar G. Ulmer in un bel bianco e nero che valorizza le pur povere scenografie, il viaggio nel tempo avviene in forma accidentale. Il pilota di un veicolo sperimentale sub orbitale viene proiettato nel futuro post atomico e post “peste cosmica”, lacerato dal conflitto tra mutanti e i superstiti umani piagati dal mutismo e dalla sterilità. Un futuro poco allettante, situato nel 2024. E con un finale aperto su una battuta “epocale”: Signori, abbiamo molto di cui pensare”.

Pensieri che non mancano certo ai viaggiatori del tempo che narrano la loro avventura quattro anni dopo. Siamo sempre negli Stati Uniti, e l’indomito regista Ib Melchior si trova a dirigere un suo soggetto, The Time Travelers (1964) con un budget piuttosto risicato. Nonostante ciò mette in scena idee che ritroveremo in opere successive: la macchina del tempo è una sala operativa, può visionare eventi nel corso dei secoli e – anche qui in forma accidentale – spostarsi lungo il continuum spaziotemporale.

Il team dei crononauti è composto da quattro ricercatori che operano in un campus universitario. Lo sbalzo temporale porta i nostri eroi nel futuro, in uno scenario di desolazione desertica che risponde all’anno 2071. Il tecnico discolo del gruppo si accorge che il loro schermo non è più piatto, è diventato un portale: possono letteralmente attraversare la barriera del tempo, come fosse una finestra (se la procedura vi ricorda la serie tv del 1966 Time Tunnel di Irvin Allen, non è di sicuro un caso). Ovviamente lo sciagurato non esita a varcare la soglia.

Neanche un giro di lancetta piccola e il quartetto si ritrova alle calcagna un drappello di indiavolati mutanti, con pochi argomenti e molta sete di sangue. Nella fuga si imbattono nell’ultimo avamposto di “vecchia” umanità: una comunità di tecnici e scienziati che sta per lasciare il pianeta, ormai contaminato dalle radiazioni, a bordo di un super razzo con destinazione Terra promessa, nei pressi di… Alpha Centauri.

Peccato che sull’astronave non ci sia posto per il team di gitanti temporali, costretti a riprendere il flusso del tempo con mezzi propri e la speranza di dare un passaggio alla playmate Delores Wells (fanciulla di spicci approcci che dal cognome potrebbe andare in loop parentale con il nostro George ma… chissà). Asciugando lo spoileraggio per lasciarvi il piacere di riscoprire questa perla, diciamo soltanto che la Terra promessa arriverà per un happy end, calibrato alla modica distanza di centomila anni nel futuro.

La vicenda descritta in questo B-movie ha comunque creato una certa risonanza (o forse la tematica del dramma spaziotemporale aveva un appeal radicato, dato che nel 1966 usciva il film Cyborg 2087, una sorta di “papà” di Terminator), che si è tradotta in un remake – o meglio un reboot con riciclaggio di qualche scena – dal titolo altisonante Viaggio al centro del tempo (Journey at the center of time – 1967).

Non ingannatevi, Jules Verne non fa capolino nella trama e neanche la fata dell’originalità: la traccia narrativa è la stessa del 1964, ma con alcune significative differenze. La ricerca sulla natura dello spaziotempo è finanziata da privati e il boss della situazione vuole risultati concreti e rapidi dal gruppo di cervelloni che si baloccano con circuiti e bottoni.

Nelle brusche maniere di Scott Brady sembra di vedere il decisionismo delle attuali mega società, governate da individui rosi dal desiderio di incassare e incuranti del fattore umano. Purtroppo per lui, nella cruciale dimostrazione sperimentale mette troppa agitazione al team scientifico e il fatidico incidente scaglia la saletta temporale a cinquemila anni nel futuro. Qui i nostri avventurieri si imbattono in una spedizione aliena di umanoidi dalle carnagioni variamente dipinte: sono arrivati sulla Terra in un viaggio della speranza da un mondo morente, ma – orrenda beffa – hanno trovato un mondo contaminato. I soliti mutanti/superstiti rimbecilliti da radiazioni e paranoie, gli fanno una guerra spietata. Il disastro è dietro l’angolo.

I viaggiatori del tempo si imbarcano di nuovo nella loro navicella imbizzarrita sulle piste del tempo, nel desiderio di ritrovare la strada di casa. Il finale è aperto, verso una frontiera inesplorata (almeno finché qualche sceneggiatore non si cimenterà): il centro del tempo. Un concetto originale questo, che si distacca dalla linearità del nostro modo di intendere la successione degli eventi.

