
Pensai che fosse finita. Milioni di miglia. Spazio vuoto, buio e vaghe stelle in movimento. Poi una di quelle luci prese a ingrandirsi. Pareva un tondo disegnato su un cartoncino nero da un bambino con la tosse. Era inquietante, ma il pilota automatico mi stava portando dritto laggiù. Non potevo dargli torto, se quel viaggio maledetto doveva finire era meglio schiantarsi su un solido pezzo di roccia. La prospettiva di una morte senza sepoltura, per restare perennemente in balia delle correnti solari nel cosmo sterminato, in quel momento non mi sembrava granché affascinante.
Siamo tutti filosofi aperti al non essere quando stiamo in poltrona, con un bicchiere di Vecchia Romagna in una mano, un libro di Lucrezio nell’altra e attorno le note saltellanti del Coro di morti di Petrassi. Eroi a buon mercato, oggetti d’ammirazione mobile nei salotti decorati da gorgheggi garruli di carampane ingioiellate e panciuti commendatori. Oh, quante vane vanterie sui Mach infranti la scorsa settimana tra gli avieri medagliati alle tavole rotonde d’astronautica. Tutto l‘armamentario delle fanfaronate sullo sprezzo del pericolo mi scorreva nella mente come il nastro calcolatore di un centro meccanografico.
Il mio cervello si stava disallineando dalla pista perforata del suo omologo elettronico e iniziava ad aprire la valvola della paura. Cosa che trovai tutt’altro che disprezzabile: quel tormento doveva avere una fine.
Le letture degli strumenti sotto lo sfarfallio delle luci rosse e gialle mi informavano che ero entrato in un campo gravitazionale. La velocità d’avvicinamento al corpo celeste purtroppo non riuscivo a percepirla. Ma le cifre del contatore si erano animate, macinavano le centinaia in pochi secondi. Anche le mie pulsazioni crescevano. Il fiato mi appannò la visiera del casco. Lo tenevo avvitato da un’eternità. Da quando il rendez-vous con l’Athena era fallito. Una brutta botta in fascia ultra orbitale. La procedura imponeva di indossare la tuta pressurizzata per evitare mancamenti del pilota. Pilota… che risate. Ero un transistor umano, saldato su un sedile e sigillato in quello scafo abbozzato, poco più di un rocchetto di lamiera e cavi di rame.
Avevo paura di toccare l’oblò, che si era riempito della macchia che inesorabile mi attirava. Temevo potesse rivelarsi semplicemente una artistica crepa nel vetro doppio. Sarebbe stata una beffa atroce.
Cercavo di liberarmi dalla tentazione di togliere lo scafandro maledetto che mi imprigionava come un pesce rosso in una boccia d’acqua stantia. Ormai respiravo un brodo di me stesso, fumi di adrenalina bruciata e zolfi amari di paura. Fortunatamente il mio stomaco reggeva, vuoto e teso quanto una bandiera piantata su uno di quei foschi satelliti carichi di promesse minerarie.
L’abbraccio finale era vicino. L’oblò mi mostrava la pelle butterata del mio ospite cosmico. Indifferente come sempre alle sorti dei composti di carbonio esalati dal terzo pianeta.
Le luci rosse presero a lampeggiare. Si rianimò pure l’altimetro. Non sapevo se quell’asteroide avesse o meno un’atmosfera, ma certo aveva massa. Non era una nebulosa fantasma, aveva una consistenza. E questo pensiero mi diede un fugace sollievo: nel caso peggiore avrei avuto una solida sepoltura.
I razzi presero a soffiare in direzione contraria al senso gravitazionale. Stavo planando sul dorso di un’isola nello spazio. Un paio di scossoni ravvivarono la ferale staticità di bordo. Desideravo posare le gambe sulla terra, almeno un ultima volta. Le vibrazioni dell’intera struttura suggerivano una certa resistenza atmosferica, con un po’ di fortuna avrei potuto anche sganciarmi dalla testa quell’elmo costrittore. Una spia però prese a cicalare, e con frequenza sempre più intensa. Guardai l’altimetro: 4000!
Disinserii il pilota automatico. Se dovevo crepare sarebbe stato per un errore mio. Impugnai e leva del propulsore con le dita intorpidite. Mi ritrovai addosso il peso dell’intero modulo. Anzi, io ero il modulo. Liberai le zampe dell’Aquila sospirando uno scongiuro sulla tenuta delle sospensioni, dovevano ammortizzare la chiusura della calata con una taratura casuale.
