Ricordi di stagioni priscoludiche

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Cover Retrò

Che cosa è il priscoludismo (Retrogaming italianizzato nda) se non il risultato dell’addizione: gioco + ricordo? Ok, senza nulla togliere al piacere della “prima volta” e al fascino del primievo informatico che tante avventure scatena ancora, il Big Bang del gioco recuperato ha la sua scintilla nelle memorie umane di chi c’era e ha giocato.

Questa è la linfa del fenomeno, e personalmente ritengo che non sia ristretta anagraficamente. Può valere per i ragazzi degli anni ‘70 ed essere applicata ai teenager dell’altro ieri. Al centro infatti c’è il contatto ravvicinato con l’oggetto gamico non identificato, fuori produzione, fuori mercato e proveniente da remoti pianeti extra console.

La riflessione prende le mosse da un recente incontro al RetroEdicola Videoludica Club che ha avuto come protagonisti Adriano Avecone (redattore di Super Console) e Andrea Pastore (promotore del Dizionario dei videogiochi). Tra un aneddoto e una rivelazione, si è approdati al tema del Retrogaming sul web e in particolare sul confronto tra chi fa ricerca e la variegata platea degli appassionati. Ecco che il “dialogo” sui social si è rivelato in generale scarno e scarso. I due ospiti evidenziavano che di fronte ad articoli referenziati, ricchi di spunti e con materiale non facilmente reperibile, i commenti brillavano in povertà. Tre le categorie principali degli input: questo ce l’avevo, bello/quanti ricordi, ci ho rotto il joystick.

Sarà che i social con struttura a scroll verticale, nel loro “pantano rei”, non offrono che vaghi appigli oltre il “mi piace”, “mi sbellico”, “m’inca…”. Sarà che serpeggia il terrore del “momento del dibattito tecno-teorico” di fantozziana memoria. Sarà che non ci sono grandissime occasioni per dividersi tra unionisti e confederati, vegani e carnivori, monotremi e brachiosauri. E mettiamoci anche un “Sarà quel che sarà” di Tiziana Rivale al Sanremo del 1983, per dire che una simile “partecipazione” in libertà non è automaticamente un valore. Il pollice in su fa piacere, fa anche Arthur Fonzarelli, ma contribuisce poco agli sforzi di chi cerca informazioni e tenta di ricostruire il dietro le quinte di tanti titoli. Con ciò non si pretende una disquisizione sugli effetti dell’ora legale nel clock del microchip o un saggio in codice ascii sulla permanenza video degli sprite. A volte basterebbe spendere un poco di tempo per riportare un’esperienza personale che dia colore, e anche sostanza, alla passione priscoludica. In due parole: Totem recall (aridaje con l’inglese) ossia momenti di videogioco passato da raccontare attorno al nostro piccolo focolare a 8 bit.

Parto io: anno 1985 viaggio scolastico nella Londra della Thatcher. Pattuglia larga e disordinata, gestita con pugno di ferro in guanto quadrimestrale dalla prof di inglese. Tour museali, saluti al Big Ben e ai beefeaters di guardia alla torre. Puntata per il cambio della guardia a Buckingham palace e dal celebrato Harrods (una botta consumismo esotico per noi boys & girls di provincia). Io però ero documentato e pronto all’assalto fino all’ultimo pence per altri bottini. Sapevo bene che la terra d’Albione era un avamposto informatico di tutto rispetto, tappa obbligata per agguerriti produttori e mercanti di software che diramavano le loro merci in tutta l’Europa continentale. E quindi durante la mia ora di libertà, invece di tenere un discorso allo Speaker’s corner in Hyde park sulla supremazia del gelato confezionato italiano, andai a caccia di cassette. Sì, la febbre informatica era alta. Dischi (nel senso di lp in vinile) mi interessavano, ma il cambio non era dei più favorevoli e poi i negozi adottavano un sistema borsistico che teneva alti i prezzi delle ultime uscite e delle star. In Italia vigeva il prezzo calmierato… forse per gli effetti del referendum per l’abolizione della scala mobile? Mah?

