Sguardi curiosi e guizzi creativi, per un poker di autori dal cuore di fanciullo

Dovremmo essere tutti concordi su un punto: uno degli stimoli fondamentali alla scrittura consiste nello spirito del gioco, ossia il desiderio di riassemblare le cose del mondo a proprio piacimento per crearne uno nuovo. Un atto dal potenziale innovativo che genera comunicazione e – non sempre, ma spesso – culmina nell’interazione con il lettore, una “relazione” a distanza che fiammeggia in suggestioni, emozioni, nuove idee.
Il gioco è un aspetto centrale non solo nel racconto ma nella formazione di ogni individuo. Nel bambino in particolare rappresenta un momento di approccio con la realtà, uno strumento per mediare tra le percezioni della vita e la nostra sensibilità interiore. Non conoscendo le dinamiche sociali, le leggi costituite, le implicazioni morali, nei giochi dei bambini è la libera dimensione del fantastico a dominare: i personaggi, gli scenari e l’ordine stesso del racconto non sono uniformati alle strette esigenze della comunicazione, ma all’espressione pura, senza inibizioni.
Lo svelamento del pittore e del poeta
Pablo Picasso disse: “A dodici anni sapevo disegnare come Raffaello, però ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino”. Il ritorno all’età dell’oro della creatività è stato l’obiettivo di molti artisti, un traguardo ambito che non significa soltanto recuperare “belle memorie” ma uno sguardo smaliziato, pieno di curiosità, pronto allo stupore per il nuovo. Le menti non irregimentate infatti elaborano in base alle logiche dettate dalla loro brevissima esperienza del mondo usando espressioni semplici e immediate. Nessun retropensiero, proprio come la pennellata dell’inchiostro sulla carta che è espressione di bellezza nella purezza del gesto.
Il poeta Giovanni Pascoli nella sua opera Il fanciullino mette in luce l’esistenza di questa voce interiore, espressione della natura più profonda dell’io: il fanciullo infatti non conosce, intuisce ossia reinterpreta e rinomina la realtà sulla base di un sapere innato. Tradotto: il bambino gioca e rimescola le cose del mondo in nuovo ordine. Per Pascoli è l’esercizio artistico più alto perché consente di toccare “corde” comuni a tutti gli uomini.
Non sono molti gli scrittori che possono vantare la capacità di dialogare e, a volte, far parlare apertamente il piccolo giocatore che è in loro. Soltanto i più grandi. La letteratura italiana ne ha una felice porzione di autori bravi a “tornare bambini” nello spazio di un racconto.
Neorealismo e realtà inventate
Cesare Zavattini (1902- 1989), voce del neorealismo italiano, sceneggiatore negli anni ’50 dei più noti film del genere, ad opera di Vittorio De Sica: Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano e Umberto D. Lo si potrebbe immaginare autore d’osservazione, scrutatore del sociale, legato alla cronaca, alla politica, alla denuncia sociale. Invece il buon “Za” nella sua narrativa sfoggia la lingua della poesia, in levitas e fantasia, con una spudorata tendenza alla deformazione dei fatti che si nutre del desiderio di destare stupore per specchiarsi nella meraviglia dell’interlocutore.
Nel 1937 venne pubblicato il suo secondo libro, curioso già dal titolo: “I poveri sono matti”. Un libro che riletto oggi conserva una impressionante freschezza di linguaggio, un approccio mobile nella narrazione che lo proietta fuori dal suo tempo. Capitoli brevi, scrittura asciutta, eppure densissima, ogni frase risuona dentro. Zavattini racconta la vita, le amarezze e gli amori di Bat, un lavoratore squattrinato – il redattore di un giornale o una casa editrice (proprio come la sua occupazione ai tempi) – e ne legge i pensieri in una serie di quadretti che spaziano dalle relazioni di lavoro ai sentimenti, dai patemi economici alle illusorie aspirazioni.
