Totem Recall – Nostalgie Giurassiche

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In un’atmosfera corrusca e densa di nuvole stratificate dal fumo vulcanico, attendo. Il calore umido rende l’aria quasi bevibile, ma le dita sul fucile non scivolano. Il calcio di legno massiccio concilia la presa, anche se l’indice poggiato sul grilletto che pare uno scivolo. La foresta gocciola tra i lampi che gareggiano con sibili sinistri e tellurici tremori. Poi un ruggito metallico trafigge le orecchie: eccolo! La testa, simile a una torre, spunta dagli asparagi affastellati che fanno da cortina all’orizzonte. Il pesante fogliame vibra al ritmo dei suoi passi rostrati. È ancora troppo lontano, bersaglio confuso. Grida di piccole creature, il passaparola del pericolo, innescano la fuga di massa. La foresta pare ribollire, ma io non mi muovo. L’ho quasi nel mirino…

Io ho sei anni compiuti e mi affaccio alla terra nuova di un paese sconosciuto. So che è in provincia di Bergamo, che ha il nome di un pittore famoso. Nient’altro, non so che aspettarmi. So che sarà un’avventura, per me e per la mia famiglia. La casa è quasi pronta. Dentro e fuori formicolano muratori nelle classiche tenute in sbaffi di calce e cappelli di carta. Dormiamo in albergo un paio di notti. Pare una locanda del ‘700 e non mi stupirebbe sentire il passo legnoso di Long John Silver in corridoio. Si mangia fuori, in un locale pionieristico che abbina coraggiosamente il doppio menu ristorante pizzeria. Sembra una grande villa trasformata all’uso. L’aiuola curata all’ingresso con un gioco di marmo e finta pietra. Il rosso dei mattoni e il pavimento in cotto per un tono di rustico elegante. Tutto sa di appena nuovo. Il calore del forno accoglie i clienti con amichevoli vampate di impasti farinosi. Io e mio fratello siamo autorizzati a ingannare l’attesa nell’atrio con un oggetto che non può sfuggire agli sguardi: una macchinetta mangiasoldi. Già, somiglia all’evoluzione di una lavatrice, più alta e squadrata, disegni di palme e mostri sui fianchi. Nell’occhio centrale, davanti alla riproduzione di una carabina che richiama in maniera irresistibile le nostre manine di piccoli guerrieri, c’è un mondo in miniatura. Un fondale disegnato, un paesaggio da selva tropicale nel quale si stagliano montagne e vulcani. Una terra fuori dal tempo popolata dalle sagome di mini dinosauri che sono le prede di una improbabile caccia. Mio fratello li scorge appena. Tocca a me, più alto, il compito di riempire il carniere.

I dinosauri nella narrativa – forse è il caso di precisarlo – esistevano ben prima di Jurassic Park. L’idea di un incontro tra l’uomo e i giganteschi rettili del passato remoto della Terra ha solleticato ben più di uno scrittore. E naturalmente molti registi. I viaggi a rettilandia sono stati architettati in valli e terre dimenticate dal tempo oppure favoriti da risvegli da sonni millenari e incursioni più o meno volontarie nel tempo-spazio.

