Il caleidoscopico mondo globale anticipato in una manciata di film degli anni '80

Quando ci siamo accorti del fenomeno della globalizzazione? Quando abbiamo avvertito che il vento dello sviluppo tecnologico ci stava spingendo verso terre inesplorate? La mia risposta la conoscete: negli anni ’80 del secolo scorso, nell’era pre internet. Anche se nell’analisi sociologica e geopolitica i sintomi del cambiamento epocale erano già stati individuati ed enunciati, è attraverso i mezzi di comunicazione di massa che questa consapevolezza ha iniziato a mettere radici nella coscienza comune.
Anno 1983: nelle sale cinematografiche approdano tre opere che forse oggi non sono spesso sulla bocca della critica e degli appassionati, però hanno celebrato delle brillanti connessioni tra tecnica e forma, aprendo strade nuove e offrendo preziosi spunti di riflessione sul presente in movimento.
Mutaforme, cabaret filosofici e video-virus
Partiamo con Zelig, scritto e diretto da Woody Allen. Un titolo che tutti hanno nelle orecchie per via della nota trasmissione dedicata alla comicità stand-up, un uomo solo sul palco.
Il film è una curiosa commedia che si traveste da documentario ambientato negli anni ’20 e ’30 del ‘900. Si racconta la vita di Leonard Zelig, affetto da una malattia nervosa rara che lo spinge ad assumere, nel pensiero e nella forma, le sembianze del suo interlocutore. Un uomo camaleonte, ma anche un uomo senza personalità, il prototipo del conformista all’ennesima potenza.
Se Zelig è un termine preso dallo yiddish che significa “benedetto”, ebbene il povero Leonard pare tutt’altro che sollevato dalla sua dote trasformista. Nonostante l’interessamento di una psichiatra (Mia Farrow), verrà sfruttato come “mostro”, una aberrazione da esporre per la sua innaturale capacità di inserirsi nei contesti più disparati in forza del suo “perfetto” mimetismo.
Allen prende stralci di cinegiornali e spezzoni di film dell’epoca inserendo se stesso e i suoi attori, con un’operazione tecnica che anticipa di 10 anni i trucchi digitali del noto Forrest Gump, i green screen e la Cgi che oggi sono pratica usuale della recitazione. Zelig-Allen si mescola alle immagini in bianco e nero di personaggi celebri e storici eventi, fa capolino da sbiadite fotografie d’epoca giostrate fra ingrandimenti e sfocature, finte usure di pellicola e accelerazioni.
Zelig fu un esperimento singolare di cinema ibrido che fece un discreto clamore, anche se la sua particolarità lo condannò nello scaffale delle curiosità. Eppure in un colpo solo Allen aveva affrontato il tema ancora abbastanza vergine della manipolazione delle immagini attraverso la tecnica e, nel contempo, aveva introdotto comicamente il “tarlo” della notorietà attraverso l’omologazione che è proprio uno dei leit-motiv odierni.
Stesso anno, oltre oceano, gli sfavillanti Monty Python offrono alle platee nientemeno che Il senso della vita. Dire che si tratta di un film a episodi sarebbe riduttivo: gli sketch sono filosofia in pillole, giochi di paradossi e brillanti sberleffi che inanella concetti religiosi, tormentoni morali e quesiti esistenziali, in un rimbalzare dall’alto al basso del pensiero umano.
La mano e l’occhio di Terry Gilliam alla regia offrono come sempre una varietà di stili e una mobilità di approcci nel racconto che sono proprie di altri tempi. La varietà e la qualità della scenografia, dei costumi e dei movimenti di macchina trasformano la narrazione in un movimento che scorre, danza: si mescolano il musical, la parodia, il falso contradditorio e soprattutto costantemente si sfonda la quarta parete. Gli attori si rivolgono al pubblico, strizzano l’occhio, pongono domande. Insomma, cercano apertamente di interagire con la platea come in uno spettacolo dal vivo.
“Il senso della vita” mostra l’architettura dei social che verranno, nella forma e nei contenuti: continuo cambio di approcci al tema, rapidi passaggi di generi e stili accomunati dal piglio aggressivo, dalla capacità di condensare in pochi passaggi (immagine, suono e testo).
Se nei primi due film vengono prefigurate le possibilità del mondo che verrà, in Videodrome di David Cronenberg si tratta invece del lato oscuro dell’informazione globale mettendo al centro il suo totem più potente: lo schermo. Ai tempi non c’era che il televisore quindi il racconto ruota sul linguaggio e la tecnica della trasmissione dell’immagine. Un circuito nuovo si apriva in quegli anni visto che alle televisioni commerciali si affiancava il mercato dell’home video, le cosiddette videocassette.