Bat odia il principale, mal sopporta i colleghi, ama la sua donna, il suo bimbo. Premesse banali, ma svolte con guizzi brucianti, che lasciano di stucco. Quando Bat è tormentato da un debito, la sua veglia partorisce pensieri come scintille: “Non può succedere niente di grave: all’orizzonte la luce sta giungendo da un pianeta grande un milione di volte il sole”. Un’imprecisione astronomica che però rovescia come un guanto le pene individuali nel cappello a cilindro del cosmo.
Oppure in un momento di tedio alla scrivania il protagonista si arrovella sull’errore e lo scorrere del tempo che descrive in questa maniera: “Se ne vanno le ore, battendo le ali. Addio ore sedici e trenta, non vi vedrò mai più”. Da un gesto innesca una riflessione sull’essere e l’appartenenza: “Stava guardando due camion carichi di cesti: nel passare la mano sulla fronte, un momento, sente di essere suo padre”.
E poi illusioni svelate che ritrovano altre verità; “Non è accaduto niente, le acque non sono uscite dai mari. Che importa che avvengano certe cose? Bisognerebbe morire e poi tornare un attimo al mondo per dire era vero. Se no, non importa che avvengano”. L’essere e il non essere piegati in un girotondo.
Zavattini scrive trame per fumetti (Saturno contro la Terra del 1936 è forse la prima striscia di fantascienza italiana), dipinge tele, colleziona mini quadretti, promuove l’espressione artistica naif, ossia non accademica, espressione autonoma di una visione interiore (proprio come il fanciullino pascoliano) che non abbraccia altro stile che quello spontaneo. Una dichiarazione di libertà che contraddistingue l’attività poco allineata del nostro: immerso nel cinema, però mai rapito dall’ingranaggio, pronto a manifestarsi là dove lo porta l’estro, l’intuizione.
Nel 1970 Zavattini architetta un’opera unica nel suo genere “Non libro più disco”: un incrocio mediatico tra la parola scritta e quella recitata, un intervento di pensiero che rimbalza tra il racconto e la provocazione. Non a caso è rimasto celebre per la “parolaccia” che campeggiava in copertina, richiamando appunto lo scandalo del primo “cazzo” deliberatamente pronunciato in onda sui canali pubblici.
Zavattini va oltre le avanguardie e anticipa la stagione della contestazione, è uno spirito libero che ama spiazzare, abbraccia e poi abbandona in un volteggio. C’è davvero una specie di danza nei suoi scritti che si tuffa nella vita, ma non si abbandona a vuote contemplazioni, gli piace manipolarla, sbeffeggiarla, a volte insultarla, ma senza odio. Torna sempre a cercare il sapore della vita. Proprio come un bambino fa con i compagni di giochi in cortile.
Dal “Non libro” all’inventore di libri illeggibili
Ascoltare una forma, odorare un colore, scardinare il ritmo per riassemblare l’ordine. La lunga carriera di Bruno Munari (1907-1998) rappresenta il cammino di un genio poliedrico: uomo d’arte, creatore di pubblicità, scultore di movimenti e luce, comunicatore senza parole. Munari è un Leonardo che non raccoglie il sapere in Codici cifrati, ma lo divulga nella pratica, lo condivide perché è nel confronto, nell’osservazione il cuore del sapere. Niente regole rituali, nessuno schema prefissato, la soluzione del problema è sempre stata sotto i nostri occhi, bastava guardare con un’altra prospettiva.
Munari ha attraversato il novecento italiano – guerre mondiali comprese – come un arco di fuoco creativo ininterrotto. Nel perverso giudizio italico, chi si occupa di tante cose diverse è inconcludente, insoddisfatto, poco determinato e quindi inaffidabile: la versatilità è vista con sospetto, quasi fosse un difetto. Munari insegna proprio il contrario: interessarsi a tutto, studiare finche si può e non stancarsi di combinare, mutare e soprattutto reinterpretare, giacché nulla è veramente nuovo, ma tutto è migliorabile.