Ad ogni modo per la gioia dei miei occhi le vie londinesi offrivano vetrine in linea con le aspettative di un aspirante videogiocatore. Home computer in primo piano ovviamente. Il mercato console era ancora timido (numericamente parlando per la penisola). Varcai la soglia di un negozio che prometteva bene e il ricordo più vivido consiste nell’immagine di una parete tappezzata di cassette. Immaginate un mosaico pazzesco composto da decine di illustrazioni. Tutte artwork manuali, principalmente opera di arditi fantasisti dell’aerografo. Guardarle significava incendiare il desiderio di avventure elettroniche del teenager medio. Non importa se la copertina non faceva il videogame: anche se dovevi pilotare un asterisco anemico a destra e sinistra, in testa ti figuravi ai comandi di mirabolanti vascelli spaziali.

Scrutando la parete equamente suddivisa, si capiva che i tempi del campanilismo Spectrum e Commodore erano stati archiviati – se mai c’erano stati oltre le colonne degli articoli su riviste e quotidiani – in favore di un’offerta a tutto campo. Io commodoriano avevo una vasta scelta. Ma cercavo qualcosa di insolito, qualcosa che in Italia ancora non c’era e che potesse distinguere il mio souvenir d’oltremanica. Bene, il mio lato cinefilo fece pesare la sua autorità quando estrassi dalla pila dell’indecisione una lussuosa confezione di Automan. Videogioco ispirato alla nota serie televisiva Usa del 1983, che aveva al centro proprio una combinazione di computer e realtà virtuale. Durò una stagione striminzita, forse scontando gli stessi problemi di gradimento di Tron: protagonista troppo fluorescente.

Rammento che il giovane commesso in giacca blu si complimentò con un “good choice!” che fece fare le fusa al mio orgoglio da Michele l’intenditore (sketch dei Broncoviz nda). Tornai dalla terra degli angli con il mio trofeo, infrattato e imballato nello zaino per paura di uno smarrimento del perdibile bagaglio in stiva.

La copertina mostrava i protagonisti con la fantastica auto e lo sciccoso elicottero dai profili al neon che certificavano la natura virtual-computeristica dei mezzi. Sul retro, le foto di tre promettenti screenshot: una prua di auto sportiva in scenario 3d, un coloratissimo e misterico platform e una composizione stile MGM che sembrava dire “ragazzo, non è tutto qui!”.

Superato l’impatto emotivo della copertina, venne il tempo di andare al contenuto. Il gioco era in una custodia di cartone semi appiccicata ad una sagoma di polistirolo, al centro ne era stata tagliata una fetta rettangolare in modo da inserire la cassetta.

Infine il gioco. Non vi dico la trepidazione mentre il datassette macinava il nastro magico che avrebbe portato Automan in casa mia. Ero abbastanza cresciuto per non sognare una materializzazione di Chuck Wagner con la sua divisa di stagnola, ma le aspettative sul piano grafico c’erano tutte. Ebbene la schermata di presentazione mantenne la promessa. Il resto fu decisament unfriendly. Si pilotava un’auto che faceva curve a gomito (o a vomito, visto che nel telefilm i passeggeri finivano spiattellati sul finestrino). Il trucco stava nel curvare poco prima dell’incrocio ed era una faticata anche per soggetti con nervi a fior di pelle. Ammesso di esserci riusciti almeno una volta, si poteva accedere ai piani del divertimento: Automan – rappresentato da un ometto ingessato color blu – cangureggiava dentro uno schermo a delirio intermittente popolato di elevatori, trinciatori e soprattutto mostroidi tondeggianti e monocolore. Il controllo anche qui deficitario lasciava misere chance di cavarsela. In aggiunta – ma giusto un po’ posticcio – c’era il plot con tanto di clone cattivo che piazzava bombe a tempo da disinnescare. Come mi è stato spiegato, i programmatori del tempo costruivano giochi ai quali si apponeva il “marchio” che trainava lo sguardo del pubblico pagante. Non c’erano risorse e soprattutto il tempo per costruire giochi ad hoc. A volte andava bene, altre meno. Specie se consideriamo che il Commodore poteva far valere le sue potenzialità grafiche e sonore.

Potrei dirvi: è stata una solenne fregatura (ok, per le scarne risorse economiche di un ragazzetto, lo è stata) con specchietti per giovani allodole già ben cucinate. Oggi invece ritengo che la BugByte con sede nella città dei baronetti Beatles, la Liverpool di Penny lane, mi impartì la prima lezione pratica di ciò che anni dopo avrei chiamato “visual marketing”.

E la vostra storia?

Gianlorenzo Barollo

È un alter ego professionale attratto dall’amatorialità e gran cultore del perseverare nell’errore che ci fa umani. Per pochi ma belli è noto come autore del bestial seller “I pensierini di Mosè” e di “Triscaidecafobia”.

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