Tre bislacchi cowboy a spasso nel nulla

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Ante cyberpunk: La trilogia genetica di Mick Farren

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Pensare di racchiudere l’opera di Mick Farren (1943- 2013) in un singolo articolo sarebbe un inutile atto di presunzione. Servirebbe un papiro molto lungo per parlare di lui: musicista della scena rock anni 60 con i Deviants, scrittore di romanzi nel filone fantastico e fantascientifico dagli anni ‘70, giornalista ed editorialista, autore di fumetti messi al bando, biografie e guide ai capisaldi del rock (Elvis Presley e Gene Vincent), alfiere delle controculture, nella teoria e nella pratica.
 
Non è un caso che il racconto delle sue esperienze porti il titolo “Give the anarchist a cigarette” e che il suo nome sia legato alle Pantere bianche nel Regno Unito e allo storico free festival all’Isola di Wight nel 1970.
L’intolleranza di Farren per gli ordini costituiti e i menu delle esistenze pre confezionate non era soltanto un rigetto superficiale, una posa estetica da confinare nell’arte. Ma contro informazione, azione politica, sonora e militante. La carica ribelle che deflagrò nel punk del 1976-1977 lui l’aveva prefigurata e poi predicata in musiche e scritti. Soltanto che il suo slogan non era un rabbioso e depresso “no future”, bensì un battagliero: attenti al futuro!
 
Non è perciò azzardato definire la sua narrativa d’anticipazione come un “apripista” per il cyberpunk, che verrà coniato come genere soltanto più tardi. Nei suoi romanzi si intrecciano storia, mito, leggende, icone pop mixate e camuffate. Utopie e distopie si fanno sgambetti continui sulla pista di un racconto punteggiato da situazioni paradossali e non poca azione.
 
Tutti ingredienti che potete apprezzare nella trilogia dei Dna cowboys, pubblicata nel biennio 1976-77. I tre romanzi sono un concentrato di caratteri e situazioni che, lette oggi paiono già sentite, ma nel 1976, negli anni delle crisi energetiche, del piombo e dei botti degli attentati e delle logoranti strategie della tensione, prefiguravano danni e distorsioni di un mondo post globalizzato.
The quest of the Dna cowboys (La ricerca dei cowboys del dna) è il primo libro della saga e, va detto, fa poco per mettere a suo agio il lettore. Mancano le informazioni di base. Dove siamo? Non si sa, non si capisce. Pare un generico paesello della pianura americana, in un tempo definito soltanto dalla presenza di cowboys, saloon e un treno “a circuito chiuso”. Sì, perché Pleasant Gap (questo il nome del paese, una “Piacevole lacuna”) è una piccola isola circondata dal nulla. Attorno c’è una nebbia entro la quale la materia di sfalda e si annulla, per attraversarla occorrono dei generatori di stasi.
Come campa la gente di Pleasant Gap? Facile, coltivando i campi e praticando delle attività artigianali e commerciali tipiche di una piccola cittadina.
Per tutto il resto c’è lo Stuff Central, la Centrale della roba che teletrasporta quanto occorre, a pagamento. E la situazione non è per niente critica dato che ogni anno la Centrale chiede ai cittadini di aumentare le richieste (suona un po’ Amazon & co, vero?).
 
Billy e Reave sono due cowboy, due sani giovanotti annoiati dalle monotone certezze della vita di Pleasant Gap che, come nelle migliori tradizioni, decidono di partire per l’avventura. Un tuffo letterale nell’ignoto, senza mappe e senza idea della destinazione. Giusto per sfuggire a due esistenze già tracciate come di solchi di un 33 giri ascoltato migliaia di volte. Un viaggio che ovviamente non li lascerà indenni. Ma se l’alternativa è morire di noia… bè, Billy e Reave decidono l’avventura on the road.
La strada – inesistente – nella nebbia li conduce in altri luoghi. Alcuni sono territori piccoli quanto Pleasant Gap, altre sono regioni più vaste. Il paesaggio cambia, affrontano colline, deserti, campi di battaglia, paludi e insediamenti di varia natura: stazioni di servizio frequentate da camionisti paranoici, cittadine regolate da severi puritani e le rovine di una utopia popolata da teenagers immortali.
 
Ogni luogo è isolato, circondato dal nulla e caratterizzato da usi e costumi diversi, livelli di conoscenza e tecnologia che non si equivalgono. Sono dei mondi che non comunicano da tempo, separati dal collasso della materia e dalle difficoltà nel reperire mezzi di spostamento.
Naturalmente questo non vale per tutti: in questo generale apartheid esistono sensibili differenze di mezzi e condizioni, quasi delle caste. E la disparità non si rileva soltanto a livello materiale, ma addirittura genetico.
Si comprende progressivamente che il mondo frazionato attraversato dai due cowboys ha delle periferie, degli slums o favelas, e delle Las Vegas (come la città perennemente notturna di Litz). Lo scenario sarebbe post apocalittico, se non fosse per alcune isole di sfarzo e consumo esasperato che incarnano lo spirito (e il cancro) della modernità.
Una delle caratteristiche dei due cowboys è quella di essere piuttosto distaccati dalle vicende dei luoghi che attraversano, sono molto inclini al “vivi e lascia morire”, abbastanza impermeabili a concetti come valori e ideali.