Ebbene Cronenberg mescola la paranoia di William Burroughs sulla viralità del linguaggio con la frenesia capitalista per lo spaccio dell’immagine a buon mercato (che lacerava i pilastri della cinematografia d’autore), per costruire una profezia malata sul potere dell’immagine fuori dal controllo dei suoi ideatori. La videocassetta che veicola il contagio non è soltanto un agente nocivo, ma un potente elemento di alterazione della percezione della realtà. La “nuova carne” di cui si tratta è il tessuto elettronico-digitale intriso di promesse di piacere e stille di dolore che somiglia a una riprogrammazione mentale e addirittura morfologica degli spettatori.
Il concetto può accostarsi allo Zelig, nel senso che si afferma il principio che il contesto modifica chi guarda e gradualmente lo uniforma. Però Videodrome è aggressivo, plasma senza consenso e trasforma l’uditorio in un veicolo del suo messaggio oppure lo distrugge. Cronenberg mostra vhs inghiottite dallo stomaco, televisioni imbottite di visceri, schermi incantatori che diventano labbra sensuali, una mano che si fonde con un’arma: il soggetto diventa oggetto, le parti si confondono per creare una nuova entità.
La frontiera dell’ultra umano è il territorio d’elezione della “poetica” di Cronenberg: la sua riflessione sulle mutazioni indotte e accidentali percorre quasi tutte le opere portate sullo schermo. Visioni di masochismo straniante e pratiche di auto annullamento come percorsi di rinascita che faranno proseliti (uno su tutti il febbrile delirio metallico di Shin’ya Tsukamoto composto in Tetsuo nel 1989). Quasi viene da chiedersi cosa avrebbe potuto fare il buon David con un palinsesto come Dune di Frank Herbert, dove alla tecnologia del cyber si sostituisce l’eugenetica selettiva.
Telecomandamenti aerei e parabole in via satellitare
Un 1983 ricco di suggestioni dicevamo, che mette mette a disposizione del grande pubblico le prospettive del futuro della comunicazione globalizzata. Internet era ancora un barlume fioco e distante, il desiderio di connessione però già fremeva in cerca di frequenze. Nella decade precedente le radio libere e le televisioni private erano esplose in fiorescenze colorate che avevano bucato la narrazione uniforme e paludata delle fonti ufficiali. Le voci del mondo nuovo stavano dietro una parete molto sottile, tutti potevano sentirle.
Nel momento in cui l’offerta dei media si moltiplica ecco che le possibilità di scelta si diramano in migliaia di rivoli mai considerati prima di allora: la disponibilità di canali e programmi alimenta la voglia di guardare. Il piccolo schermo acquista un potere tale da erodere i fasti del rito del grande schermo, schiacciare la radio e confinare i giornali. Sui tetti crescono foreste di antenne e nelle case dotate dell’indispensabile focolare televisivo le visioni si apparecchiano con il telecomando e il videoregistratore (nelle lande più avanzate già si disponde di tv via cavo e satellitare), amplificando il menu delle narrazioni elettroniche potenzialmente all’infinito.
Come in un gioco di riflessi, il cinema cercò di recuperare il terreno perduto rincorrendo le storie e le dinamiche del media televisivo. Non è un caso che negli anni ’80 produttori e cineasti si cimentarono in opere che miravano a creare un ponte non solo con la tivù ma con altri media, come il fumetto e la musica (la stagione dei videoclip era già nell’età dell’oro).
In tale fermento di contaminazioni sono da ricordare tre titoli. Il primo, datato 1986, è un film di genere, benché non sintonizzato su un solo registro: Terrorvision di Ted Nicolau infatti è un horror con tinte di commedia che ha come risultato un grottesco pop in squillanti tinte pastello. Un guasto all’antenna satellitare teleporta dalla televisione un mostro spaziale altrimenti destinato alla riconversione (una sorta di riciclaggio biologico). L’invasore si manifesta nella casa di una tipica famigliola americana benestante con una molesta voracità, che sommata alla sua qualità mutaforme, rendono il suo potenziale catastrofico devastante.
L’invasione è comunque facilitata dalla tasso di demenza della famiglia ospite: dal nonno paranoico e guerrafondaio alla madre tutta aerobica e smorfiette, passando per il marito edonista e scambista e la figlia, un clone di Cindy Lauper fidanzata con un metallaro minus habens. Il ragazzino di casa, che in opere simili rappresenta di solito la parte sana e sveglia, qui non si distingue dal mucchio: semi plagiato dal nonno, Sherman imbraccia il mitra, chiede aiuto a una presentatrice di film horror e lancia granate a caso, non disdegnando di giocare con l’alieno deforme.
