Il noir senza via d’uscita di Leo Malet
Fuori splende il sole, con qualche temporale d’intermezzo. C’è quindi una punta di malsano piacere nell’affacciarsi sull’abisso della letteratura noir mentre l’estate pandemica si assesta. E tra le stelle nere di questo firmamento torbido e cinico, brilla distinta quella di Leo Malet. Forse qualche campanello suona se aggiungiamo il nome di Nestor Burma, il dinamico protagonista di una serie di romanzi che hanno fatto la fortuna del suo autore. Malet è uno che il successo se lo è guadagnato senza scivolare sul velluto, anzi avanzando a colpi di storie su un terreno accidentato.
Le sue note biografiche sono già di per sé l’incipit di un romanzo: nato a Montpellier nel 1909, perde i genitori da bambino, viene affidato al nonno. Folgorato dagli ideali libertari, e venuto a contatto con il poeta André Colomer, Malet decide di trasferirsi a Parigi. Ci arriva minorenne di belle speranze, grande entusiasmo e pochi soldi in tasca. Si arrabatta con una serie di lavori di vario genere che comprendono anche la scrittura e il cabaret, finché riceve la folgorazione del Surrealismo. Aderisce al movimento e riesce a pubblicare un libro di poesie che ha una certa risonanza. Nel 1940 scoppia la guerra e finisce dritto in galera. Un tipo con le sue idee non può ben figurare né al fronte, né a piede libero.
Così conosce la prigione e il campo di concentramento. Quando esce, non essendo tempo per le “provocazioni” artistiche, si dedica alle emozioni forti. Malet, con pseudonimo americaneggiante e personaggi d’ambientazione a stelle e strisce (il protagonista Johnny Mètal è l’anagramma del suo nome), si inserisce nel mercato editoriale delle detective stories. Nel 1943 vede la luce la prima avventura di Burma, che avrà modo di svilupparsi in oltre 30 libri. Nel dopoguerra, suggestionato dall’impatto del romanzo di Boris Vian “Sputerò sulle vostre tombe” (scritto sotto pseudonimo e confezionato come uno scherzo letterario, ma oggetto di un processo per oscenità) Malet decide di cimentarsi in un ciclo di storie senza filtri, sfruttando al massimo la sua abilità nella scrittura diretta, in prima persona. Si tratta della trilogia nera: La vita è uno schifo (1947), Il sole non è per noi (1949) e Nodo alle budella (1969 ma scritto come gli altri negli anni ‘40). Tre storie di personaggi che si dibattono in un’esistenza senza speranza, rinchiusi in una gabbia di povertà e soprusi che lascia la caduta come unica via d’uscita. Nel secondo libro in particolare, Malet racconta la vicenda di Dede, orfano sedicenne nel ventre oscuro di una Ville lumiere ostile e grigia. Arrestato per vagabondaggio, assaggia la galera, esperienza che lo stesso Malet ha conosciuto negli anni dell’approdo a Parigi. La trama è quindi intrisa da parecchi riflessi autobiografici, tanto che forse potremmo definirlo un “what if”. Lo sguardo disilluso di Dede sul mondo incrostato dal degrado, dove neanche il sole si offre a riscaldare gli ultimi, coincide con i pensieri più foschi di Malet sull’impossibilita di riscatto in una società irrigidita in caste e proprietà. Nel romanzo echeggiano le analisi sociali de La Bestia umana di Emile Zola e la cadenza drammatica de L’ultimo giorno di un condannato a morte di Victor Hugo. Curioso osservare che il gruppo di giovani emarginati sia coetaneo di Alex e dei drughi dell’Arancia a orologeria di Anthony Burgess. Con la differenza che qui i legami sono troppo labili, logorati dal bisogno, per lievitare in una associazione (pur anche a delinquere).
Malet non offre nessun salvagente spirituale o morale nell’inscenare la sua sequenza micidiale di miserie e sfortuna. Ma agli spiriti liberi, ai giovani che ancora non si abbandonano alla corrente e alle stagnazioni del presente, il Dede degli anni ‘20 del ‘900 ha molto da dire: non importa quale sia l’esito, ognuno ha diritto alla lotta per conquistarsi il proprio raggio di sole.