Nel post moderno il dinosauro ha tolto lavoro alla stirpe dei draghi (che oggi invece è alla riscossa) affermandosi per il carattere scontroso, irascibile e apertamente distruttivo. Una fauna aliena, scarsamente compatibile con l’invasiva civiltà umana, refrattaria all’edilizia civile e al codice della strada. I mega rettili perciò I genere vengono mostrati in contesti marginali e incartati nella sospensione della credibilità. Dato che il mio ricordo è ambientato negli anni ‘70 posso citare i film Viaggio al centro della terra, La terra dimenticata dal tempo, Un milione di anni fa, La vendetta di Gwangi, Gli uomini della terra dimenticata dal tempo, Quando i dinosauri si mordevano la coda. Racconti per immagini che si ispiravano principalmente agli scritti di Arthur Conan Doyle e Edgar Rice Burroughs e mostravano “dinosauri in azione”, prodigi di modellismo e tecnica stop motion. Certo il realismo difettava all’occhio cinefilo, ma la fantasia aveva spazi di manovra ampissimi, senza dovere consegnare completamente vista & cervello all’emozione visiva. La tecnica dell’effetto speciale era parte dello stile del racconto, creava l’atmosfera, definiva qualità difformi di elementi della narrazione. Insomma una portata con più sapori, diversi gradi di cottura, niente di precotto e omogenizzato, una sorpresa. I dinosauri – mostri dell’impossibile – erano la quintessenza di questi prodotti ruspanti. Tentativi di addomesticare il passato più remoto in un’avventura fantastica per piccoli uomini. Ecco quindi che trovarsi di fronte un gioco interattivo che li citava era come rilanciare la sfida del racconto, un invito ad immergersi nei racconti oltre i limiti del possibile. Io, piccolo cacciatore bianco, grazie a quel cubicolo elettromeccanico che era una sorta di evoluzione del tiro a segno da fiere, potevo addentrarmi in uno scampolo di storia non scritta.

I ricordi sono vaghi e consumati. Di quella fantasiosa macchina da gioco, che in testa è vaga come una sceneggiatura incompiuta, mi restano più brandelli di sensazioni che dati spendibili per una ricerca definibile.

… Mi stringo al calcio del fucile fissato sul piano che si affaccia alla vetrina, l’oblò di un mondo nuovo eppure antichissimo. Strizzo l’occhio giusto (un punto d’orgoglio: non riesce a tutti i cecchini miei coetanei). La sagoma del tirannosauro avanza in orizzontale scorrendo dietro una barriera di frasche color spinacio. Lampadine intermittenti simulano lampi di eruzioni vulcaniche. Il fiato caldo del forno delle pizze inteporisce e insaporisce l’atmosfera offrendo un tocco inconsapevole di realismo epidermico. Mio fratello strilla: “Attento, lì!”. Un triceratopo striato di rosso trotta pesante attraversando tutta la piana. Il bersaglio è troppo grosso perché possa sfuggire. Centro! L’esultanza dura un niente perché il tirannosauro sguscia impedendo un tiro pulito. Ci tengo a quel trofeo dentato. Mi apposto sapendo che non potrà deviare dalla sua pista. “Attento là!”. Cala dall’estremità destra, aguzzo e deciso, l’antenato dei predatori alati: pterodattilo. È bello, ma troppo veloce per me: non riesco a calcolare l’altezza della sua traiettoria diagonale. Sfila via in un soffio. Come un’apparizione di morte selvaggia. Come un’immagine chiusa per sempre tra due battiti di ciglia. Autentica? Immaginata? Che importa: la preda mancata è la più bella del mio safari giurassico.

Gianlorenzo

One Million b.C., 1971, Midway
Non solo i flipper dovettero seguire la legge del 1965 che in Italia vietava la ripetizione della partita, ma anche tutte le altre macchine da divertimento automatiche a moneta. Tra queste, anche il diffuso tirassegno “One Million b.C.”, che la Midway diffuse nel nostro Paese in una versione particolare, e che attualmente potete giocareallo “Spazio Tilt!” di Bologna. È sempre presente l’unita’ di conteggio crediti, ma e’ possibile regolare il gioco di modo che non si vincano partite rigiocabili, ma tiri extra, oltre i 25 regolamentari. Purtroppo non è reperibile un manuale completo, ma gia’ lo schema elettrico, recante la dicitura ‘Italy’, ce ne mostra il funzionamento e le differenze. Stessa dicitura si trova scritta a mano internamente nel pannello dei punteggi, per indicare un diverso cablaggio rispetto alla normale versione USA.

Si ringrazia Federico Croci per le info

Mauro Corbetta

È un ologramma creato dalla Cultura Pop e dal (pessimo) umorismo milanese, ma se ce abbastanza corrente diventa vero in tutti i sensi. Tornerà?

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