Non dico che siano cinici e sfrontati, anzi sono sempre molto cauti, cortesi e discretamente empatici per la sofferenza. Ma è dura scrollarsi di dosso l’eredità della loro Pleasant Gap: vogliono sempre ritagliarsi la loro zona di conforto ovunque capitino. Cosa che è comprensibilmente difficile. Specie se a dirigere l’avventura c’è il frenetico Farren.

Un altro personaggio di rilievo è quello di AA Catto, una “finta” ragazzina appartenente ad una élite genetica in grado frenare il proprio invecchiamento e creare cloni umani condizionati per ogni necessità e perversione. Un soggetto amorale e sadico, che a partire dal secondo libro – Synaptic manhunt (Caccia all’uomo sinaptica) – darà il peggio di sé in tutti i sensi e le dimensioni. Una Lolita fuori controllo con il carattere dispotico di un faraone in erba e un credito illimitato in modalità “prime”.
 
Figura importante nella trilogia è Minstrel Boy, un vagabondo professionale, esperto nell’arte di arrangiarsi e quindi prezioso per due camminatori neofiti come i giovani cowboys di Pleasant Gap. Minstrel Boy è un buon tattico,conosce le trappole e sa individuare i punti deboli dell’avversario. Ha una buona parlantina e quando non basta, degli affilati coltelli da lancio per chiudere il discorso. Inoltre è uno dei pochi che sa dove andare: la nebbia non intacca il suo innato senso dell’orientamento.
 
Quarto soggetto di interesse è il fratello Jeb Stuart Ho, un killer cresciuto e addestrato dal Tempio, un’organizzazione monastica dedita a preservare l’equilibrio e l’armonia in un mondo non esattamente “a bolla”. Jeb entra in scena nel secondo libro con una missione omicida cruciale per scongiurare un disastro globale, e ha un ruolo cardine nel terzo e conclusivo romanzo: The Neural atrocity.
Soltanto nel terzo libro si comprenderà come funziona il mondo concepito da Farren, il motivo del suo bizzarro frazionamento e il senso dell’apocalittico finale. Davvero tanta roba per il 1977. Un anno in cui al cinema spuntava una saga che spingeva il mainstream della narrazione fantastica in una direzione più manichea, con buoni e cattivi ben distinti e parecchi elementi presi in prestito dal fantasy. Vale a dire Guerre stellari.
 
I Dna cowboys di Farren sono molto meno immediati e schematici, appartengono ad un mondo lontano, ma non troppo: la frenetica ricerca del piacere, la cattiveria come marchio di un ego contorto e le pretese di controllo totale rispecchiano una realtà che conosciamo tutti molto bene. È proprio per queste ragioni che risulta difficile immedesimarsi con serenità nei personaggi della trilogia.
 
Lo stile poi è veloce, asciutto e descrittivo ma senza fronzoli, come avrebbe fatto un Walter Scott per i suoi romanzi storici. Non fosse che Farren parla di una storia futura che non viaggia più sintonia, è un mondo globalizzato nello sfruttamento delle risorse, ma drasticamente diviso. Non solo in classi sociali, ma in comparti geografici.
 
Nelle pagine dei romanzi ricorrono scenari di grandezze architettoniche e miserie umane che diventeranno familiari ad un vasto pubblico una volta arrivato sul grande schermo Blade runner. Gli ambienti sono il riflesso degli stati mentali – spesso poco equilibrati – che li hanno generati. Luoghi senza eroi, ma attraversati da predatori o spostati, tutti votati a strappare un pezzetto di vita dalle pagine del tempo, nella speranza di trovarci il significato scritto sul retro.
 
Farren, definito come il “principe oscuro della pop fiction”, racconta il suo mondo in disfacimento con lo sguardo freddo del punk. È un mondo dove tutto è già concepito e manipolato, quindi l’autore può servirsi di riferimenti e assonanze ad altre opere. Per i due cowboys protagonisti potrebbe essersi ispirato alle numerose serie tv di ambientazione western, come Bonanza ad esempio. Nel personaggio di Jeb Stuart Ho è difficile non scorgere una leggera presa in giro di David Carradine nell’interpretazione di Caine, il mezzosangue cinese cresciuto in un monastero Shaolin, esperto di arti marziali, protagonista della serie tv Kung fu. AA Catto, come accennavo, è un serial killer inedito, creato assemblando le pagine di Vladimir Nabokov e il marchese de Sade. The Minstrel Boy invece, con la sua faccia pallida sotto il cappello, le guance scavate e lo sguardo penetrante, risuona un po’ del look del “secondo” Bob Dylan, quello country dark.
 
Ahi voi, con il finale arriva la brutta notizia. Pare che nessuno abbia pubblicato in italiano la trilogia. Potrete soddisfare la vostra curiosità leggendola in lingua originale. Ovviamente ordinandolo allo Stuff Central di fiducia.

Gianlorenzo Barollo

È un alter ego professionale attratto dall’amatorialità e gran cultore del perseverare nell’errore che ci fa umani. Per pochi ma belli è noto come autore del bestial seller “I pensierini di Mosè” e di “Triscaidecafobia”.

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