Per portare avanti il processo creativo occorre una mente aperta, come quella di un bambino, un bambino che gioca. E Munari non a caso si occupa di bambini – i più piccoli, inclusi quelli che non conoscono il significato delle parole – e delle modalità di apprendimento. I suoi “libri illeggibili” sono opere senza parole fatte per comunicare al cervello sfruttando altri sensi oltre alla vista. Forme e colori assemblate che possono creare racconti non verbali sfruttando le reazioni cromatiche e le combinazioni tattili.
In gioventù Munari ebbe modo di accostarsi ai futuristi, senza restarne incasellato, anzi portò la sua “visione” nel settore della grafica e della pubblicità, spostando l’esercizio artistico sui canali di comunicazione di massa, che all’inizio del ‘900 appartenevano principalmente alla carta stampata. Ma il genio non è comprimibile: Munari infatti, soprattutto nel dopoguerra, spazia dall’arte al nascente design nazionale, non disdegnando di prodursi in trovate di stampo commerciale. Una delle belle caratteristiche del genio è quella di scantonare le divisioni tra “alto” e “basso”, il prodotto destinato alla vendita per la massa e la creazione di un’opera d’arte. Così Munari crea manifesti, oggetti d’uso quotidiano, giocattoli innovativi (il gatto Meo Romeo e la scimmietta Zizì: fatti in gommapiuma e snodabili sono precursori di tanti moderni gadget) ed elabora forme artistiche combinando materiali e dispositivi di varia natura.
Dalla riflessione sulla meccanizzazione della società, produce la serie delle “Macchine inutili”: meccanismi che innescano movimenti, parvenze di azioni, frammenti di processi che bizzarramente accosta alle funzioni fisiologiche, espressioni emotive o eventi naturali. Più che alla cibernetica, Munari pare interessato ad un discorso metafisico sulle qualità esteriori che definiscono l’esistenza. E forse al cuore stesso della parola “vita”.
L’indagine di Munari si richiama all’Universale, non lascia in quiete neppure un angolo sul quale si posa il suo sguardo. Il suo contributo all’arte cinetica (ne è uno dei fondatori) e all’arte concreta sono i frutti di una mente che scruta e riproduce in nuova versione passando dal pennello alla luce e alle sovrapposizioni cromatiche, abbandonando gli scalpelli per le forbici e il cacciavite. Un approccio che non nasconde il “fanciullino” curioso, anzi lo lascia sperimentare liberamente affidandosi al suo occhio disincantato, pronto ad offrire una “soluzione” in un guizzo estemporaneo.
Sul ponte delle favole a guardare la vita che scorre
Il passaggio da Munari a Rodari si regge su un legame certificato non solo per rima: il versatile artista della materia illustrò infatti le “Favole al telefono” di Gianni Rodari (1920-1980). Non mancavano mai nei sussidiari delle elementari degli anni ’70. Le favole rodariane sono invenzioni fuori dallo schema classico del fantastico, sono racconti che paiono cronache storpiate in un gioco tra amici, un gioco tra un amabile intrattenitore e un uditorio disposto a stupirsi.
Rodari infatti lo si ricorda spesso circondato da bambini, intento in uno scambievole dialogo nel quale l’affabulazione, la capacità di generare storie è il focolare attorno al quale tutti si riuniscono sentendosi partecipi. Sì, narratori e ascoltatori diventano una comunità che condivide un racconto, favola o “fola” che sia, la storia entra in un patrimonio comune al quale tutti possono attingere per farne versioni personalizzate, iperboli o rovesciamenti.
Rodari fu insegnante – a partire dagli anni 30 del ‘900 – ed ebbe modo di conoscere sul campo i metodi di educazione per comprendere che troppa “forma” rischiava di cancellare lo spirito creativo dei ragazzi. Da qui il gesto, apparentemente semplice, ma rivoluzionario di mettersi in ascolto, confrontarsi con le “piccole persone” che stavano sedute ai banchi. Dal dialogo con gli alunni, con i ragazzi, nasce l’approccio sganciato dal ruolo autoritario del maestro. Non si tratta certo di un mettersi alla pari dei bambini, Rodari piuttosto sa mettersi in circolo per sintonizzarsi sulle lunghezze d’onda dell’infanzia.