La “parabola” di Terrovision (anche quella satellitare che è causa del danno) non concede spiragli per un lieto fine. Il disastro è annunciato visto che il nemico affronta un’umanità in forte stato confusionale, contaminata dallo zapping televisivo, svuotata della volontà di agire perché troppo occupata a guardare e a guardarsi. I protagonisti sono lo specchio della loro stravagante casa: eccessiva nei colori, kitsch nell’arredo, sfarzosa nelle decorazioni, un bell’involucro di plastica soffiata. Sono soggetti che manifestano gli stadi ultimi del degrado da teledipendenza, inseguono un’estetica voyeristica (guardoni allevati dalle tv multicanale per l’appunto) che non ha altra etica se non il piacere di qualche brivido di supposta novità. L’incontro ravvicinato del terzo tipo in realtà in effetti sembra una rimpatriata: l’alieno mutante e gli alienati mutati.
Quasi fosse una seconda via, sempre nel 1986, arriva l’oggi semi dimenticato American way (abbinato dal titolo italiano I folli dell’etere), noto anche come Riders of the storm (titolo di una nota canzone dei Doors). Il film diretto da Maurice Philips – che fino a quel monento si era fatto le ossa principalmente come regista di videoclip musicali – fiorisce nel pieno dell’era reaganiana di orgoglio a stelle e strisce e yuppismo. L’opera è stata classificata come commedia fantascientifica, ma appartiene più alla satira tipo Dottor Stranamore, anche se con toni meno corrosivi.
La trama è imperniata in una lotta di resistenza mediatica: un pugno di reduci del Vietnam insediati su un bombardiere B-29 solca i cieli diffondendo il segnale della loro stazione pirata anti sistema. Le trasmissioni sono un cocktail di immagini disturbanti, contro informazione e contro cultura con l’obiettivo di scuotere le coscienze addormentate dei cittadini al piano terra. Guidati da un ribelle doc come Dennis Hopper (padre dell’epocale Easy Rider), i guastatori volanti affrontano una sfida mortale con la fronda più reazionaria del potere (facilmente identificabile nel blocco repubblicano votato alla triade: dio, patria e denaro) in corsa per la Casa Bianca.
Ai tempi American way non circolò molto e la critica si divise: il caos come risposta all’oppressione sapeva troppo di disordine vandalico, anzi di anarchia elettronica. E gli stessi oppositori alla grandeur Usa faticavano a considerarla una via davvero “americana”. Eppure il film anticipa i gruppi di hacker (indipendenti o meno) che oggi scompigliano le reti, gli artisti situazionisti che usano mezzi non convenzionali (vedi Bansky) e soprattutto i focolai di rivolta che brillano nel panorama mediatico globale. Vampate anche di breve durata, certo. Ma testimonianze di una vitalità del pensiero alternativo che non si arrende agli schemi istituzionali del potere.
Il minestrone mediatico e lo spettatore famelico
L’idea di rappresentare lo sguardo composito sul mondo globalizzato solletica non poco i cineasti del periodo. E in tale contesto si motiva l’operazione del 1987 chiamata Amazon woman on the moon che riunisce vari registi. Un lavoro corale per quello che anni prima sarebbe stato definito un film a episodi. La formula infatti non è una novità assoluta, in Italia film di questo tipo si approntano già da decenni: chi non ricorda I mostri di Dino Risi? Oppure Rogopag che riuniva i talenti di Rossellini, Godard e Pasolini?
Nel 1976 un gruppo di autori e registi – ricordo tra gli altri Age, Furio Scarpelli, Ettore Scola Mario Monicelli, Luigi Magni e Nanni Loy – crea il singolare Signore e signori, buonanotte: il palinsesto serale di un immaginario canale terzo della Rai (allora sul territorio nazionale esistevano soltanto i canali Rai 1 e Rai 2) condotto dall’annunciatore Marcello Mastroianni. Un’occasione per una pungente satira sulla comunicazione televisiva e i poteri costituiti: lo stato, la chiesa e l’esercito. L’anno seguente John Landis sembra prendere a prestito il modello italiano – in realtà negli Usa la plurima offerta televisiva privata è consuetudine storica – e cucina in salsa pseudo televisiva una serie di sketch comici sotto il titolo The Kentucky fried movie. Un mazzetto di barzellette e parodie che ha come autori David e Jerry Zucker e Jim Abrahams, ossia le menti di film comici che spopoleranno negli anni a venire: l’Aereo più pazzo del mondo, Top secret!, Una pallottola spuntata, Hot shots! e anche qualche Scary movie.
Il miscuglio citazionista di Kentucky non è critica ma sfottò dell’industria dell’intrattenimento attraverso esagerazioni e distorsioni dei generi e delle etichette. Un concetto che sarà rinverdito 10 anni dopo nell’operazione intitolata Donne amazzoni sulla luna, come si accennava. Anche qui un manipolo di autori e registi radunano le loro storie sotto un “tetto” televisivo, la proiezione di un presunto film di fantascienza degli anni ’50. L’approccio potrebbe essere definito iperrealista con pennellate kafkiane, visto che ogni regista prende lo spunto da stralci di banalità quotidiane per virare nell’assurdo.