L’idea di un “centro” cancella l’immagine del tempo come corsia stradale da percorrere nelle due direzioni (cosa che fanno le macchine wellesiane). Il regista e sceneggiatore David L. Hewitt accenna alla teoria di un certo Albert Einstein – che tanto teoria non è – per suggerire una natura del tempo più articolata rispetto alle sequenze del prima e del dopo. Il tempo non è più un assoluto, è relativo, si definisce nelle comparazioni dovute ai “giochi” della velocità della luce e nelle compressioni gravitazionali delle masse stellari che curvano lo spazio.

Parlare di un “centro del tempo” ha un senso – illusorio – quando ci guardiamo allo specchio e ci riconosciamo nel presente. Le cose si fanno più complicate quando ci sganciamo dall’esperienza umana che organizza la realtà in base a percezioni e sensazioni. Il viaggio fuori dall’ordine del tempo perde la direzione della narrazione per vagare in dimensioni fuori dal continuum del reale. In sostanza anche viaggiando al centro o alla periferia del tempo (qualunque cosa voglia dire), non saremmo attrezzati per offrire un racconto coerente di esperienza extra temporale.

Kurt Vonnegut nel suo stupendo Mattatoio n.5 si è posto il problema quanto ha introdotto i Tralfamadoriani, esseri quadridimensionali che conoscono il tempo nella sua totalità e lo vivono in contemporanea. E’ estremamente difficile trovare una forma che descriva la visione dell’esistenza fuori dal tempo che conosciamo: quello autoreferenziale legato ai nostri stati d’animo e quello convenzionale che misura le nostre giornate.

Forse questo spiega la difficoltà interpretativa della trama de Il giorno in cui il tempo finì (1980). Siamo sempre in zona B movie e l’opera diretta da John Cardos non è proprio uno dei titoli più acclamati del genere fantascientifico del periodo. Immaginatevi una famigliola con nonni sprint che va ad abitare in una tenuta nel deserto di Sonora mentre dallo spazio giungono gli effetti dell’esplosione di una tripla supernova. Il soggiorno dei protagonisti è turbato da apparizioni di Ufo, vortici di luce, mini astronavi e rettili-anfibi animati in stop motion, messaggi telepatici a minorenni (soggetti sempre ideali per consegnare avvertimenti di importanza epocale…), tempeste di vento dal nulla e giramenti di stelle (uno dei titoli durante la lavorazione era appunto Vortex) da acid test.

La summa recitativa è un collage di tanti strepiti e sguardi basiti – gestiti comunque decentemente dagli attori alle prese con presumibili buchi bianchi del copione – di fronte a situazioni che non trovano alcuna spiegazione logica, se non una sorta di apocalisse strisciante di origine stellare.

Lo spunto è sicuramente più intrigante dello svolgimento: la dissociazione tra tempo e materia infatti può essere raccontata soltanto nella maniera più temuta da Fantozzi, ossia attraverso il montaggio… connotativo. Si tratta dell’accostamento di immagini che non hanno un’attinenza immediata e consequenziale nell’esposizione dell’evento narrato, ma entrano nel campo dell’astratto e del simbolico.

Il cinema, con le sue associazioni visive ad alto impatto, ha gioco facile nel rappresentare un viaggio spazio temporale. L’immagine, la nostra fonte privilegiata di percezione, comunica nell’immediatezza, nel presente e ci parla ad un livello che scavalca le regole del linguaggio parlato o scritto. In 2001: odissea nello spazio, Stanley Kubrick rappresenta il viaggio finale dell’astronauta Bowman con una sequenza tempestosa di panorami e colori, intermezzi ad alta intensità emotiva ma prive di una interpretazione univoca.

Il tempo per creare la sua illusione di continuità si avvale della regia del nostro cervello. Le sequenze del nostro quotidiano sono racconti ordinati secondo una logica interpretativa che attinge alle esperienze, alle conoscenze, alla cultura alla quale apparteniamo. Tutto ciò definisce un ordine temporale, che però è un’interpretazione del reale.

Virginia Woolf e James Joyce, quasi un secolo fa, scrissero opere di una forte originalità formale, connotate da una struttura definita “flusso di coscienza”: la tecnica narrativa mira a rappresentare i processi del nostro dialogo interiore – il nostro regista – nella rappresentazione del suo rapporto con il mondo esterno. Un dialogo che si allontana dalla meccanica causa-effetto e quindi anche dall’ordine consequenziale del tempo, mostrando il pensiero e il pensatore in azione.

Wells avrà quindi costruito la Time machine che ha fatto fantasticare tanti avventurieri in pantofole, ma è nelle pagine dell’Ulisse di Joyce che possiamo trovare il “carburante” per immaginare un viaggio fuori dall’autostrada del tempo.

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Gianlorenzo Barollo

È un alter ego professionale attratto dall’amatorialità e gran cultore del perseverare nell’errore che ci fa umani. Per pochi ma belli è noto come autore del bestial seller “I pensierini di Mosè” e di “Triscaidecafobia”.

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