Nel dopoguerra si dedicò intensamente alle pubblicazioni per ragazzi, fu promotore dei Pionieri d’Italia, un sodalizio che richiama i boy scout ma con finalità educative calate nella realtà italiana, bisognosa di ricostruzione morale oltre che materiale, E quale migliore investimento di uno slancio formativo indirizzato alle future generazioni. Nel Manuale dei Pionieri (1951) – testo teorico e pratico, ricco di indicazioni per gli educatori e di iniziative alla portata di tutti – condensa la sua idea di educazione: un percorso che coinvolge attraverso l’azione, che stimola e incoraggia l’iniziativa, scandito in tappe, resoconti e premiazioni. Un percorso che coltiva i valori fondamentali della democrazia, il lavoro e la pace.
Non va nascosto che Rodari operava nell’area della sinistra, del Partito comunista e che la guerra fredda “divampata” già al termine della seconda guerra mondiale, divideva il nostro Paese in blocchi ideologici contrapposti. Da qui il “marchio” di lettura non appropriata apposto su buona parte dei suoi primi lavori: il Manuale si dice che venne pure bruciato in alcuni paesi come opera messa all’indice (l’antagonismo con l’impianto educativo cattolico e la Democrazia cristiana era palese). Però ecco che la qualità e la conoscenza vincono sulle barricate e il “rosso” Rodari non solo scrisse per quotidiani a diffusione nazionale, ma entrò nelle case degli italiani in voce e immagine attraverso trasmissioni dei canali Rai (ai tempi l’unico media sul territorio nazionale).
Chiaro, ordinato e divertente, ogni intervento di Rodari accomunava questa caratteristiche vincenti, di richiamo per i piccoli e gli adulti, genitori ed educatori in particolare. Un modo di fare che cercò di sintetizzare nella Grammatica della fantasia (1973): una summa delle arti del racconto fantastico disposte come in un gioco di costruzioni per stimolare l’immaginazione, essendo l’atto creativo una facoltà comune all’uomo. Non è quindi una analisi di testi con regole, piuttosto una ricerca degli elementi ricorrenti nelle storie e anche un possibile eserciziario, derivato da anni di pratica narrativa con alunni e gruppi di giovanissimi.
Le Favole al telefono (1962), di cui si accennava sopra, sono un perfetto esempio della sua Grammatica. Prendono le mosse dal resoconto serale di un commesso viaggiatore alla figlia. Anche se è distante la chiama ogni sera al telefono per raccontarle la “favola della buonanotte” e ogni volta le propone un resoconto bizzarro, oltre la fisica, ma non oltre la logica, Pensate al “Palazzo di gelato” di Bologna scomparso a furia di assaggi o al “Palazzo da rompere” di Busto Arsizio costruito per concentrare lo spirito vandalico dei giovanissimi. Invenzione e poesia (ambito nel quale l’autore mostra la sua inclinazione: le sue filastrocche sono sempre efficaci e d’impatto) si danno la mano ne “A inventare numeri”: qui la matematica si mette al servizio dell’immaginazione nel tentativo di inventare numeri per definire quantità fantastiche. Una sfida di fantasia che può riuscire a chi lascia parlare il fanciullo chiacchierone che tiene dentro di sé.