Quante volte l’avevo provata nei test: caduta libera, volo cieco. In palio c’era un sorbetto alla fragola post training per chi conservava abbastanza combustibile per il decollo. Un temutissimo timer scattava calcolando la qualità della prestazione e per chi falliva, a fine corsa, c’era il saluto di un burlesco trillo da Looney tunes. Il siparietto della vergogna. Ammetto che ne feci una scorpacciata di quei sorbetti, da avere la nausea alla sola vista di una fragola. In mezzo al cosmo ostile però era un’altra faccenda.
Sperduto in quel cielo nero, non era il momento di aggrapparsi a sogni di campi di fragole. I getti rispondevano bene. Tenevo la cloche con presa delicata come fosse un pezzo di sapone bagnato. Mancavano soltanto due chilometri quando avvertii lo sfasamento sul lato sinistro, il mio stomaco confermava. I numeri dell’altimetro erano soltanto una linea bianca tremolante. Dovevo riprendere l’assetto, mi aggrappai alla leva e il propulsore principale tuonò attraverso la mia spina dorsale. Tremava tutto, ero una porzione di gelatina e carne in scatola agitata da tra le fauci di un cagnolino affamato. Chiusi gli occhi, lasciai fare al mio maltrattato senso dell’orientamento e alla roulette quadrata della fisica newtoniana.
Prima dei manometri e delle lucine, fu il mio stomaco a comunicarmi che ero giunto a destinazione. Dall’oblò mi salutava una fetta di formaggio, mezzo grattugiato e vagamente spalmato dalla pressione di antiche collisioni. Un trillo mi richiamò ai comandi. Controllai il quadrante. Il propulsore era semiscarico, ma il pigolio che mi tormentava non lo riguardava. Ossigeno? Acqua? Batterie? No. Nulla. Oh, era la sigla della valutazione. Risi. E la risata si confuse nel clangore del modulo che mi avvolgeva. Un abbraccio finale prima di sbriciolarsi e unirsi alla polvere senza data di quell’anonimo cimitero spaziale. Missione incompiuta. Ma mi ero guadagnato un bel angolo per riposare. Forse.
Tasto F1
Pensai che fosse finita…
Ecco tutto ciò che avete letto qui sopra è ovviamente una fantasia, una ricostruzione narrativa non autorizzata che mi balenava in mente a tratti giocando a Lunar lander nel secolo scorso. Attenzione però, non il Lunar Lander della sala giochi. Ossia quello bicolore con le tre postazioni d’atterraggio e il carburante centellinato. Intendo invece il Lander del Commodore 64. Un gioco in formato slot – la cartuccia si incastrava nella parte posteriore dell’home computer e si caricava subito alla faccia del datassette – che con magnanimità inusitata era stato accluso al momento dell’acquisto. Io e mio fratello avevamo già il piede sull’acceleratore della fantasia beandoci della confezione illustrata. Spazio, ultima frontiera, informatica domestica, primo gradino.
La possibilità di giocare tra le mura di casa un videogame accessibile soltanto al bar ci pareva un lusso d’altre tasche. E quindi subito sotto. Niente joystick ma tasti: frecce per lo spostamento orizzontale e un tasto funzione per il getto del propulsore. Il più importante. Fondamentale per il dolce atterraggio. Premerlo troppo significava perdere il controllo, addirittura rimbalzare fuori schermo. Per i troppo parsimoniosi l’avversario era l’accelerazione. Mai abbandonarsi troppo alla caduta libera. A meno d’essere a corto di carburante. Infatti i punti si facevano con gli allunaggi rapidi e nei siti più ostici. Naturalmente la difficoltà progressiva non dava scampo. Ma tutto ciò ovviamente valeva per il Lander del bar.
Ci provammo almeno 50 volte noi astronauti casalinghi. Atterraggi poco meno che perfetti, traiettorie pulite, sprechi di carburante contenuti. Ma due secondi dopo che le zampe si erano posate, ecco tre note beffarde d’epitaffio e un botto mortale. Perché? Si capì che la banda laterale dell’altimetro indicava un ulteriore margine da rispettare. Una fettuccia strettissima nella quale occorreva centrare la linea di riferimento dell’altitudine del modulo. Una pesantissima condicio sine qua non che valeva un tributo supplementare di getti, col risultato di trovarsi a secco già alla prima base. Del resto il titolo del gioco lo specificava: non sulla Luna, ma su Giove si cercava si arrivare. E il tentativo di “aggiovarsi” probabilmente doveva contemplare un extra di complicazione – forse di tipo gravitazionale – seguendo magari l’idea contorta di allungare così la vita al gameplay. In definitiva, nulla di memorabile. Neppure nelle tecnofantasie di dei fan di astroSamantha.Tranne forse per una ristretta cerchia di aspiranti sadomastronauti da Mongo, dominio di Ming lo spietato. Pare di udirlo l’imperatore: nel mio spazio nessuno può permettersi di gioire. Al RetroEdicola Club invece è la libera consuetudine.
Gianlorenzo