Al timone degli episodi, oltre a Landis, ci sono in particolare Carl Gottlieb (di suo menzionerei il preistorico Caveman del 1981), Joe Dante (Piranha, l’Ululato e Gremlins) e il produttore Robert K. Weiss (che firma alcuni dei momenti più comici). Il menu copre un ventaglio di situazioni che non fanno esclamare “E ora qualcosa di completamente diverso”, bensì paiono tenuamente legati dalle possibili disavventure dell’uomo medio. Sì, il bersaglio non è il vertice della società, ma la classe media che si guarda allo specchio e non si piace molto.
Abbiamo un signore di colore che infila una serie di inconvenienti che lo portano ad un volo dalla fatale finestra, una signora bene che fa shopping senza vestiti, il classico anziano teledipendente che finisce zappato nella foresta dei canali tivù (poteva essere un “tormentone” guida nel film e invece no). E poi varie gag: lo spot della moquette per calvi, il medico che si perde un neonato, BB King che raccoglie fondi per i neri che cantano senz’anima (no soul), videopirati che assaltano galeoni carichi di vhs, il figlio dell’uomo invisibile non proprio sbiadito e altre facezie.
Tra gli episodi meglio riusciti quello del giovanotto in cerca di intimità con la sua lei che vince il premio del milionesimo acquirente di preservativi (una sorta di momenti di gloria non desiderati), la ragazza al primo appuntamento che accerta la serietà del partner (il tema della privacy fa capolino), il funerale di un ometto grigio trasformato in uno show di vecchi comici da cabaret capace di trascinare nella gara di gag anche l’affranta vedova (l’oltraggio della memoria). E infine la rubrica d’inchiesta presentata da Henry Silva “Cazzate o no?” che propone l’ennesimo scoop su Jack lo squartatore (parodia dei programmi di approfondimento). Come extra c’è un mini educational sulle “malattie sociali” sullo stile dei film “didattici” anni ’30 con due protagonisti d’eccezione: Carrie Fisher e Paul Barthel.
Il risultato delle “Donne amazzoni sulla luna” è discontinuo per costituzione, un agglomerato che ha un tenue contenitore: il film che fa da sottofondo agli episodi non solo viene interrotto, ma viene attraversato da altre trame, saltato volontariamente dall’ipotetico spettatore guida a caccia di storie. Non c’è più imitazione del media televisivo, bensì una carrellata di temi in sequenza che sembrano sgomitare per farsi largo dallo schermo. Il movimento è l’aspetto chiave, un movimento continuo che ricorda lo scroll, il passaggio verticale che oggi è la pratica quotidiana nell’uso degli smartphone, ossia della consultazione del web.
Globali e compositi prima della rete senza fili
In questa opera corale del 1986 – quindi pre internet di massa – si possono cogliere alcuni aspetti determinanti del futuro rapporto tra media, autori e fruitori: in primis la consapevolezza che lo spettatore ha sviluppato una voracità tale da digerire quantità enormi di video spazzatura. Poi la possibilità di svuotare i generi e riempirli a piacimento in modo da forzare la linea della “sospensione dell’incredulità” fino a mescolare vero e falso. Orson Welles ha dato esempi mirabili di questo meccanismo nel cinema, ma l’aumento dell’offerta mediatica e la facilità d’accesso ai canali di comunicazione stava moltiplicando le occasioni di praticare il “gioco” della verità manipolata.
Un gioco che, a partire dal 1989, Enrico Ghezzi e Marco Giusti decidono di giocare alla rovescia ossia scegliendo sequenze da trasmissioni e cinema per ricostruire (cogliendo la necessità di trovare un filo conduttore da parte di spettatori sempre più alienati) un racconto più o meno coerente, più o meno a tema: il mitico Blob su Rai 3, cinegiornale mutante, lo ricordate tutti, vero?
Ecco quindi che le “Donne amazzoni sulla luna”, titolo ai tempi non certo al top dell’attenzione, e oggi non proprio in cima alla pila dei film di culto, può essere identificato come esempio di cinema della globalizzazione ante litteram: un’opera che anticipa il linguaggio ammaliante del web partendo dal vociare delle reti televisive, un calderone di mini racconti di comicità a facile presa spaziando dal soft erotico al violento parodico che ricalcano tanto materiale da social media. E infine la rappresentazione di un mondo che comunica, ma non dialoga: ogni storia procede per sé con le sue dinamiche. A legare tutto in un unico paesaggio siamo noi spettatori, entrati nell’età (in)consapevole della globalizzazione.