Dimezzati, rampanti e stralunati
Inserire nel nostro poker di “fanciullini” geniali Italo Calvino (1923-1985) potrebbe sembrare un azzardo: uno scrittore blasonato, intellettuale, partigiano, cosa può avere a che fare con il gioco bambinesco? Parecchio: per cominciare Il sentiero dei nidi di ragno (1947), è un racconto della Resistenza attraverso le vicende di un orfano di dieci anni. La prospettiva “dal basso” consente a Calvino un maggiore distacco rispetto agli eventi narrati e un impasto emotivo più profondo: Pin, il piccolo protagonista, si ritrova senza figure adulte di riferimento nel turbine dell’Italia straziata dalla guerra civile, è una barchetta che vaga conoscendo poco dell’oceano pieno di insidie creato dagli adulti. Nonostante ciò, non rinuncia mai a manifestare il suo carattere ribelle, insofferente agli schemi spesso non comprensibili dei “grandi” con le armi in mano.
Il romanzo è inscritto nell’area del neorealismo (e qui ci si riallaccia a Zavattini), ma proprio per l’uso di un punto di vista fresco, non intriso da motivazioni ideologiche o economiche, è possibile inserire Calvino nella sfera degli artisti “attenti alle sensibilità dei minori”.
Negli anni ’50 del secolo scorso Calvino scrive tre romanzi poi collegati nel volume I nostri antenati: il Visconte dimezzato (1952), il Barone rampante (1957) e il Cavaliere inesistente (1959). Opere collegate per il tono e lo stile favolistico, per quanto inserite in un contesto storico: il Visconte finisce spezzato in due durante una battaglia in Boemia contro i Turchi. Il giovane barone invece rifiuta un piatto di lumache e si intestardisce a non lasciare i rami degli alberi per farne sua dimora, tutto cio negli anni antecedenti l’avvento di Napoleone. Infine il Cavaliere inesistente cerca gloria come paladino ai tempi di Carlo Magno. La storia e la fantasia si mescolano come in un gioco che gradevolmente intrattiene, istruisce e regala un messaggio conclusivo morale, ma senza precetti. Piuttosto un invito al lettore a specchiarsi nella vicenda per interrogarsi.
Calvino è in sintonia con la verve gioiosa e sottile di Zavattini, sebbene in tono più composto. Può ritenersi sodale di Munari, avendo interessi culturali onnivori, senza preclusioni, anzi ben disposto a spingersi lungo la filosofia per arrivare alla scienza. Con Rodari le affinità sono l’amore per la favola, lo stile pulito, il piacere nel dispiegare il fantastico nei suoi angoli più surreali per conquistare lo sguardo meravigliato del lettore.
Nel 1963, periodo in cui l’economia italiana in pieno “miracolo”, Calvino pubblica le disavventure di Marcovaldo: il ritratto di un proletario stralunato, un ipotetico immigrato, reclutato come forza lavoro in una delle grandi aziende della città. Un personaggio semplice, pervaso dell’ignoranza dell’uomo senza radici, al quale sono sconosciute sia la natura e sia la natura artificiale delle regole del moderno convivere.
Marcovaldo è in un continuo stato di necessità, le sue (dis)avventure derivano dal desiderio di uscire dalla povertà. Ma il risultato è una sequela di equivoci disastrosi, di imprese bizzarre che hanno il sapore del sogno. Ed ecco che si passa da pasti a base di funghi velenosi, indigeste catture di piccioni, gite al sole con derive incontrollate, punture di vespe stuzzicate e una pantagruelica spesa conclusa in un delirio.
Ansie, desideri, timori dell’uomo moderno tradotte in una amabile tragicomica, per quanto con un retrogusto agrodolce: Marcovaldo è un vicino stretto di Bat de “I poveri sono matti”. E forse anche un precursore del più amaro Fantozzi/Fracchia di Paolo Villaggio, personaggio che riflette un altro capitolo storico del Bel Paese, ormai lontano dalle sensibilità “fanciullesche” del nostro quartetto.
Zavatini, Munari, Rodari e Calvino hanno segnato una lunga stagione di speranze e aspettative del secolo scorso con scritti e opere carichi di positività, di interrogarsi continuamente sullo stato delle cose. Fanciulli irrequieti e instancabili che ancora oggi rinfrancano con l’eco squillante delle loro voci dalle pagine dei libri.
